Israele promuove una minaccia strategica alla libertà di parola sulla questione palestinese

MEMO. Di Asa Winstanley C’è un vecchio adagio che dice “non affidare mai alla volpe la guardia del pollaio”, e non a torto. Eppure, è esattamente ciò che i governi occidentali continuano a fare quando si tratta di occuparsi di politiche sulla libertà di parola. A parte le lotte contro “la cultura dell’annullamento”, infatti, la vera minaccia alla libertà di parola nel mondo di oggi è la crescente repressione del diritto di parola a sostegno dei palestinesi.

La dittatura militare israeliana e il regime di apartheid imposto ai cittadini palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, ma anche l’ostinata negazione del legittimo diritto dei profughi palestinesi di fare ritorno nella propria terra, sono tutte ingiustizie talmente evidenti che la questione palestinese è conosciuta in tutto il mondo. Questo significa che Israele non può permettersi di discutere pubblicamente della questione e quindi decide di sopprimere il diritto di parlare a favore dei palestinesi, mettendo al bando qualsiasi esposizione o discussione pubblica che evidenzi in che modo il suo governo violi il diritto internazionale e i diritti umani dei palestinesi. Questa tattica è usata innanzitutto in Cisgiordania.

In Cisgiordania, a causa del regime israeliano i palestinesi non hanno diritto di esprimersi contro la dittatura militare che controlla ogni aspetto delle loro vite. Possono essere sbattuti in prigione per il semplice volere di un ufficiale militare, senza alcuna accusa o processo. Le proteste sono regolarmente vietate. Il giornalismo, la poesia e la letteratura che vanno contro l’occupazione sono brutalmente etichettati come “incitamento” alla violenza o alla rivoluzione e vengo regolarmente represse. Lo stesso accade all’attivismo non violento; gli attivisti palestinesi vengono regolarmente arrestati.

Khalida Jarrar ne è un esempio, essendo una delle principali attiviste per i diritti delle donne, oltre che ad essere una parlamentare palestinese socialista. Il 1° novembre dello scorso anno, è stata rapita da alcuni criminali dell’esercito israeliano e imprigionata. Più di un anno dopo, continua a essere detenuta senza accusa né processo.

Al contrario, ai cittadini ebrei di Israele – compresi i coloni che dominano la Cisgiordania nelle loro colonie illegali – viene concessa la libertà di parola come previsto dalla legge israeliana. Questo significa che Israele non è solo una dittatura militare, ma è anche un regime di apartheid e uno stato suprematista ebraico. Ed infatti è questo il significato del Sionismo.

Tuttavia, controllare la vita e la libertà di parola dei palestinesi non è abbastanza per soddisfare la sete di potere di Israele. Lo stato sionista fa affidamento sul sostegno dei governi europei e, soprattutto, sugli Stati Uniti. Quest’ultimo sovvenziona le forze armate israeliane per un importo annuo di 3,8 miliardi di dollari, cifra che sembra destinata a salire grazie ad un accordo tra la lobby pro-Israele spera di ottenere durante la presidenza di Joe Biden.

Lo status di Israele di piccola colonia europea circondata da milioni di indigeni che la stessa definisce “nativi ostili” (o meglio Israele “villa nella giungla” come il primo ministro israeliano e razzista Ehud Barak un giorno ha detto) rende essenziali i sussidi militari e le strategie politiche per la sopravvivenza del regime. Ciò significa che qualsiasi minaccia al sostegno politico e militare di Israele nei paesi occidentali deve essere contrastato.

È per questa ragione che Israele conduce da anni quella che chiama una “guerra” contro il movimento BDS, una campagna popolare nata per fare pressioni su Israele attraverso boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni che andranno avanti fino a quando Israele riconoscerà i diritti umani dei palestinesi previsti dal diritto internazionale. Una parte importante di questa “guerra” consiste nel fare pressioni, convincere ed influenzare i governi occidentali a sopprimere e bandire le campagne di solidarietà palestinese come il BDS. Ecco perché Israele rappresenta una minaccia grave alla libertà di parola in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.

L’anno scorso, l’allora ministro israeliano agli “Affari strategici”, Gilad Erdan, si è preso il merito, a nome del governo israeliano, di una serie di leggi e misure anti-BDS approvate negli Stati Uniti. “I nostri sforzi stanno portando a risultati”, ha detto. “Ventisette stati degli Stati Uniti hanno ora una legislazione contro il BDS. Diamo una mano a tutti i governatori e legislatori di stato che hanno sostenuto queste leggi. Se lo meritano”. Oggi quel numero è salito a 30 stati, con 202 progetti di legge anti-BDS introdotti finora.

Inoltre, proprio questa settimana, il primo ministro canadese Justin Trudeau ha nominato in veste di “delegato speciale” canadese contro l’antisemitismo, il principale lobbista filoisraeliano Irwin Cotler. Il vero ruolo di Cotler non sarà quello di proteggere gli ebrei dal fanatismo o dall’odio ma di introdurre ed applicare a livello legislativo la falsa definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance, che fonde le critiche a Israele e al sionismo con l’odio per gli ebrei.

Come ha spiegato mercoledì l’organizzazione canadese Independent Jewish Voices, Cotler “è stato a lungo uno dei principali sostenitori, a livello mondiale, del nuovo concetto di “antisemitismo ” che dipinge i sostenitori dei diritti umani palestinesi come antisemiti. La sua nomina per ricoprire questa posizione è preoccupante”.

La nomina di Cotler da parte di Trudeau è abbastanza simile alla nomina di Trump, nel 2018, di Kenneth Marcus come principale difensore dei diritti civili del Dipartimento dell’Istruzione degli Stati Uniti. In entrambi i casi, i governi occidentali hanno affidato “alla volpe la guardia del pollaio”. Marcus ha aperto la strada alla strategia del “lawfare”, tentando di utilizzare le leggi sui diritti civili degli Stati Uniti per difendere e coprire i crimini israeliani, sostenendo che la critica stessa a Israele fosse “antisemitismo”. Trump ha nominato Marcus su richiesta della lobby filoisraeliana, per dirigere lo stesso dipartimento governativo su cui aveva esercitato pressioni per anni come agente segreto per conto di Israele.

Affrontiamo una minaccia simile in Gran Bretagna, con la nomina da parte del governo di John Mann che viene chiamato lo “Tsar antisemitismo” – un ex parlamentare laburista talmente antisocialista da lasciare il partito sotto Jeremy Corbyn e ricevere in cambio un titolo nobiliare a vita. Si tratta chiaramente di un nome ironico, dato che i veri zar in Russia erano profondamente antisemiti prima della rivoluzione comunista del 1917.

Mann ha essenzialmente basato la sua carriera sulla diffamazione dell’attivismo a favore della Palestina, definendolo “antisemitismo”. Ancora una volta in un importante paese occidentale “alla volpe è stato affidato il pollaio”. La minaccia di Israele alla nostra libertà di parola, con l’utilizzo di strategie “lawfare”, sta senza alcun dubbio aumentando.

Traduzione per InfoPal di Sara Origgio