L’8 marzo palestinese

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Da Parallelo Palestina. La cacciata dei palestinesi, culminata nel 1948, ha modificato interamente la struttura economica e sociale della loro società. La famiglia si è disgregata, molti uomini non ci sono più: sono stati uccisi, fatti prigionieri, oppure sono all’estero in cerca di lavoro. Le donne sono quindi costrette ad assicurare la sopravvivenza della famiglia. Si è costituita un’associazione femminile segreta, “Fiordaligi”, che si occupa dell’approvvigionamento di armi, cibo e vestiario, dell’addestramento delle donne e della loro partecipazione alle operazioni militari. Nel 1964, nasce anche l’Unione Generale delle Donne Palestinesi che ha sezioni in tutti i paesi arabi dove ci siano comunità palestinesi. Contemporaneamente altre donne portano avanti una lotta spontanea: manifestazioni, scioperi, boicottaggi mentre, ad opera di quelle appartenenti alla piccola borghesia, nascono numerose associazioni di assistenza e di beneficenza, in particolare a favore delle famiglie finite nei campi profughi in Giordania, Libano e Siria. A questo punto sono numerosissime le donne che entrano a far parte anche della resistenza armata, che manifestano per le strade, che fanno scioperi della fame, che organizzano collette per le famiglie dei combattenti. Il fatto che molte migliaia di donne siano state nelle carceri israeliane per ragioni politiche, è di per sé una conferma del loro coinvolgimento attivo nella lotta. Il 5 giugno del 1967 ebbe inizio la Guerra dei sei giorni: Israele scatena una nuova offensiva ed occupa la Cisgiordania, Gaza e l’intera città di Gerusalemme, il Golan siriano e il Sinai egiziano. Dal 1968 la partecipazione delle donne alle attività politiche aumenta considerevolmente e per la prima volta vengono anche aperti dei campi femminili di addestramento militare.

Nella stampa internazionale di quegli anni si possono leggere notizie del tipo: febbraio, 5 donne arrestate a Nablus perché armate e militanti in un’organizzazione di guerriglia; marzo, 8 donne arrestate perché proteggevano dei guerriglieri di Al Fatah; aprile, 300 donne manifestano a Gerusalemme, molte arrestate ed alcune ferite; maggio, 5 donne uccise durante una manifestazione a Beit Hanun, mentre 200 donne manifestano a Gaza.

Se la donna palestinese ha svolto un ruolo attivo ed energico nel processo rivoluzionario, per farlo ha dovuto superare numerosi ostacoli. La società araba anteriore al 1948 era conservatrice e patriarcale (in parte lo è ancora), quindi per partecipare alla resistenza del suo popolo la donna palestinese ha dovuto vincere l’ostilità legata ad una tradizione repressiva, fatto che ha costituito un elemento di stimolo per l’intera società. Gli eventi storici l’hanno lanciata, impreparata, nel pieno di una guerra di liberazione, senza lasciarle il tempo di adattarsi. Nei campi profughi, dove sono finite soprattutto le famiglie contadine, la donna aveva perso tutto: il paese, la terra, la fonte di reddito, spesso anche il marito e si trovava addosso, nelle peggiori condizioni, tutto il carico famigliare. Sono state le madri, nei campi, che si sono preoccupate di conservare l’identità palestinese. Con fermezza e lucidità, hanno educato una generazione di uomini e di donne pronte a dedicarsi alla causa della liberazione della propria terra. Le madri, ma anche le nonne, hanno stimolato e alimentato la formazione di una coscienza nazionale palestinese nei bambini e nei ragazzi, raccontando gli atti eroici dei partigiani, la resistenza di interi villaggi, cantando i canti della loro terra e quelli di lotta.

