Israele e la diffamazione dell’ebraismo: lo stupro del popolo palestinese

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Di Norman Pollack. Information Clearing House – Counterpunch. A partire dal 1967, Israele ha costruito una società e uno stato di apartheid; si è assistito a una proto-nazificazione della politica e della prassi quotidiana, in cui le camere a gas sono sostituite dalla continua negazione del diritto alla vita da parte delle vittime di un’ideologia etnocentrica e razzista, che si compie attraverso l’umiliazione di un intero popolo: una fonte di disumanità senza fine, in cui il genocidio è somministrato goccia dopo goccia. Ma il getto si fa sempre più torrenziale, ora che la miseria e la disperazione affondano nella coscienza degli oppressi, quasi come una strategia consapevole di umiliazione ancora più acuta, nella speranza che qualche segno di resistenza fornisca il pretesto e la scusa per una dimostrazione di forza e un conseguente giro di vite.

I bombardamenti su Gaza l’estate scorsa, una nuova Guernica in un prolungato esercizio di dominio, con l’artiglieria al posto delle bombe in picchiata, è stato solo un esempio dell’odio e del disprezzo che gli Israeliani nutrono per i Palestinesi; sentimenti malati, che vanno dalla volontà di punirli fino alla psicosi di vederli schiacciati come formiche. Gli Israeliani non concedono alle vittime il rango di esseri umani, e forse non li vedono neanche come vittime, ma come meri oggetti da annientare; e impartiscono dure lezioni, attraverso i rastrellamenti, le distruzioni delle case, la sottrazione di terra, che elevano la scienza dell’umiliazione ad arte. Ho letto recentemente l’articolo di Jodi Rudoren, apparso il 18 ottobre sul New York Times, “East Jerusalem, Bubbling Over With Despair,” [Gerusalemme Est esplode di disperazione, N.d.T.], una cronaca che tiene conto del punto di vista palestinese, diversamente dalla linea editoriale, e che va quindi preso in considerazione, data la consueta parzialità del quotidiano.

Si riferisce solo alla soluzione attuale e non ai decenni di oppressione che costituiscono la causa degli avvenimenti odierni. La giornalista scrive: “Gerusalemme Est, a lungo cuore pulsante della vita palestinese, oggi è l’anima impetuosa del loro malcontento”. I primi episodi di accoltellamento, che non mi sento di condannare, in quanto comprendo la disperazione di una gioventù altrimenti impotente, senza dignità né opportunità, che vede la dignità sua e dei suoi genitori calpestata quotidianamente e cerca quindi di reagire come può, si verificano “all’interno dei confini della città”, in un quartiere in cui vive, per esempio, “Fuad Hamed, uomo d’affari di successo che condanna l’ondata di violenze, ma condivide la frustrazione e l’alienazione che sono il motore di questa rivolta”. Ben detto, e il senso delle mie parole precedenti è che anche le mani degli Israeliani sono sporche del sangue di questi crimini. I giovani non prenderebbero mai un coltello in mano se non fossero sottoposti a continue provocazioni, sapendo che saranno uccisi sul colpo e che la vendetta si abbatterà anche sulle loro famiglie. Ma per gli israeliani sono solo animali, niente di più.

(Cito anche un episodio che non compare nell’articolo di Rudoren: un adolescente armato di coltello, colpito da numerosi colpi di arma da fuoco, che giace morto al suolo; intorno, una folla festante che gli grida: “Figlio di puttana!” “Figlio di puttana!”)

“Analizziamo la situazione dal punto di vista di Abu Hamed, che non può certo essere definito un estremista. Ha 44 anni, insegna all’Università ebraica, “dirige due cliniche riconosciute dal sistema sanitario israeliano e vive in una bella casa tra le colline di Sur Baher [quartiere con 18.000 residenti]. Dal suo balcone, vede ‘l’espandersi degli insediamenti illegali costruiti sulla nostra terra’, e l’orribile muro costruito da Israele, che divide Sur Baher dalla Cisgiordania occupata. (Rudoren  si spinge addirittura ad usare il termine “occupata)”. Il racconto di Hamed  prosegue: “In questi giorni, vede anche i soldati israeliani che hanno bloccato due delle uscite del quartiere e istituito un check-point sulla terza, per perquisire le automobili [e le persone, c’è una foto che mostra un uomo che si solleva la maglietta di fronte a un soldato, armato di fucile], rendendo la divisione psicologica ancora più concreta”. E questa è una zona residenziale di Gerusalemme, non c’è la miseria che si riscontra nella città vecchia e altrove. Hamed poi dichiara: “In questo modo, smetti di sentirti un essere umano”.

