Israele festeggia, la Palestina piange.

Riceviamo da don Nandino Capovilla di Pax Christi e pubblichiamo.

Lo stato di Israele festeggia il suo sessantesimo compleanno. Ma nella stessa casa, la Palestina, altri non possono fare festa, perché non hanno né stato, né terra, né libertà, né diritti riconosciuti. Non hanno nulla da festeggiare: vivono sotto occupazione da 41 anni o nei campi profughi da sessanta. Ma questa storia semplicemente non si può raccontare.

Ci proviamo noi con QUESTO NUMERO di BoccheScucite che è davvero speciale, perchè i contributi, a partire dal bombardamento mediatico di queste settimane, fanno giustizia di una storia censurata che dobbiamo conoscere e diffondere. Abbiamo ridotto, tagliato e sintetizzato analisi lucidissime che vorremmo leggessero Napolitano e Walter Veltroni. Ma anche a te stavolta chiediamo cinque minuti in più. "E’ semplicemente un nostro dovere morale -dice Ilan Pappe- per strappare dall’oblio un’orribile storia di pulizia etnica, un crimine contro l’umanità che si vuole negare e far dimenticare al mondo".

SOMMARIO BoccheScucite n.57

EDITORIALE    Il mondo rovesciato

A VOCE ALTA    Rassegna stampa . Lo stato che c’è e quello che manca. L’ospite d’onore e la palestina lontana.

HANNO DETTO    Historia magistra vitae?

LENTE D’INGRANDIMENTO    E lo stato si chiamerà Israele…

ABBIAMO LETTO    A Gaza è in atto una pulizia etnica. 

IN BREVE     Così si muore di assedio 


 

 

voci dalla Palestina occupata

BoccheScucite

 

quindicinale di controinformazione

numero 57 – 15 maggio 2008

 

Il mondo rovesciato

 

Fino a questo punto, no. Non avevamo previsto di vedere un simile spettacolo. Praticamente è come se tutto quello che accade non contasse più nulla e il mondo… si rovescia.

 

Ci hanno detto che è ora di finirla coi pregiudizi su Israele, che nessuno vuole riconoscere e tutti vogliono distruggere, tutti irrimediabilmente antisemiti. (Walter Veltroni)

Ci hanno detto che Pagliara è stato invitato dall’Ordine dei giornalisti a Torino sul tema: come le notizie da e su Israele vengono deformate. (Infopal)

Ci hanno detto che ‘nel ’48 ogni sforzo è stato compiuto dagli ebrei per convincere la popolazione araba a rimanere e a condurre insieme a loro una vita normale e che il rifiuto della convivenza non è israeliano, ma arabo e palestinese (Piero Ostellino)

Ci hanno detto che è giunto il momento di smetterla con le critiche e ringraziare Israele per tutto il bene che fa alla palestina e al mondo (Famiglia Cristiana)

Ci hanno detto che dal ’48 gli ‘arabi profughi’ possono considerarsi ‘arabi erranti’, e che male non fa (Gad Lerner)

Ci hanno detto, ad ogni tg e nei fiumi d’inchiostro dedicati non alla memoria del 1948 ma solo alla nascita d’Israele, che chi si permette di criticare la politica del governo israeliano è semplicemente un antisemita.

Poi ci hanno detto che chi critica Israele, lo fa allo scopo di screditarne l’immagine e delegittimarne l’esistenza.

Poi, ci hanno ripetuto ossessivamente che praticamente tutti quelli che in questi giorni prendono la parola vogliono la distruzione di Israele e non ne riconoscono l’esistenza.

 

In questo mondo, in queste parole alla rovescia non ci ritroviamo! Quale pezzetto, quali informazioni, quali connessioni logiche sono scomparsi?

 

Certamente mai si era vista un’euforia mediatica  una tale esaltazione dello Stato D’Israele, con il Presidente Napolitano a braccetto tra l’euforica colona di Maalè Adumin (insediamento illegale a Gerusalemme) e neo parlamentare Fiamma Nirenstein (“Questa Fiera è bellissima, è la nostra vittoria sui cattivi”) e l’ambasciatore israeliano Meir (“Napolitano, vero supporter di Israele, è un esempio per tutto il mondo”).