Se si chiede ad un bambino palestinese di dov’è, risponde sempre con il nome del luogo di origine della sua famiglia. Il contributo delle donne palestinesi al movimento di liberazione, alla resistenza, alla lotta contro l’ingiustizia e l’oppressione, come abbiamo spiegato prima, è stato sempre importante e per molti aspetti fondamentale. Se poi prendiamo in esame cosa succede quando queste vengono arrestate, salta subito agli occhi che nessun giorno trascorre tranquillo per una prigioniera palestinese: ci sono sempre soprusi, vessazioni e violenze che rendono ogni giorno un giorno di lotta e di resistenza. Ovunque le condizioni di detenzione sono insopportabili: conta quattro volte al giorno con l’obbligo di presentarsi anche se malate, pena l’isolamento individuale per una settimana. Possono ricevere le visite solo di parenti di primo grado (padri, madri, mariti, nonni, sorelle e fratelli), il colloquio dura 45 minuti, con lunghe attese prima e dopo per i familiari ed avviene dietro vetri, parlando al telefono, con urla e spintoni da parte delle guardie.

La strategia sionista è quella di arrestare sempre più donne, soprattutto parenti di prigionieri/e senza accuse e di sottoporle a pressanti interrogatori, molto violenti, sia a livello fisico che a livello psicologico. In questo caso specifico le detenzioni possono durare dagli otto giorni a diversi mesi ed esiste anche per loro, come per il resto dei detenuti, il vergognoso divieto di ricevere visite dei familiari con età compresa fra i 16 ed i 45 anni. L’entità sionista utilizza, quindi, una forma di tortura, compreso lo stupro, basata sulla discriminazione di genere ed etnica, per far pressione ed incutere paura. Dal breve filmato si può immaginare cosa sia nella realtà la prigionia femminile nelle carceri sioniste, la tortura ed anche la difficoltà una volta tornate in libertà, di superare sia i pregiudizi che i danni psicologici legati alla violenza subita.

Per concludere alcuni spunti estrapolati da una recente intervista ad Abla Sa’adat (moglie del Segretario generale del FPLP), che lavora all’interno del Comitato per le Donne, dai quali emerge chiaro il tentativo di integrare il più possibile il ruolo della donna all’interno della lotta del popolo palestinese a tutti i livelli (politico, economico e sociale). Tutto questo con l’intento di restare il più possibile uniti e muovendosi in tutti gli ambienti: periferie, campi profughi e città.
Le attività del Comitato si svolgono per la maggior parte nell’ambito delle cooperative femminili, ma anche in altri come quello politico, necessario per dare una sensibilizzazione politico-sociale alle donne, rendendole pronte, per esempio, anche semplicemente ad andare a votare. Una sorta di “scuola di politica” attraverso dibattiti, confronti e formazione.
Esistono poi una serie di progetti, uno dei quali è rivolto alle ragazze che, terminata la maturità, vorrebbero entrare all’università: in Palestina i costi sono molto elevati e spesso, per questioni culturali, una famiglia povera con un figlio ed una figlia preferisce far studiare il maschio mentre la femmina è destinata al matrimonio. L’obiettivo è quindi quello di dare a queste ragazze la possibilità di continuare a studiare, aiutandole dal punto di vista economico con il pagamento delle rette universitarie.

Il lavoro del Comitato all’interno dei campi profughi viene organizzato attraverso le varie sedi dislocate nelle città, ma anche nei campi profughi stessi. Tramite queste sedi ed i loro membri attivi, si riescono a svolgere diverse attività, che vengono divise in due tipologie: quelle per le ragazze più giovani e quelle per le donne: con le ragazze si lavora principalmente nel campo della politica piuttosto che in quello del lavoro; per queste giovani vengono organizzati dei campi di lavoro che si occupano principalmente di formazione di tipo socio-politico.

Molto diverso è l’ambiente che si trova nei villaggi: soprattutto dal punto di vista sociale è molto più chiuso. Per esempio, spesso le famiglie non vedono di buon occhio che una ragazza vada fino in città per partecipare a degli incontri, quindi è il Comitato a raggiungere questi luoghi e queste ragazze.
Si lavora anche con le famiglie dei prigionieri, le madri e le mogli provando a dare aiuto e sostegno. La stessa cosa vale per quelle dei martiri.
Il ruolo delle donne, sempre importante, è stato fondamentale soprattutto negli scioperi della fame, dove molto forte è stata la loro presenza nelle “tende di sciopero” nelle varie città palestinesi. Sono state loro a recarsi ai check point e alle carceri, affermando la loro presenza attiva.

