Israele e la teoria dell’Altro

Memo. Di Amelia Smith. Nel 1896 Theodor Herzl scrisse “Lo Stato ebraico”, un libro che avrebbe cambiato per sempre la vita dei palestinesi. Credendo che gli ebrei sarebbero stati sempre oggetto di antisemitismo se avessero formato una comunità separata, o vissuto come minoranza in altri paesi, Herzl propose che avrebbero dovuto avere una terra che appartenesse unicamente a loro.

Egli prese in considerazione un certo numero di paesi e li ha portò tutti davanti al Congresso Sionista, un’assemblea designata per aprire il dibattito sulla Questione ebraica. Alla sesta conferenza sionista nel 1903 il governo britannico offrì al nascente Movimento Sionista il territorio in Uganda, una delle sue colonie dell’Africa orientale.

Di recente le vite degli israeliani e degli africani e di come loro possano, o non possano, vivere insieme sono state sotto i riflettori. Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, ha promesso che ostacolerà, arresterà e deporterà gli immigrati illegali in Israele.

I membri del partito Likud sono determinati a terminare una barriera d’acciaio lungo il confine israelo-egiziano, progettata per impedire ai profughi di entrare nel paese. Israele sta estendendo la capacità del centro di detenzione Saharonim in previsione di un afflusso. Da domenica potrebbe essere possibile che gli emigranti illegali siano imprigionati fino a tre anni senza processo o deportazione. Chiunque aiuterà gli emigranti potrebbe ricevere una pena detentiva che parte da cinque e che si estende fino a quindici anni.

Nonostante l’orrore provato da molti israeliani, la recente ondata di sentimento anti-immigrati non si limita ai partiti politici. Il giorno successivo all’annuncio di Netanyahu, una casa a Gerusalemme con dentro dieci eritrei è stata incendiata; quattro dei residenti sono stati ricoverati con ustioni e per gli effetti dell’inalazione di fumo. La violenza prosegue con attacchi di bombe incendiarie a Tel Aviv, su un asilo nido e su dei blocchi d’abitazioni in aree a intensa immigrazione nel sud della città. In una feroce dimostrazione, lo scorso mese, dei negozi che sono gestiti o che sono al servizio degli emigranti sono stati saccheggiati e distrutti.

I residenti hanno lamentato differenze culturali fra loro e la comunità africana. Il terrore dell’HIV, la musica alta di sabato, il bere, le risse e un aumento della criminalità sono le ragioni riportate per i disordini. Ma le cause dell’attacco sono molto più profonde.

Lo scorso venerdì, in un’intervista al quotidiano Maariv, Eli Yishai, il ministro degli Interni, è stato citato per aver detto: “La maggior parte di queste persone arrivate qui sono musulmani che pensano che il paese non appartenga a noi, bianchi”. E ancora, “Gli infiltrati, assieme ai palestinesi, ci porteranno presto alla fine del nostro sogno sionista”.

Con molta probabilità si riferiva allo stesso sogno che Herzl aveva esposto nel suo libro nel 1896, quello di una terra solo per il popolo ebraico. Di fatto ci sono molte regole in Israele che rinforzano quest’utopia: molti blocchi residenziali in Israele hanno cartelli con scritto “per soli ebrei”. In Israele è illegale per un ebreo sposare un non-ebreo.

Ma la violenza si estende oltre la religione, con alcuni africani ebrei come bersaglio. Come parte di una marcia della destra, il 23 maggio, Hananya Vanda, un’israeliana con origini ebraiche etiopi, è stata attaccata. In seguito i manifestanti hanno affermato che non sapevano che fosse ebrea, come se questo in qualche modo potesse giustificare il loro comportamento.

Gli ebrei etiopi s’intrecciarono con la storia d’Israele quando il governo li scelse per emigrare nel 1984-85 durante la rivoluzione etiope. Mentre il governo israeliano teme le dimensioni della popolazione palestinese, la bilancia è stata fatta pendere a favore degli ebrei africani. Un’altra ondata è arrivata nel 1991 come parte dell’Operazione Salomone.