E chi ha provato timidamente solo a ricordare che quella stessa data, il maggio 1948, ha segnato non solo la vittoria e la nascita di un nuovo stato, ma anche la pulizia etnica di un popolo e la cancellazione di uno stato sempre negato, è stato dileggiato da tutti i media: “E’ vergognoso: se solo parli dei Territori Occupati, sei antisemita” (Dario Fo).

Ma chi si è permesso di dare per scontato in questi giorni che quelli che si sono inseriti in un dibattito sull’opportunità o meno di invitare lo Stato d’Israele a celebrare alla fiera del Libro i suoi sessant’anni di esistenza, siano tutti antiisraeliani? Chi ci ha insinuato, e perché, l’idea che i boicottatori non della cultura israeliana, ma di un evento circostanziato, siano antisemiti? O addirittura desiderosi di veder scomparire lo Stato ebraico?

 

Questi signori, vittime e insieme fautori di questa allucinante impasse mediatica non ci hanno detto che  ai palestinesi invitati ad applaudire  alla Fiera la nascita di Israele, è stata  implicitamente negata l’occasione di un dibattito alla pari, mentre sarebbe bastato dedicare questi sessant’anni ai due popoli, alle loro culture, alla loro sofferenza, alla necessità impellente di dialogo, di ricordo e di una narrazione vicendevole di memorie diversamente dolorose.

 

Non ci hanno detto che in quella terra martoriata gli eventi storici hanno riguardato e riguardano due popoli, e non uno solo.

Non ci hanno detto che un popolo continua ad occupare le terre dell’altro, dilatando di anno in anno, di giorno in giorno quei confini che mai si è dato, da quel maggio ’48.

Non ci hanno detto -ma ormai non stupisce più nessuno- che questo popolo di topi in gabbia  è stato obbligato a chiudersi nelle città per tutta la durata dei festeggiamenti in Israele, così come avevano appena sigillato i milioni di abitanti della West Bank perchè poco più in là gli israeliani potessero fare la Pasqua tranquilli.

Non ci hanno detto che mentre a Gerusalemme Ovest impazza la festa, a Gerusalemme Est si celebra una tragedia da milioni di profughi, memoria collettiva che meritava perlomeno di essere citata e di sventolare come segno e sogno di pace a Torino come sul pennone del Campidoglio. Anche stavolta, solo il TG3 ci ha mostrato immagini contemporanee ai festeggiamenti d’Israele, per un’altra “ricorrenza”, la Nakba, con un’enorme chiave che ricorda i 700.000 profughi scacciati dai loro 400 villaggi e immagini del muro e dell’occupazione che nessun altra rete si è sognata di mandare in onda a memoria di una “catastrofe” iniziata proprio in questi giorni ma mai terminata.

Non ci hanno detto che mentre Il Riformista distribuiva in edicola il gadget della bandiera israeliana, i missili che hanno sulla carlinga quella stessa bandiera, continuavano indisturbati i loro quotidiani raid di morte, sicuri che nessun giornale avrebbe trovato una riga libera per raccontare dell’oppressione di milioni di esseri umani così come l’uccisione della giovane Fatima, madre di sette bambini, colpita alla testa e lasciata sanguinare fino alla morte dalle forze di occupazione che hanno impedito l’arrivo delle ambulanze.

 

Tutto questo però avrebbe comportato il fatto che ‘ci avrebbero dovuto dire’  poi altre parole… rispetto della legalità internazionale, diritto al ritorno, ritiro dalle colonie, abbattimento del muro, fine dell’occupazione. Semplicemente, ancora una volta, le parole usate dall’Onu nelle sue 73 risoluzioni, tutte disattese dall’unica democrazia del Medio Oriente. 

