Israele Palestina secondo Obama


Israele Palestina secondo Obama

di Noam Chomsky        
Znet, 26 gennaio 2009  

Barack Obama è noto come persona di acuta intelligenza, studioso di legge, attento alle parole che usa.  Merita quindi di essere preso sul serio, sia per quello che dice, sia per quello che non dice. Particolarmente significativa è la sua prima dichiarazione riguardo alla politica estera, rilasciata il 22 gennaio, presso il Dipartimento di Stato, quando ha presentato George Mitchell come suo inviato speciale per la pace in Medio Oriente.

Mitchell pone l’attenzione sul problema Israele-Palestina, in seguito alla recente invasione statunitense ed israeliana di Gaza. Durante l'attacco omicida, Obama è sostanzialmente rimasto in silenzio, dicendo solo qualche banalità, sostenendo, a mo' di giustificazione, che il presidente è uno (e in quel momento Bush era ancora ufficialmente in carica), cosa che però non gli ha impedito di esprimersi su molte altre questioni. E non gli ha nemmeno impedito di dichiarare che: “se fossero caduti dei missili dove dormono le mie figlie, avrei reagito facendo qualsiasi cosa per fermarli”. Si riferiva ai bambini israeliani, non certo alle centinaia di bambini palestinesi massacrati dalle armi statunitensi usate dall’esercito israeliano, dei quali Obama non poteva ancora parlare, perché, appunto, il presidente è uno solo.
Il 22 gennaio, però, il presidente è diventato uno: Barack Obama, il quale avrebbe potuto quindi parlare liberamente di queste questioni – evitando, tuttavia, quella dell'attacco a Gaza, che, con un tempismo conveniente, è stato sospeso poco prima del suo insediarsi a presidente degli Usa            .

Il discorso di Obama enfatizzava un impegno per una soluzione pacifica, lasciandone però vaghi i contorni, eccezion fatta per una proposta specifica: “l'iniziativa di pace araba”, ha detto Obama, “contiene elementi costruttivi che vanno nella direzione dei nostri sforzi. Adesso tocca agli Stati arabi agire per l'iniziativa promessa, a sostegno del governo palestinese sotto la guida del Presidente Abbas e del primo ministro Fayyad, adottando misure volte a normalizzare le relazioni con Israele, ed eliminando l’estremismo, una minaccia per tutti noi.”

Obama non ha falsificato in modo diretto la proposta della Lega Araba, ma l’inganno accuratamente sotteso è istruttivo.

La proposta di pace della Lega Araba infatti chiede davvero di normalizzare le relazioni con Israele – ma, ripeto, in un contesto di soluzione di due stati, in termini di un consenso internazionale di lunga durata, che gli Stati Uniti ed Israele, nell’isolamento internazionale, hanno bloccato per trent’anni, e che continuano ad impedire.

Il nucleo della proposta della Lega Araba, come Obama ed i suoi consiglieri per il Medio Oriente ben sanno, è il richiamo ad una soluzione politica pacifica in questi termini, di due veri stati, che sono ben noti e che sono riconosciuti essere le uniche basi per una soluzione pacifica, che Obama dichiara sostenere. L’omissione di un fatto così cruciale è difficile che sia accidentale, e segnala chiaramente che Obama non prevede un inizio di cambiamento di politica da parte degli Stati Uniti. Il suo appello agli stati arabi ad agire solo su un corollario della loro proposta, ignorando l’esistenza dei contenuti centrali, va oltre il cinismo.

Gli atti più significativi che compromettono una soluzione pacifica sono le quotidiane azioni che gli Stati Uniti sostengono dietro le quinte nei territori occupati, universalmente riconosciuti come atti criminali: confisca di terreno e risorse ai Palestinesi, per portare a termine il disegno architettato da Ariel Sharon, quello cioè di ridurre in un Bantustan la terra palestinese: un paragone scorretto, dal momento che i Bantustan erano ben più redditizi rispetto alla frammentazione lasciata ai palestinesi dalla concezione di Sharon, che ora si sta realizzando. Ma gli Stati Uniti ed Israele continuano di fatto ad opporsi ad una soluzione politica: anche recentemente, nel dicembre 2008, Usa e Israele (e alcun isole del Pacifico) hanno votato contro una risoluzione dell’Onu che riconosceva “ai palestinesi il diritto all’autodeterminazione” (173 voti a favore, 5 contrari con motivazioni pretestuose, tra cui Usa[1], e Israele).

Obama non ha speso una parola né sulle colonie né sullo sviluppo delle infrastrutture in Cisgiordania, né sulle complesse misure di repressione dei palestinesi che ne minano l’esistenza, così come minano le prospettive di una soluzione pacifica in due stati. Il suo silenzio è in preoccupante contraddizione con la sua arte oratoria e non fa capire come gli sarà  possibile “sostenere attivamente un impegno nella direzione di due stati che vivano fianco a fianco in pace e sicurezza”.