Nonostante il fatto che essi si siano sempre considerati ebrei, furono obbligati a convertirsi ad una forma d’ebraismo più ortodossa. Una questione vivamente discussa è stata: gli “ebrei neri” possano essere accettati in base alla legge del ritorno? Oggi, gli israeliani etiopi vivono generalmente in aree povere con case a buon mercato e mutui convenienti da parte del governo, con molti operai impiegati in lavori umili.

Non sono soltanto gli ebrei etiopi che soffrono per la discriminazione da parte di Israele, nonostante il miglioramento delle relazioni dal 2003. Gli Abayudaya, o ebrei ugandesi, che hanno una storia di conflitto con cristiani e musulmani, dicono che adesso il loro problema più grande è Israele, che non li riconosce come veri ebrei. Polemicamente, è stato circa nello stesso periodo in cui la Gran Bretagna stava prendendo in considerazione di dare l’Uganda come patria ebraica, che gli Abayudaya si sono formati. Nonostante gli fosse stata promessa una patria come agli israeliani, a loro non ne è stata data nessuna.

Poiché la storia si ripete, la violenza attuale presenta similitudini sorprendenti con ciò che hanno subito i palestinesi in Israele. Nel 1954 erano i palestinesi ad essere “infiltrati”, una giustificazione per il loro esilio. Questo è diventato il termine con il quale ci si riferisce comunemente ai rifugiati africani. Ai palestinesi non è stato permesso lavorare in aree ebraiche sotto il mandato britannico; i palestinesi israeliani subiscono discriminazioni sia in ambito lavorativo sia scolastico. Coloro che vivono in Cisgiordania e a Gaza sono i più penalizzati.

Lo scorso venerdì sono stati scarabocchiati dei graffiti sulle pareti di una scuola bilingue nel villaggio arabo-ebraico di Neve Shalom con scritto “morte agli arabi”, “vendetta” e “Kahana aveva ragione”, fra le altre oscenità. A circa quattordici vetture sono state forate le gomme in un attacco ad un villaggio, descritto come fondato sul principio della coesistenza, che sostiene l’accettazione e l’accordo fra gruppi religiosi.

Anche la comunità ebraica bianca sta mostrando segni d’intolleranza. Di recente, il centro commerciale Ramat Aviv, a Tel Aviv, ha impedito l’ingresso ad un uomo ultra-ortodosso.

È difficile dire se i politici stanno alimentando le fiamme della violenza o vogliono sfruttarla per fini politici; le due cose non sono incompatibili fra loro. Se gli attacchi sono una minaccia religiosa, razziale o culturale, sembrano avere un filo conduttore e questo è il sospetto della differenza e della paura di qualcuno al di fuori di loro. In entrambi i casi è difficile capire come una comunità che vive così vicino all’Africa non vuole interagire e vivere pacificamente con le persone che sono attorno.

La retorica dei politici israeliani sta raccontando di un paese che è costantemente in guardia contro una minaccia da parte dei loro vicini. Una minaccia che sta crescendo di pari passo alla negativa opinione pubblica dei loro vicini arabi, alleati con l’Occidente e che disprezza le recenti attività da parte di molti fra gli stessi israeliani.

Una convenzione del 1951 delle Nazioni Unite sui rifugiati, di cui Israele è un firmatario, mette in chiaro che gli stati che accolgono dei rifugiati hanno una responsabilità nei confronti del loro benessere, salute, diritti, libertà, e accesso ai documenti. I rifugiati meritano perlomeno un accesso ai diritti umani ed è dovere d’Israele fornirglielo.

Gli attacchi da parte di politici e di pochi israeliani che si sono assunti la responsabilità di agire, serviranno soltanto a svilire e demoralizzare i profughi. L’effetto a catena sarà più criminalità e disperazione e aumenteranno le tensioni della comunità. Costruire un muro fra il confine israelo-egiziano sarà l’unica causa che porterà i rifugiati ad adottare misure più pericolose per entrare nel paese, per poi subirne le conseguenze. La storia non ci ha raccontato abbastanza su quanto l’erezione di mura può fare alla società? Questo clima di paura e di odio renderà il problema peggiore, non migliore.

Traduzione per InfoPal a cura di Giovanna Zagami