Allora, in questa allucinante montatura

 

Ma allora non fermatevi proprio ora nella lettura: QUESTO NUMERO abbiamo faticato a condensarlo ma vale la pena di non perdere la rassegna stampa di BoccheScucite, la chiarezza con cui Ali Rashid (aggredito a Primo Piano dalla violenza verbale di Furio Colombo) vi spiega l’origine di questa vicenda politica e non culturale di Torino e Moni Ovadia sottolinea qual’è il vero problema che viene nascosto; E se avete solo 1 minuto, godetevi solo la chiarezze di Ilan Pappe nell’intervista in ABBIAMO LETTO, per capire che “è nostro dovere strappare dall’oblio la semplice ma orribile storia della pulizia etnica della Palestina, un crimine contro l’umanità che Israele ha voluto negare e far dimenticare al mondo. Non tanto per un atto di ricostruzione storiografica o per un dovere professionale, ma per una decisione morale, in assoluto il primo passo da compiere se vogliamo che la riconciliazione possa avere una possibilità e la pace possa mettere le radici nelle terre lacerate di Palestina e Israele”.

 

 


Tagli, ritagli e frattaglie

Cari amici,

in questi giorni di bombardamento mediatico (quasi) a senso unico, scorrendo gli articoli che a fiumi inondavano la carta stampata sui sessant’anni dalla nascita di Israele, abbiamo  sperato di  rintracciare  almeno qualche RITAGLIO di giornale che, pur rallegrandosi per l’evento, si occupasse davvero della situazione reale in cui Israele è implicato come Stato occupante, senza veder attuati i soliti TAGLI di disinformazione. Niente da fare, purtroppo.

Ecco che allora possiamo fornirvi, commentata tristemente da noi, solo qualche FRATTAGLIA comparsa sui maggiori quotidiani e settimanali nazionali.

 

“La minaccia al diritto di esistere di Israele non è uno scherzo da accogliere con indulgenza o indifferenza. Come scrive Gerald Steinberg: ‘il più grande successo d’Israele in sessant’anni di indipendenza è la sopravvivenza, essere sulla mappa come stato sovrano”. Negli ultimi due mesi abbiamo visto studenti rabbinici massacrati, duecentomila israeliani sotto la minaccia dei razzi palestinesi e una decina di kibbutzim uccisi durante le incursioni di Hamas. La fiera doveva accogliere l’eco di questa mattanza”. (Giulio Meotto, Il Foglio, 6 maggio).E pensare che c’è chi lo ritiene la seconda potenza mondiale, quanto a esercito, sviluppo e livello tecnologico…Ma il ritornello di queste settimane ci ha convinto tutti che Israele, se esiste, sopravvive, minacciato da tutto il mondo, che vorrebbe in poche parole vederlo scomparire.

“II trattamento speciale riservato a Israele è una spietata radicalità di linguaggio. Così la condizione degli arabi in Israele diventa per forza di cose “raccapricciante apartheid”, la barriera difensiva antiterroristica che ha fortunatamente fatto crollare il numero di attentati suicidi in Israele si trasforma nella vulgata in un terrificante “muro di segregazione e di infamia”. Si avalla così, persino da premi Nobel come Saramago, la grottesca equiparazione tra Gaza ed Auschwitz. Manca solo che la politica verso i palestinesi venga ribattezzata «pulizìa etnica» come in Ruanda. E tutto questo non è antisemitismo?” (Pierluigi Battista, Corriere della Sera, 8 maggio). Finalmente tutta la stampa ha smesso di parlare di occupazione militare e assedio di Gaza, di distruzioni di case e colonizzazione infinita. Basta con questa storia del muro di più di 700 chilometri… Israele va trattato come tutti gli altri Stati!