Allo stesso modo, silenzio sull’uso di armi statunitensi da parte di Israele contro Gaza, in violazione non solo delle leggi internazionali, ma anche di quelle statunitensi. L’invio in Israele da parte di Washington di una partita di nuove armi proprio nel culmine dell’ultimo attacco contro Gaza non poteva certo essere ignorato dai consiglieri di Obama.

Obama è stato saldo, tuttavia, nell'affermare che il contrabbando di armi a Gaza debba essere fermato. Egli approva l’accordo tra Condoleeza Rice e il ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni, secondo il quale la frontiera tra Gaza e Egitto deve essere chiusa – un notevole esercizio di arroganza coloniale, come ha osservato il Financial Times: “dato che erano a Washington a farsi i complimenti a vicenda, era ovvio che entrambe le parti stavano parlando di un traffico illegale alle frontiere altrui, in questo caso dell’Egitto. Il giorno dopo il diplomatico egiziano ha descritto l’intesa come una farsa. Le obiezioni degli egiziani sono state ignorate.

Tornando al far riferimento alla proposta della Lega Araba definendola “costruttiva”, come indicano i termini usati, Obama insiste nel limitare il suo sostegno a quel partito che è stato sconfitto alle elezioni del 2006, le uniche elezioni libere nel mondo arabo, che sono state immediatamente e apertamente respinte da Stati Uniti ed Israele, i quali hanno deciso di punire severamente i palestinesi perché avevano osato opporsi alle direttive dei padroni. Un altro piccolo elemento da considerare è che il mandato politico di Abbas è scaduto il 9 gennaio, e che Fayyad è stato designato senza conferma da parte dei parlamentari palestinesi (molti dei quali sono stati sequestrati, e sono detenuti nelle carceri israeliane).

Ha'aretz descrive Fayyad come uno “strano essere nel panorama politico palestinese. Da un lato è il politico più stimato da Israele e dall’Occidente. Dall’altro lato non ha potere elettorale a Gaza o in Cisgiordania”. Il quotidiano sottolinea anche “le strette relazioni di Fayyad con l’establishment israeliano, “in particolare la sua nota amicizia con l’estremista e consigliere di Sharon, Dov Weiglass. Sebbene senza sostegno popolare, Fayyad è visto come persona competente ed onesta, cosa strana nei settori politici in cui gli Usa hanno notevoli influenze.

L’insistenza di Obama a riconoscere solo Abbas e Fayyad è in linea con il disprezzo che l’Occidente ha delle democrazie che non rientrano sotto il suo controllo.

Obama ha fornito le solite motivazioni per ignorare il governo di Hamas: “Affinché per la pace ci sia una controparte genuina” ha dichiarato Obama, “il Quartetto (Usa, Ue, Russia e Onu) ha chiaramente sostenuto che Hamas deve soddisfare a delle precise condizioni: “riconoscere il diritto dello stato di Israele ad esistere; rinunciare alla violenza; rispettare gli accordi precedenti ”. Come al solito, non un accenno al fatto seccante che Stati Uniti e Israele continuano a non rispettare alcuna delle tre condizioni. Nell’isolamento internazionale, impediscono di fatto una soluzione a  due stati, poiché osteggiano la creazione dello stato Palestinese; ovviamente non rinunciano alla violenza; e rifiutano la proposta centrale del Quartetto, cioè la Road map. Formalmente Israele (tacitamente sostenuto dagli Usa) l’ha accettata, ma con 14 riserve che in effetti ne vanificano i contenuti. Il grande merito del libro di Jimmy Carter, Palestine: Peace not Apartheid è stato quello di aver richiamato l'attenzione internazionale per la prima volta  – e, per quanto riguarda l'opinione pubblica tradizionale, l'unica – su questi fatti.

Ne deriva che, in base a un ragionamento elementare, che né gli Usa né Israele sono “controparti genuine per la pace”. Eppure non può essere così, nemmeno in una frase in lingua inglese.

Forse non è giusto criticare Obama per questo suo ulteriore esercizio di cinismo, perché è una prassi universalmente seguita, sebbene sia esclusivamente sua la scrupolosa distruzione delle componenti centrali della proposta della Lega Araba.

Così come secondo prassi sono i riferimenti canonici ad Hamas: è una organizzazione terrorista, dedita alla distruzione di Israele (e magari di tutti gli ebrei). Taciuti invece i fatti scomodi, cioè l’azione di Usa e Israele, i quali non solo si dedicano quotidianamente a distruggere un possibile stato palestinese, ma pure implementano con costanza tali politiche. O che, a differenza di questi due stati che rifiutano, Hamas ha spesso fatto appello ad una soluzione a due stati, nei termini del consenso internazionale: pubblicamente, ripetutamente, esplicitamente.

