Israele e il (non) segreto dell’arsenale nucleare

L’Assemblea generale delle Nazioni Unite chiede a Israele di aprire i suoi impianti nucleari alle ispezioni dell’AIEA. Non è la prima volta che si indaga sull’arsenale di Tel Aviv, che ufficialmente non esiste. Una (non) segretezza protetta da anni.

di Stefano Nanni

Il 4 dicembre scorso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato a larga maggioranza – 174 sì, 6 no e 6 astensioni – una risoluzione che chiede a Israele di aprire i suoi impianti nucleari alle ispezioni dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA).

Non solo. Nella risoluzione Israele è anche esortato a diventare uno stato-parte del Trattato di Non Proliferazione Nucleare (NPT) al quale non partecipano, insieme a lui, anche altre tre potenze nucleari: Corea del Nord, India e Pakistan.

UNA LUNGA STORIA

Tra i non aderenti al NPT c’è una differenza sostanziale: mentre Corea del Nord, India e Pakistan hanno una politica di difesa nucleare ufficiale e dichiarata, Israele ha sempre negato di possedere bombe atomiche.

La sua posizione è infatti ambigua, anche se è ampiamente risaputo all’interno della comunità internazionale che Tel Aviv ne possegga ben più di una.

Secondo uno studio del 2010 dell’Institute of Strategic Studies di Londra, citato dal The New Yorker, Israele possederebbe oltre 200 testate nucleari di una gittata da 4.500 miglia: circa 7.242 chilometri.

La storia del nucleare israeliano ha radici lontane nel tempo, e non è facile da ricostruire dato il velo di ambiguità che l’avvolge.

Secondo un documento pubblicato dalla Federazione degli Scienziati Americani (FAS) nel 2007, l’idea del nucleare fu messa in pratica per la prima volta nel 1949, quando un’unità speciale del reparto scientifico delle Israeli Defence Force avviò alcuni scavi nel deserto del Negev alla ricerca di uranio.

Nel 1952 fu creata la Israel Atomic Energy Commission, sotto la guida di Ernst David Bergman, figura che diede un impulso significativo all’estrazione e alla lavorazione dell’uranio degli anni successivi.

L’obiettivo dichiarato era il raggiungimento delle capacità necessarie per costruire la bomba, al fine di porre rimedio all’accerchiamento dei paesi arabi circostanti: “Non dovremo più essere trattati come agnelli pronti per il macello”.

Ad assistere Israele c’era allora la Francia, che in quegli anni stava sviluppando i propri reattori nucleari ad uso civile.

Tra i vari accordi conclusi nell’ambito di questa partnership vi fu anche una clausola sottoscritta in segreto nel 1957, che prevedeva la costruzione di un impianto di ritrattamento chimico nel deserto del Negev, a Dimona.

Il suo sviluppo avvenne nella più totale segretezza, cosa che causò frizioni tra le due diplomazie, con la Francia che faceva pressioni affinché Tel Aviv rendesse pubblico il suo programma nucleare. Disaccordi che portarono Parigi a disimpegnarsi dalla partnership una volta conclusa la costruzione dell’impianto.

Nel 1958 un aereo militare americano lo sorvolò e gli Stati Uniti scoprirono per la prima volta le intenzioni nucleari israeliane.

Le spiegazioni ufficiali furono vaghe, e soprattutto varie – “una fabbrica tessile, una struttura metallurgica, una stazione agricola”. Solo nel 1960 Ben Gurion ammise che a Dimona “c’era un centro di ricerca nucleare per fini pacifici” e, stando a quanto riporta il documento del FAS, intorno alla metà degli anni ’60 la CIA rivelò alla presidenza americana che il programma israeliano di costruzione di armi nucleari “era ormai un fatto confermato e irreversibile”.

Ed è proprio a Dimona che nacque la prima bomba nucleare israeliana, probabilmente nel 1968.  

LA POLITICA DEL ‘NOT BE THE FIRST’

Avner Cohen, storico israelo-americano, scrive in un articolo su Foreign Policy, in collaborazione con Marvin Miller, che  alle dichiarazioni di Ben Gurion seguirono visite annuali americane alle strutture di Dimona.

Fu l’inizio della collaborazione con gli Stati Uniti, che si trasformò nell’alleanza strategica tuttora vigente, formalizzata con la Guerra dei Sei Giorni del 1967.

Tuttavia, la struttura ‘opaca’ del nucleare israeliano non mutò, nonostante l’interesse degli americani alla non diffusione delle armi atomiche, che si formalizzò con il Trattato internazionale di Non Proliferazione firmato nel 1968.