E ancora: “Il problema sta nelle politiche perseguite, perché un palestinese ha la percezione costante di essere sgradito nella sua città; ci sono tante problematiche che non ci consentono di sentirci parte del tessuto urbano. È UN CONTINUO MASSACRO DALL’INTERNO” (dice con enfasi) È una forma di genocidio praticata su base quotidiana, e la frase “non ci consentono di sentirci parte del tessuto urbano” mi ricorda il sistema di segregazione che ho vissuto sulla mia pelle, crescendo in Sudamerica. Rudoren, cercando di riportare i sentimenti di entrambe le parti, giunge alla conclusione che i Palestinesi di Gerusalemme si sentono “come dei figliastri, trascurati sia dalle autorità municipali che dall’Autorità Palestinese, con sede in Cisgiordania, a cui è impedito di operare sul territorio di Gerusalemme. Si sentono respinti e non coinvolti nella vita della città”. Una separazione forzata, che induce un sentimento di frustrazione che si può solo intuire, a causa della sciatta militanza e della mancanza di autorevolezza di Ramallah.

Rudoren spiega: “Le istituzioni civiche e culturali si sono spostate anni fa nella città di Ramallah. Nella Gerusalemme est araba, ci sono poche scuole e il fenomeno dell’abbandono scolastico è molto diffuso. È difficile ottenere un permesso per ampliare la propria abitazione; lo scorso anno sono state demolite 98 strutture abusive. Il 75% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà”. È questo il fattore determinante, che può essere moltiplicato per i vari territori, dallo squallore delle condizioni di vita al blocco che impedisce persino ai medicinali di entrare a Gaza. I Palestinesi con il permesso di residenza possono spostarsi all’interno del territorio e questo non fa che accentuare ai loro occhi le differenze tra il loro stile di vita e quello degli israeliani. Secondo Sari Nusseibeh, ex presidente della Al Quds University: “Da una parte, hai libero accesso alla società israeliana; dall’altra, hai una maggiore percezione della discriminazione che viene praticata ai tuoi danni. I problemi maggiori sono riscontrati dai palestinesi musulmani, la cui dignità, autostima, e posizione sociale vengono perennemente mese alla prova”.

Il risultato? La Rudoren ammette senza difficoltà che la causa dei recenti episodi di accoltellamento “che hanno ucciso sette ebrei israeliani, cinque nel territorio di Gerusalemme, dal primo ottobre”, così come “I sospetti assalitori (almeno 16)…  uccisi dagli israeliani… cui vanno aggiunti altri 20 palestinesi morti durante scontri con le forze di sicurezza” va ricercata nel passato. Inoltre, “Gerusalemme est è diventata un focolaio di violenza dal luglio 2014, quando un gruppo di estremisti ebrei ha rapito e ucciso (bruciandolo vivo) Muhammad Abu Khdeir, sedicenne del quartiere di  Shufat”. Nei mesi successivi, si sono registrati 1600 casi di lancio di pietre, con 700 arresti. Quest’anno, dal 13 settembre al 15 ottobre, 380 persone sono state arrestate, “171 dei quali sono minori”. L’articolo non cita la reazione delle forze di sicurezza armate, che non si fanno scrupoli a sparare colpi di arma da fuoco.

Ma contestualizza: “La parte araba della città non è un unico centro, ma una serie di satelliti”. Il quartiere di Hamed è tra i migliori; molti sono sovrappopolati, stretti nella morsa della povertà, talvolta isolati. Come si è arrivati a questa situazione? La giornalista lo dice chiaramente: “Israele ha sottratto territorio alla Giordania durante la guerra del 1967, e ha esteso i confini di Gerusalemme da 6 a 70 chilometri quadrati. L’annessione dei territori da parte di Israele è stata condannata dalle Nazioni Unite, e la comunità internazionale, in massima parte, considera quei territori occupati.” Aggiunge, “Oggi, 200.000 ebrei vivono al di fuori dei confini originari di Israele, la maggior parte nei nuovi insediamenti, considerati illegali, come quelli che il Signor Abu Hamed vede dal suo balcone; altri 2.000 sono sparsi nei territori palestinesi”.