Obama ha iniziato le sue osservazioni dicendo: “Lasciatemi essere chiaro: l’America si è impegnata per la sicurezza di Israele. E sosterremo sempre il diritto di Israele di difendersi contro minacce legittime”.

Nessun cenno al diritto dei palestinesi a difendersi dalle minacce sempre più estremiste, come sta accadendo in questi giorni, con il sostegno degli Usa, nei territori occupati. Ma, ancora una volta, questa è la norma.

Così come normale è enunciare il principio che Israele ha diritto a difendersi. Cosa giusta, ma irrilevante: così lo hanno tutti. Ma in questo contesto il luogo comune è peggio che irrilevante: è un altro cinico inganno.

Il punto non è se Israele ha il diritto a difendersi, come tutti, ma se ha il diritto di farlo con la forza. Nessuno, incluso Obama, crede che gli stati abbiano un generale diritto a difendersi con la forza: prima occorre dimostrare che non ci sono alternative pacifiche. In questo caso, ce ne sono eccome.

Una precisa alternativa sarebbe che Israele rispettasse il cessate il fuoco, per esempio quello proposto dal leader politico di Hamas, Khaled Mishal, pochi giorni prima che Israele lanciasse il suo attacco, il 27 dicembre. Mishal chiedeva di ripristinare gli accordi del 2005, che propugnavano la fine della violenza e l’apertura ininterrotta delle frontiere, assieme alla garanzia israeliana che persone e cose potessero spostarsi liberamente fra le due parti della Palestina occupata, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Tali accordi erano stati rifiutati dagli Usa e da Israele pochi mesi dopo, a seguito delle libere elezioni del gennaio 2006, che ebbero “esiti sbagliati”. E ci sono molti altri casi simili.

La più significativa e ampia alternativa sarebbe per Usa e Israele l’abbandono della loro estremistica posizione di rifiuto, riunendosi così al resto del mondo – stati arabi e Hamas compresi – nel sostenere una soluzione a due stati, in accordo con il consenso internazionale. Si noti che negli ultimi 30 anni c’è stata una crepa nella rigidità di Usa e Israele: i negoziati di Taba, nel gennaio 2001, che sembravano essere vicini ad una soluzione pacifica, ma Israele prematuramente li abbandonò. Non sarebbe quindi disdicevole per Obama accettare di unirsi al resto del mondo, anche nel quadro della politica statunitense, se davvero fosse interessato a farlo.
Per farla breve, il continuo ripetere da parte di Obama che Israele ha il diritto di difendersi è un ulteriore esercizio di cinico inganno, sebbene, bisogna ammetterlo, non portato avanti solo da lui, ma praticamente da tutti.

L’inganno è particolarmente evidente in questo caso perché l’occasione era la nomina di Mitchell a  inviato speciale. Un suo grande risultato era stato il ruolo di primo piano che aveva avuto nel processo di pace in Irlanda. Qui si chiedeva la fine del terrorismo da parte dell’Ira e la fine della violenza da parte del governo britannico. Implicito era il riconoscimento che la Gran Bretagna aveva il diritto di difendersi, ma che non aveva il diritto di farlo con la forza, perché c’era una alternativa pacifica: riconoscere le legittime rimostranze della comunità cattolica irlandese, che erano alla base delle azioni dell’Ira. Quando la Gran Bretagna ha accettato questa strada ragionevole, il terrorismo è finito. Relativamente alla questione Israele e Palestina, le implicazioni per la missione di Mitchell sono talmente evidenti da non dover essere esplicitate. Ometterle è, ancora una volta, una sorprendente indicazione dell’impegno dell’amministrazione di Obama a mantenere il tradizionale comportamento degli Usa di rifiuto e di opposizione alla pace, tranne che per le manifestazioni più estremiste.

Obama ha anche elogiato la Giordania per il suo “ruolo costruttivo nell’armare ed addestrare le forze di sicurezza palestinesi e nel valorizzare i rapporti con Israele- il che contrasta con l’evidente rifiuto statunitense e israeliano di trattare con il governo palestinese liberamente eletto; intanto, si puniscono selvaggiamente i palestinesi, con pretesti che non stanno in piedi, per il fatto di averlo eletto.  È vero che la Giordania si è affiancata agli Usa nell'armare e addestrare le forze di sicurezza palestinesi, in modo che queste potessero reprimere con la violenza ogni manifestazione a sostegno delle disgraziatissime vittime degli attacchi statunitensi e israeliani a Gaza. Le forze di sicurezza palestinesi hanno arrestato pure i sostenitori di Hamas, tra cui il noto giornalista Khaled Amayreh, organizzando nel contempo manifestazioni in sostegno di Abbas e Fatah, durante le quali, secondo il quotidiano Jerusalem Post, la maggior parte dei partecipanti erano “dipendenti dell’amministrazione pubblica e studenti debitamente istruiti dall’Autorità Palestinese sul come partecipare all’iniziativa”. La nostra democrazia….