“E’ giunta l’ora di dire grazie a Israele!(…) Un’ oasi che 7 milioni di uomini e donne custodiscono in un oceano di sabbia in cui vivono 325,5 milioni di persone. Un’ oasi che lotta per sopravvivere, eppure versa goccia a goccia un esempio tra le dune. La stessa pratica del ritorno, l’immigrazione di massa verso Israele degli ebrei sparsi per il mondo, è un modello di apertura alla diversità.(…) Un tale anniversario chiede di sorvolare la polemica spicciola per cui Israele è vaso di ogni virtù o fonte di ogni nequizia. (…) Le guerre difensive (1948-1967-1973), il terrorismo e l’irredentismo palestinese, l’ostilità degli stati che negano a Israele il diritto a esistere, hanno creato una “sindrome del nemico” che la politica sfrutta come collante di una società frammentata perchè inclusiva e aperta. Se un giorno i paesi arabi sapranno meditare la propria storia e farsi competitivi nella gara della pace, molto del merito andrà ad Israele” (Fulvio Scaglione, Famiglia Cristiana 11 maggio). Anche la Chiesa l’ha capito. E Famiglia Cristiana -approvata e messa in grande evidenza con euforica soddisfazione da tutti i quotidiani- cancella con un solo editoriale un fiume di sofferenza che i cristiani della Terra santa riversavano sulle nostra coscienze tranquille, decenni di denunce della chiesa di Terra santa di un’occupazione e uno strangolamento di cui è responsabile solo Israele.  Fulvio Scaglione non teme di esagerare nelle affermazioni, dimenticando purtroppo importanti sue prese di posizione sulle pesantissime discriminazioni e le  ripetute violazioni di ogni diritto umano di cui lo Stato israeliano si continua a macchiare. Che Israele sia responsabile della fuga di migliaia di cristiani, che preti e religiosi siano trattate da terroristi senza il Visto, non conta nulla. Adesso l’assedio di Gaza non c’entra, W Israele, anzi, grazie Israele!

Ma non finisce lo stupore: ecco come nell’inserto per i bambini delle  parrocchie italiane, lo stesso Avvenire si cimenta perfino nello spiegare ai piccoli come interpretare tutto quello che accade in Terra santa.

“A Torino urlano slogan pesanti contro gli ebrei e bruciano le bandiere israeliane e statunitensi. Ma perché? Israele è uno Stato che si trova in una situazione molto delicata e difficile, perché deve convivere con lo Stato palestinese: le due nazioni non hanno confini troppo precisi. Tra israeliani e palestinesi ci sono persone che lottano per la pace ma anche molte persone che preferiscono restare divise. Certe mosse del governo di Israele non sono piaciute agli altri Stati del mondo, soprattutto quando si è fatto ricorso alla forza dell’esercito che, nel tentativo dì cercare terroristi e guerriglieri palestinesi, ha fatto negli ultimi anni molte vittime tra i civili.” (Avvenire 7maggio, Popotus).

 

“Si può criticare Israele senza passare ipso facto per nemici degli ebrei, ci mancherebbe. Ma non suona già un po’ singolare che passi come ovvia l’espressione “criticare Israele”? Cosa diremmo di un commentatore straniero che criticasse l’”Italia” o lo “Stato italiano”? Ricorderemmo l’elementare distinzione tra stato e governo. (…) Ma davvero l’antisionismo non ha nulla a spartire con l’antisemitismo? Possibile che ogni governo israeliano commetta lo stesso errore, si macchi degli stessi crimini, affronti la questione palestinese nello stesso catastrofico modo? (Pierluigi Battista, Corriere della Sera, 8 maggio). Sulla bocca di tutti la libertà di criticare Israele, o quasi…

“Non è una mostra letteraria, perché è diventata politica. Dedicata com’è alla fondazione di uno Stato, non alla letteratura, all’intelligenza, alla cultura di questo Stato, ma allo Stato, fondato sessant’anni fa.  Ma c’è anche un altro Stato, che non ha mai potuto esserlo, che è stato smantellato, gli hanno portato via le terre, hanno cacciato gli abitanti. (…)

La cosa incredibile è che ti tacciano di fare politica dal momento che ricordi che esiste anche la Palestina. Allora o fai della politica oppure sei antisemita.  E’ il discorso di metterti subito una bella etichetta per poterti tirar fuori da ogni dialogo, da ogni discorso: è così palese che è vergognoso.” (Dario Fo,  Il Manifesto,  8 maggio 2008) 

Fuori dal coro, Dario Fo non si riesce a trattenere: è una vergogna.