Anzi, la segretezza fu perfezionata nel 1969, proprio perché gli Stati Uniti condividevano l’importanza dell’arsenale nucleare per la sicurezza di Israele.

In quell’anno – scrivono Cohen e Miller – in un incontro segreto, fu stipulato un patto tra l’allora presidente americano Richard Nixon, il suo consigliere per la Sicurezza Nazionale Henry Kissinger, e il primo ministro israeliano Golda Meir.

Secondo l’accordo – la cui esistenza è stata rivelata soltanto nel 1991 dal giornalista Aluf Benn – gli Stati Uniti avrebbero tollerato il programma nucleare israeliano, rinunciando a fare pressioni, a condizione che questo fosse rimasto sempre segreto. 

Da allora Tel Aviv ha però mantenuto una politica di ambiguità, mantenendo una posizione  ufficiale secondo la quale “Israele non sarà il primo paese a introdurre bombe nucleari in Medio Oriente”, non specificando se ciò voglia dire che non le creerà, non ne rivelerà l’esistenza oppure non le userà per primo.

Inoltre non ha mai permesso agli ispettori dell’AIEA di accedere agli impianti presenti sul territorio israeliano.

IL CASO VANUNU

Nel corso degli anni gli israeliani che hanno tentato di fare luce sulla questione del nucleare hanno affrontato una dura repressione.

Il caso più emblematico è quello dell’ex- ingegnere nucleare Mordechai Vanunu, grazie al quale il mondo venne a conoscenza del programma israeliano nel 1986.

Egli riuscì a consegnare alcune foto dell’impianto di Dimona al quotidiano britannico Sunday Times, che le pubblicò insieme a un articolo sul piano segreto di armamento nucleare che Israele ormai portava avanti da anni.

Ricercato dal Mossad (i servizi segreti israeliani) fu arrestato a Roma in circostanze ambigue nello stesso anno, sequestrato e quindi riportato in Israele, dove in seguito a un processo svoltosi a porte chiuse fu condannato a 18 anni di carcere, 11 dei quali in totale isolamento, con l’accusa di spionaggio e alto tradimento.

Uscito di prigione nel 2004, nonostante abbia scontato l’intera pena, da allora è sottoposto a forti restrizioni della sua libertà di movimento ed espressione, la violazione delle quali continua a costargli ulteriori mesi di incarceramento.

Dichiarato prigioniero di coscienza da Amnesty International nel 2007, Vanunu infatti non può, ancora oggi, lasciare Israele.

Le autorità inoltre lo diffidano da avere contatti con persone che non siano israeliane; dall’usare telefoni cellulari e internet; dall’avvicinarsi ad ambasciate e consolati, e dal superare una distanza di 500 metri dai confini dello stato israeliano.

Una libertà ‘condizionata’ che lo ha portato a richiedere la rescissione della sua cittadinanza nel 2010: richiesta alla quale la Corte Suprema ha risposto con un perentorio “no”.

Il caso di Vanunu non è isolato.

Avner Cohen, citato in precedenza, fu interrogato per ben 50 ore dalla divisione della sicurezza del ministero della Difesa nel 2001, quando si trovava in Israele per una conferenza sul suo libro “Israel and the Bomb”, pubblicato tre anni prima. Nel 2002 invece Yitzhak Yaakov, ex ufficiale dell’Esercito, fu condannato a due anni di prigione per aver parlato della questione nucleare nella sua autobiografia.

Casi che confermano quanto sia delicato l’argomento e quanta forza Israele sia disposta a mettere in campo per la protezione di quello che può essere definito un “segreto di stato” di vecchia data, ma che in fin dei conti così segreto non è.

Lo confermerebbe la recente risoluzione dell’Assemblea Generale, giunta in seguito all’annullamento della conferenza sul bando delle armi nucleari in Medio Oriente, che si sarebbe dovuta tenere a Helsinki a metà dicembre. 

Tutti gli stati arabi vi avevano aderito, incluso l’Iran. Ma il 23 novembre gli Stati Uniti hanno annunciato che non ci sarebbe stata alcuna conferenza a causa delle “tensioni politiche della regione in questo periodo e della posizione diffidente di Tehran riguardo al Trattato di Non Proliferazione Nucleare”.

Ma, secondo lo stesso Iran e alcuni paesi arabi, come riporta il Guardian, il reale motivo della cancellazione della conferenza risiederebbe proprio nel rifiuto da parte di Israele a prendervi parte.

20 dicembre 2012