Obama ha fatto un ulteriore commento sostanziale: “Come parte di un cessate il fuoco duraturo, i valichi di frontiera devono essere aperti per permettere il flusso di aiuti ed il commercio, con un sistema appropriato di monitoraggio…”. Naturalmente non ha menzionato il fatto che Israele e gli Usa hanno rifiutato molti accordi simili dalle elezioni del gennaio 2006, e che Israele  non ha mai osservato simili accordi successivi sulle frontiere.

Inoltre manca ogni reazione all’annuncio di Israele del suo rifiuto del cessate il fuoco; la prospettiva che sia “duraturo” è quindi ben lontana. Come riportato subito dalla stampa, il “il ministro del  gabinetto israeliano Binyamin Ben-Eliezer, che prende parte alle deliberazioni sulla sicurezza, ha dichiarato giovedì (22 gennaio) alla Radio Militare che Israele non avrebbe lasciato aprire i valichi di frontiera con Gaza senza un accordo per liberare [Gilad] Shalit” (Ap, 22 gennaio); 'Israele vuole tenere chiusi i valichi di Gaza… un funzionario ha riferito che il governo pensava di sfruttare questo punto per negoziare la liberazione di Shalit, il soldato israeliano imprigionato da gruppi islamici sin dal 2006' (Financial Times, 23 gennaio); “all’inizio di questa settimana, il ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni ha sostenuto che una precondizione per aprire i valichi di frontiera, chiusi da quando Hamas ha strappato il controllo di Gaza all’autorità palestinese della Cisgiordania, sarebbero stati i progressi nei negoziati per la liberazione di Shalit” (Christian Science Monitor, 23 gennaio); un altro funzionario israeliano ha detto che vi sarebbero state pesanti condizioni per ogni allentamento del blocco e  che lo collegava al rilascio di Gilad Shalit (Ft, 23 gennaio); e tanti altri.

La cattura di Shalit è un problema importante per l’Occidente, un altro segnale della criminalità di Hamas. In qualunque modo la si pensi, la cattura di un soldato di un esercito aggressore è molto meno criminale del rapire dei civili: questo è esattamente ciò che hanno fatto le forze israeliane il giorno prima della cattura di Shalit, con l’invasione della città di Gaza e la cattura di due fratelli, portati oltre il confine e fatti sparire nelle prigioni israeliane. A differenza del caso di Shalit, molto meno grave, questo crimine non è stato reso noto ed è stato dimenticato, insieme alle regolare pratica israeliana, da decenni, di rapire dei civili in Libano e in alto mare, civili che poi spariscono nelle prigioni israeliane. Eppure il rapimento di Shalit impedisce un cessate il fuoco.

Il discorso del Dipartimento di Stato di Obama sul Medio Oriente è proseguito citando “il deteriorarsi della situazione in Afghanistan e Pakistan… il fronte centrale della nostra perenne lotta contro il terrorismo e l'estremismo”. Poche ore dopo, i cacciabombardieri statunitensi hanno attaccato un remoto villaggio in Afghanistan, con l’intento di uccidere un comandante talebano. “Tuttavia gli anziani del villaggio, un borgo di pastori e animali, hanno detto ai funzionari provinciali che nella zona non vi era alcun talebano. Tra le 22 vittime del raid, donne e bambini, secondo le testimonianze dei superstiti confermate da Hamididan Abdul Rahmzai, il capo del consiglio provinciale” (LA Times, 24 gennaio).

Il primo messaggio del presidente afghano Karzai ad Obama, appena dopo la sua elezione, a  novembre, era stato un appello alla fine dei bombardamenti contro i civili, che invece si sono ripetuti alcune ore prima del giuramento di Obama. Questo era stato considerato significativo quanto l’appello di Karzai per un calendario di ritiro degli Usa e delle altre forze straniere. I ricchi e i potenti hanno le loro “responsabilità”. Tra queste, come ha riportato il New York Times, vi è il “garantire la sicurezza” nel sud dell’Afghanistan, dove “l’insurrezione è radicata in ogni casa e si autosostiene”.

Tutto già sentito. Ad esempio, dalla Pravda negli anni ottanta.

(Traduzione di Irene Panighetti e Paola Canarutto)

L’articolo in lingua originale

Da: http://www.osservatorioiraq.it/modules.php?name=News&file=article&sid=7155

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