“Questo pregiudizio procede lungo un confine sottile, che separa le critiche ragionate e per questo legittime alle politiche dei governi israeliani, da quelle ideologiche, manichee: Israele ha sempre torto, la “colpa” è sempre sua, anche quando il coraggio di chiudere un accordo manca alla controparte o quando magari formazioni arabe fanno fuoco le une contro le altre. Le conseguenze pericolose si annidano nell’atto più oscuro di questo fenomeno, nel fatto che oltre alla critica a Israele spesso viene chiamato in causa l’intero popolo ebraico, rischio evidente di un risorgente antisemitismo” (Walter Veltroni, Il Giornale, 8 maggio).Non essendoci più comunisti, per lo meno è finita la classica difesa dei diritti dei palestinesi da parte della sinistra….Walter Veltroni è chiaro: Israele sarebbe vittima di una critica pregiudiziale e questo è logicamente… antisemitismo! 

E poi, su cosa vorreste poi concretamente criticare chi occupa e distrugge da 40 anni un intero popolo?

“Smettete di odiare Israele. E’ un errore e un crimine. E chi ha mai impedito di criticare Israele? Anzi, è stato lo sport nazionale. Soltanto che poi queste critiche dovrebbero sostanziarsi in qualcosa di concreto” (Fiamma Nirenstein, Il Giornale, 9 maggio)

“Il nostro sogno è sempre stato ed è sempre lo stesso: far sorridere i bambini israeliani e palestinesi!” (Shimon Peres, discorso per i caduti israeliani, 8 maggio 2008).Insomma, per una settimana mettiamo tra parentesi le cifre allucinanti dei bambini palestinesi che muoiono a centinaia per mancanza di cure:

E convinciamoci che se fosse per Israele la Palestina sarebbe uno stato fiorente e libero fin dal primo giorno: “Purtroppo i palestinesi, che avrebbero potuto mettere subito in piedi un loro stato, dissero no e no e no, no al negoziato, no al riconoscimento d’Israele, no alla pace. Così ci ritroviamo, sessant’anni dopo. (…) Oh come vorrei che ci fosse un Paese chiamato Palestina, accanto a quell’altro chiamato Israele!” (Arrigo Levi, La Stampa 8 maggio)

Così alla fine, se pazientano ancora un po’, anche i palestinesi potrebbero avere un loro stato, chissà con quali confini (forse quelli stabiliti illegalmente dal muro?), finalizzato a… partecipare finalmente alla prossima Fiera del Libro: “Confido nella realizzazione di uno Stato palestinese entro quest’anno o al massimo il prossimo, così la Fiera del Libro potrà invitare la Palestina come ospite d’onore” (Yehoshua, Corriere della sera 9 maggio)

 

Lo Stato che c’è e quello che manca

di Moni Ovadia

 

(…) La dirigenza sionista, negli anni in cui gli ebrei avevano scelto di costruire il loro focolare nazionale nella Palestina mandataria, lanciarono in tutto il mondo uno slogan che fosse difficilmente confutabile in sé: «una terra senza popolo per un popolo senza terra».

Gli ebrei in Israele, e la stragrande maggioranza degli ebrei nel mondo, avevano spasmodicamente bisogno di credere a quelle parole, e vi credettero. Erano false e lo sapevano anche i dirigenti sionisti di allora, prova ne sia il fatto che accettarono a grande maggioranza la risoluzione Onu dei «due popoli e due Stati» in quella terra.

Quali che siano le opinioni sugli eventi successivi, un fatto rimane inconfutabile: 60 anni fa iniziava per gli ebrei di Israele e per la maggioranza degli ebrei nella Diaspora, una nuova e luminosa storia. Per i palestinesi era invece l’inizio di un calvario, di una spoliazione senza fine, di una perdita di tutto ciò a cui un popolo che vive in una terra aspira.

Tutto ciò 60 anni fa. E oggi? Per Israele le promesse si sono realizzate anche se a prezzo della perdita di molte vite, di cinque guerre e del sangue sparso dal terrorismo. Per i palestinesi le cose sono, se è possibile, peggiorate. Quarant’anni di ininterrotta occupazione e colonizzazione – con tutto il devastante stillicidio di demolizione e di espropriazione abusiva di case, estensione inesorabile delle colonie, sradicamento di centinaia di migliaia di ulivi, distruzione di riferimenti topografici attuate con programmatica determinazione, erezione di un muro che separa palestinesi da palestinesi, migliaia di morti civili – li hanno privati di quasi tutto. La spoliazione è progredita sotto lo sguardo indifferente della comunità internazionale in nome di un giusto complesso di colpa che però viene ingiustamente scaricato sul popolo palestinese.