Gerusalemme è a tutti gli effetti l’incarnazione dell’apartheid: nell’unica uscita rimasta nel quartiere di Hamed, ci sono ogni giorno “interminabili file di automobili… e l’attesa può durare secoli”; poi, si riporta l’esempio di “Moussa Dabash, 44 anni, che dirige una ditta di bus turistici, il quale ha dichiarato di essere stato perquisito sotto la camicia e tra le gambe”. È un microcosmo di dipendenza imposta e di umiliazione: “Se avessi protestato, mi avrebbero accusato di volerli accoltellare; ho chiesto al soldato perché lo stesse facendo e mi ha risposto: ‘perché siete dei terroristi’”. Hamed  ricorda che “lo scorso anno una coppia è morta in un incendio con i suoi due figli… perché i vigili del fuoco devono raggiungere Sur Baher da un altro quartiere palestinese e non da quelli ebraici più vicini”.

Questi non sono i valori dell’ebraismo a cui sono stato educato, fondati sulla “d” di democrazia in ogni ambito, soprattutto su questioni di razzismo e povertà. Noi conosciamo la discriminazione e dovremmo provare maggiore empatia per gli altri discriminati, per i neri, per i poveri, le minoranze, i lavoratori in generale, e per tutti coloro che lottano contro l’intolleranza di un’America erosa dal consumismo sfrenato, dalla xenofobia, e che lo fanno rifugiandosi nella bellezza ed esaltando l’eccellenza in ogni campo dell’intelligenza umana, dallo sport all’estetica, fino alla partecipazione all’universalità della creatività sotto qualsiasi forma. Questa non dovrebbe essere prerogativa degli ebrei, ma ha costituito l’essenza stessa del cosmopolitismo, che ci rendeva liberi dal dogmatismo di stampo sciovinista. Gli ebrei, osservanti o laici, si identificavano con l’uomo comune, usando con disinvoltura la definizione di antifascisti negli anni ‘40 e, prima della mia adolescenza, negli anni ‘30. È questo l’ebraismo che Israele ha diffamato e, mi permetto di dire, dissacrato, per cui lo stupro di Palestinesi, a cui faccio riferimento nel titolo, non si riferisce solo ai loro corpi, ma alla loro identità e dignità di persone: è la loro stessa essenza ad essere violata.

Riporto il mio commento all’articolo di Rudoren sul New York Times:

In quanto ebreo, mi vergogno profondamente di Israele e del trattamento che riserva ai palestinesi. Israele rappresenta il volto più corrotto del giudaismo, religione che prima degli anni ‘60 si caratterizzava per un profondo UMANESIMO che si rifletteva nella conoscenza, nell’osservazione, nella musica, nelle arti in generale, nell’educazione scientifica e matematica e nelle scienze politiche. Ormai, gran parte di questo patrimonio è svanito, mortificato dalle azioni, dall’alterigia, dalla morale di Israele, che condiziona tutta la comunità ebraica.

Gli israeliani hanno dimostrato di essere capaci di ogni crudeltà, hanno interiorizzato i sentimenti più oscuri sorti dopo l’Olocausto, solo che adesso i Palestinesi sono ciò che un tempo erano gli ebrei e gli israeliani rappresentano l’arroganza di coloro che li perseguitarono. Non si fanno scrupolo a dare prove di forza muscolare, a gioire dell’umiliazione dei Palestinesi, senza rendersi conto che questo non solo contravviene ai principi della Torah, ma rivela anche la malignità interiore e psicologica del dominatore.

I bastoni e le pietre, persino i coltelli, possono essere interpretati solo come simboli di disperazione, mentre le forze di sicurezza israeliane sono dotate di armi letali e all’avanguardia e ricevono il preciso ordine di utilizzarle di riflesso, dimostrando tutto lo squilibrio nei rapporti di forza. Come si è arrivati a questo? Sono stato giovane negli anni ‘40 e ‘50 e vedevo Israele come il paradigma del socialismo democratico (anche se ero ignaro delle operazioni di pulizia etnica e del razzismo nei confronti dei palestinesi). Oggi le cose sono decisamente peggiorate.

Traduzione di Romana Rubeo