Il periodo in cui si è riusciti a lavorare meglio è stato durante la prima Intifada nel 1987: il lavoro riusciva ad espandersi molto e ad essere ben coordinato e preciso. Tuttavia col passare del tempo c’è stata una serie di fattori negativi, tra cui gli accordi di Oslo (13 settembre del 1993), che hanno portato grandi peggioramenti sia per il ruolo della donna, sia per partiti politici e per tutti i movimenti. Anche l’ascesa di Hamas e dell’islam politico hanno giocato un ruolo importante in tutto questo, portando l’espansione della visione religiosa e dell’analisi religiosa di ciò che accade in Palestina. Questo ha reso più difficile il lavoro con le donne: già dalla nascita si ha una cultura ed un’istruzione religiosa che rende difficile far superare certe idee che si sono sedimentate nel tempo, anche se c’è ancora chi vuole lavorare negli ambienti della sinistra palestinese lottando per una Palestina laica e sono soprattutto legati al Fronte Popolare.

I fattori che hanno portato un peggioramento in ogni ambito della vita dei palestinesi sono stati principalmente quattro:

  1. primo gli accordi di Oslo;
  2. secondo la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese e di tutte le sue componenti, che hanno peggiorato molto la situazione del Comitato e di tante altre associazioni;
  3. terzo le ONG, che hanno giocato un ruolo molto negativo in questa situazione usando le loro ingenti risorse economiche per condizionare/direzionare la situazione politica nei territori occupati, giocando un ruolo fondamentale nello ‘svuotamento’ dei movimenti di resistenza .
  4. Quarto ed ultimo fattore la mancanza di fondi e di finanziamenti, soprattutto all’indomani di Oslo e della creazione dell’ANP, che ha portato anche il Fronte in una difficile situazione economica che ha reso più debole anche il Comitato.

Per concludere un piccolo inciso sui casi più recenti:

Khalida Jarrar, (condannata a 14 mesi perché Palestinese),

https://www.infopal.it/detenzione-a-tempo-indefinito-per-la-parlamentare-palestinese-khalida-jarrar/

Shireen Issawi arrestata, avvocato, sorella di Samer Issawi, anche lui prigioniero in sciopero della fame da parecchi giorni, (rimesso in libertà e poi ri-arrestato dalle forze di occupazione)

http://www.palestinarossa.it/?q=it/content/blog/shireen-issawi-avvocato-i-diritti-umani-comincia-lo-sciopero-della-fame-dopo-che-il-suo

Rasmea Odeh, una delle protagoniste del filmato, che rischia di marcire in carcere negli USA perché ha omesso (questa la scusa) di dire ai bastardi, quando ha compilato i documenti per la green card, che era stata in carcere in Israele.

 http://www.infoaut.org/index.php/blog/conflitti-globali/item/13454-solidariet%C3%A0-alla-compagna-rasmea-odeh

Fronte Palestina Milano

DAl 1° SETTEMBRE 2015 IN PALESTINA SONO STATE UCCISE DALL’ESERCITO ISRAELIANO:

  1. Marah Diab, 10 anni, 19.2.16
  2. Kilzar Muhammad Abd al-Halim Azmi al-Eweiei, 18 anni, 13.2.16
  3. Rukaia Abu Eid, 14 anni, 23/1/16
  4. Mahdiyya Mohammad Ibrahim Hammad, 38 anni, sposata e madre di quattro figli
  5. Samah Abdul-Mo’men, 18 anni, 16/12/2015
  6. Maram Ramez ‘Abed Hasounah, 20 anni
  7. Rasha Ahmad Hamed ‘Oweissi, 24 anni
  8. Tharwat Sharawi, 72 anni
  9. Noor Hassan, 30 anni, incinta di 5 mesi
  10. e sua figlia Yahya Hassan 5 anni
  11. Hadil al-Hashlamon, 18 anni
  12. Riham Dawabsheh, 27 anni

 

Il video che non vedrete mai nei TG: Soldati israeliani sparano e uccidono una ragazza palestinese: http://www.bladi24.com/modules/xoopstube/singlevideo.php?cid=1&lid=12085