«L’abbandono dei palestinesi non può in alcun modo rappresentare l’espiazione per l’abbandono dell’ebraismo europeo commesso settant’anni fa, né renderà alcun servigio alla causa della sicurezza di Israele e del suo popolo», scrive Henri Siegman, ex Presidente del Congresso Ebraico Americano, in un articolo pubblicato da Al Hayyat il 23 aprile scorso. Si tratta di uno fra i più acuti esperti del conflitto israelo-palestinese.

Ora, i governi israeliani hanno legittimato tutti i loro comportamenti illegali e ingiusti motivandoli con l’esigenza non negoziabile della sicurezza di Israele. Sia chiaro, la sicurezza è un problema drammatico e reale, ma colonizzazione, occupazione e spoliazione dei palestinesi, nulla vi hanno a che fare come acutamente osserva Siegman: «(…) Nessun governo che abbia serie intenzioni riguardo alla proposta “due popoli due stati” come soluzione al conflitto, avrebbe proseguito nell’ininterrotto furto e frammentazione della terra palestinese che, come capirebbe anche un bambino, rende impossibile la creazione di uno stato palestinese. (…) Nessuna iniziativa di pace può avere successo se la spoliazione del popolo palestinese diverrà irreversibile».

Il problema non è la celebrazione dello Stato di Israele, il problema è la mancata celebrazione di un pari Stato palestinese.  Speriamo che a furia di menzogne e velleitarismi non diventi troppo tardi.

 

Imbecillità a confronto

 

(…) Io non so quanti fra coloro che hanno bruciato le bandiere israeliane alla fiera del libro di Torino, o fra quanti hanno proposto il boicottaggio, coltivino sentimenti antisemiti. Ritengo che fra i piùgiovani ci sia una difficoltà passionale a confrontarsi con le categorie della complessità. Bruciare bandiere è una prassi imbecille per esprimere un malinteso senso di solidarietà con le sofferenze del popolo palestinese, ma la solidarietà con quel popolo è sentimento nobilissimo, così come in una democrazia è legittimo proporre un boicottaggio, anche se quel boicottaggio non lo condivido. Illegittimo, imbecille e anche un po’ fascista invece, è accusare di antisemitismo tutti coloro che criticano la politica di occupazione e di colonizzazione del governo israeliano nei confronti dei palestinesi. Imbecille è chi accoglie a braccia aperte come il migliore amico di Israele e degli ebrei in cambio di qualche moina interessata e strumentale, politici di destra che senza dare segno di sgomento e di solidarietà umana autentica nei confronti della famiglia e degli amici, definiscono imbecilli da stadio efferati assassini nazifascisti massacratori di un giovane inerme, politici che praticano forme ipocrite di xenofobia, di islamofobia e di discriminazione delle diversità, politici che criminalizzano il «relativismo culturale» per imporre una visione univoca e teocratica del mondo. Alta prova di imbecillità poi è non capire che non si può essere veri amici di Israele e degli ebrei senza essere amici dei palestinesi, senza sentire come un ferita profonda il loro dramma, perché i destini dei due popoli sono inscindibilmente legati. D’accordo, mettere in discussione la legittimità di Israele, soprattutto in Europa, è una forma di cripto-antisemitismo e oltre che antisemita è insensato. Israele non solo è legittimo, ma anche uno stato democratico avanzato. Ed è per questa ragione che si impone una domanda. Come possono i governi di un tale stato violare da quarant’anni la legittimità internazionale di due risoluzioni dell’Onu e tenere in prigione un intero popolo? Com’è possibile che governi di una nazione democratica, se davvero lo vogliono, non trovino una soluzione diversa per garantire la sacrosanta sicurezza dei propri cittadini? Rispondere a questa domanda che non ci sono soluzioni diverse, è peggio che imbecille, è prova aver messo al posto del cuore e dell’anima lo spirito di fazione e la metastasi del nazionalismo.

da L’Unità, 3 e 10 maggio 2008

 

L’ospite d’onore e la Palestina lontana

di Ali Rashid

 

Sul sito ufficiale della Fiera internazionale del Libro di Torino è comparso questo testo che, all’origine, ha dato il via in Italia alla polemica: «Sarà Israele il Paese ospite d’onore alla Fiera 2008. In occasione della ricorrenza del 60° anniversario della sua fondazione, Israele ha scelto Torino come la vetrina più adatta per far conoscere e discutere la propria identità culturale». Vale a dire che lo stato e il governo israeliano hanno inteso utilizzare la vetrina di una istituzione letteraria internazionale che dovrebbe rappresentare valori universali, per celebrare la fondazione dello stato d’Israele. Una fondazione che è festa per quel popolo legittimato e riconosciuto internazionalmente e rappresenta invece il disastro di un altro popolo, quello palestinese, che chiama nakba (catastrofe) lo stesso periodo, il 1948. È la scissione di una storiografia, l’altra faccia della medaglia di una «storia bifronte» – ha scritto Isabella Camera D’Afflitto – che da una parte segna un trionfo e dall’altra una sconfitta. Ci si chiede. E’ un segno di dialogo da parte di Israele l’avere scelto strumentalmente una istituzione letteraria che dovrebbe avere valori universali di riferimento, per autocelebrarsi invece come stato? È una forma di dialogo l’averlo accettato? E come rispondere al tentativo strumentale di Israele di far passare, con l’arruolamento nelle fila del governo di molta parte della sua più positiva letteratura, la legittimazione dell’occupazione militare dei territori palestinesi? Non è questo un uso perverso, da parte del potere, della letteratura che proprio gli scrittori dovrebbero osteggiare? Si denuncia che è in discussione l’esistenza d’Israele, lo stato più protetto e armato del Medio Oriente. Ma non lo fa solo a parole il discorso negazionista dell’iraniano Ahmadinejad. Lo fa anche Israele quando non riconosce concretamente il diritto ai palestinesi a una terra e uno stato, minando così – come ha scritto Grossman – il suo stesso futuro. Quindi Israele è liberissima di celebrare la sua fondazione, ma dovrebbe essere inteso che è altrettanto legittimo contestarla.

La «questione del boicottaggio» è stata sollevata non da «certa sinistra» italiana, ma all’interno d’Israele da scrittori, poeti e critici letterari israeliani. E’ stata un’indagine della giornalista israeliana Shiri Lev-Ari nell’agosto 2007 su Haaretz a denunciare l’esistenza di una task force, la «Division Cultural and Scientific Affaire», del ministero degli esteri israeliano che promuove le iniziative degli scrittori all’estero, la cui sezione letteratura è guidata dal capo settore Dan Orian: «Gli scrittori cercano di promuovere il loro lavoro all’estero e il Ministero degli esteri vuole utilizzarli per mostrare la faccia più attraente e sana d’Israele – scrive la giornalista – Dan Orion vede la letteratura israeliana come una parte del lavoro di public relations». E spiega il caposettore Dan Orion alla giornalista di Haaretz: «Siamo percepiti come un paese aggressivo, che impone chiusure sui territori, ma improvvisamente appare una scrittrice che parla di relazioni familiari, con una scrittura molto non politica. Questo può cambiare l’intera percezione della società israeliana». E’ stato poi Benny Ziffer, redattore capo del supplemento letterario del quotidiano israeliano Haaretz che, proprio in difesa dell’autonomia della letteratura, si è posto il problema del boicottaggio in occasione del recente Salon du Livre di Parigi, dove è stata fatta una scelta altrettanto politica di invitare Israele come unico ospite d’onore. E infatti subito molti autori e critici israeliani hanno deciso di non andare, di respingere l’invito ricevuto o di giudicare negativamente l’iniziativa di Torino e di Parigi – fra questi Yizhak Lahor, Aaron Shabtai, Gilad Atzmon, Ilan Pappe, Amira Hass, Nurit Peled-Elhanan. Senza dimenticare che la questione palestinese è un fulcro tematico da cui nasce la letteratura israeliana. Come dimostra lo stupendo La rabbia del vento di S. Yizhar (Yizhar Smilanski), che racconta la cacciata dei palestinesi ad opera di un battaglione di giovani soldati israeliani, molti da poco immigrati e di famiglie superstiti della Shoah, la tragedia più grande. E lo dimostrano le opere di grandi scrittori come David Grossman, Amos Oz e perfino quelle di Avraham Yehoshua che però, va ricordato, è stato l’ispiratore del Muro di Sharon, che non è una metafora letteraria ma una colata di cemento e filo spinato che ruba terra ai palestinesi, divide famiglie, persone e ancora una volta i due popoli.

Ha scritto il poeta israeliano Aaron Shabtai declinando l’invito al recente Salon du livre di Parigi: «Quasi quattro milioni di palestinesi stanno vivendo in campi-prigione, come a Gaza. La gente in Europa non sa esattamente cosa succede qui. È molto stupido usare la parola "antisemita" e attribuirla a coloro che invocano il boicottaggio. Sono nato qui, ho qui i miei figli e chiamo al boicottaggio d’Israele». Perché un movimento di contestazione politica e non violenta può avere risultati e fermare le scelte scellerate e controproducenti, impedendo che al capezzale della causa palestinese arrivi il peggiore fondamentalismo integralista.

Abbiamo posto alcune domande che vanno oltre il boicottaggio sì, boicottaggio no. Sapendo che quel che è in discussione non è tanto la strumentalità, sotto gli occhi di tutti, di una celebrazione o una protesta che ad essa si oppone e che, nella sua configurazione «di piazza», rischia la necessaria natura democratica e pacifista. Quanto la possibilità che esista ancora un movimento di critica politica contro la strategia estera d’Israele, in quel Grande Medio Oriente devastato da Bush, dove la pace è cancellata, continua l’occupazione militare dei Territori palestinesi – e non solo – e crescono gli insediamenti. È possibile che esista ancora questo movimento pacifista che chiede la nascita dello Stato di Palestina, condizione di pace reale e concreta per la salvaguardia e il futuro d’Israele stessa? È possibile rifuggire dalla dinamica di scontro suggerita dalla provocazione di Fini – «Torino peggio di Verona» – sapendo che ogni processo di criminalizzazione farebbe arretrare la possibilità di ricostruire questo movimento? Ed è possibile ai tempi della vittoria della destra in Italia, nei quali la ragione dei vinti viene fagocitata da chi si copre ora con posizioni filo-israeliane, come fa Fini, quando a mala pena camuffa un passato recente o mai-passato, antisemita, missino e neofascista?

Il Manifesto, 7 maggio 2008

 

 

E lo Stato si chiamerà Israele…

di Ury Avnery

 

O

gni volta che sento la voce di David Ben-Gurion pronunciare le parole «perciò siamo qui riuniti…» penso a Issar Barsky, un giovane affascinante, fratello minore di una mia amica.

L’ultima volta che ci siamo incontrati fu davanti al refettorio del Kibbutz Hulda, il 14 maggio 1948. La notte successiva la mia compagnia avrebbe attaccato al-Qubab, un villaggio arabo sulla strada per Gerusalemme, a est di Ramle.(…)

Pochi giorni dopo fu ucciso. Così ancora oggi lo ricordo come era allora: un ragazzo di 19 anni, sorridente, un Sabra alto, pieno di gioia di vivere e di innocenza.

Più ci avviciniamo alle celebrazioni del grandioso 60esimo anniversario, più sono tormentato dalla domanda: se Issar potesse aprire gli occhi e vederci oggi, ancora ragazzo di 19 anni, che cosa penserebbe dello Stato che fu ufficialmente costituito quel giorno?

Vedrebbe uno Stato che si è sviluppato oltre i suoi sogni più folli. Da una piccola comunità di 635mila anime (più di 6000 delle quali sarebbero morte con Issar in quella guerra) siamo cresciuti fino a diventare sette milioni. I due grandi miracoli da noi forgiati – la rinascita della lingua ebraica e l’istituzione della democrazia israeliana – continuano a essere realtà. La nostra economia è forte e in alcuni campi – come

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