La Battaglia del Negev: come Israele maschera il colonialismo dei coloni come una controversia legale

Di Emad Moussa (da InvictaPalestina.org). Israele sta tentando di spacciare i tentativi di sfrattare i beduini palestinesi dalla loro terra come una “disputa legale”, ma lo sfollamento dei palestinesi è sempre stato al centro del suo progetto di colonizzazione.

Il Naqab (Negev) è ancora una volta teatro di scontri tra la comunità beduina palestinese e lo Stato israeliano.

Era iniziato come uno sciopero della comunità per protestare contro potenziali “progetti di forestazione” israeliani sulla loro terra e il successivo sfratto dai loro villaggi.

Ma la situazione è presto degenerata in un confronto fisico quando il Fondo nazionale ebraico (JNF) ha inviato macchinari per il movimento terra nei villaggi di Naqa Ber Al-Saba e Al-Atrash per realizzare il progetto.

La maggior parte dei media israeliani, in particolare a destra, ha inquadrato le proteste come rivolte, controversie legali con lo stato, o si è concentrato sul ferimento di alcuni poliziotti e sulla questione della sicurezza. Per i media palestinesi, le narrazioni dominanti sono invece state l’usurpazione della terra e l’ebraizzazione del Negev .

Questa polarità si è riflessa più profondamente all’interno della fragile coalizione israeliana che, secondo Haaretz, ha quasi portato il governo al collasso.

 “Tra i palestinesi non vi è alcun dubbio che la forestazione del JNF nel Negev sia semplicemente una piantagione temporanea finalizzata, soprattutto, a rendere la terra off-limits per i suoi abitanti beduini”

Mansour Abbas, leader di Ra’am, il primo partito palestinese in una coalizione israeliana, è stato al centro del tumulto politico per il programma di piantumazione del JNF. Ha emesso un ultimatum alla coalizione e il suo partito ha deciso di boicottare il plenum della Knesset.

Abbas, che ha sostenuto con fermezza la questione, aveva legato  la decisione del suo partito di unirsi alla coalizione alla necessità di migliorare la vita dei palestinesi in Israele. Tra le sue promesse c’era il riconoscimento di circa 40 villaggi non riconosciuti nel Negev che Israele chiama il “gruppo illegale”.

Questi villaggi ospitano quasi la metà della popolazione beduina del Negev e soffrono di una quasi totale mancanza di servizi di base. L’altra metà vive in sette città appositamente costruite e in sette villaggi in procinto di ottenere il riconoscimento statale; hanno giurisdizione solo sullo 0,8% della terra nel cosiddetto Distretto Meridionale di Israele.

Dopo essere stato preso di mira per aver detto che Israele “è nato come uno stato ebraico”, sul Negev ora Abbas sembra allineato con i suoi colleghi palestinesi membri della Knesset Questa è forse la più chiara dimostrazione di unità tra i partiti palestinesi di Israele dalle ultime elezioni dello scorso marzo.

Poco dopo lo scoppio delle proteste, Abbas, il cui successo politico è dovuto agli elettori beduini, ha visitato la zona con altri membri del partito. Così ha fatto il leader della Joint List Ayman Odeh.

Le forze di sicurezza israeliane arrestano un giovane manifestante durante una protesta nel villaggio di Sawe al-Atrash nel deserto del Negev il 13 gennaio 2022. [Getty]

Poiché la presenza di Ra’am nella coalizione di otto partiti è essenziale per la sopravvivenza del governo Bennett, alcuni funzionari israeliani hanno deciso di fare marcia indietro sul loro precedente sostegno al progetto di piantumazione del Negev.

Queste posizioni sono arrivate alla notizia dei previsti negoziati tra il governo e i rappresentanti beduini, nonché ai piani del governo per riconoscere nel Negev 10-12 “villaggi illegali” aggiuntivi.

Tuttavia, i membri della Knesset di Yamina e Yesh Atid si sono impegnati a reprimere la cosiddetta illegalità beduina, giurando di portare avanti il ​​progetto di piantumazione Apparentemente con loro c’è il primo ministro di destra Bennett che durante la sua campagna elettorale ha promesso di porre fine all’illegalità nel Negev e tornare alla “governabilità”.

Per coloro che gestiscono il JNF, l’invasione del Negev non è un contratto commissionato dal governo e la piantumazione è semplicemente parte di una missione perpetua per realizzare il sogno sionista di “far fiorire il deserto”, un mito fondamentale dell’ideologia politica di Israele.

“Piantiamo alberi nel Negev da 15 anni… e continueremo a piantare in tutto il Negev… come parte della visione sionista”, ha detto la scorsa settimana il presidente della NJF Avraham Duvdevani.

Anche se il JNF non è presumibilmente coinvolto nel processo decisionale del governo, è comunque fondamentale per le pratiche di proprietà fondiaria dello stato e agisce come un’organizzazione quasi governativa, incarnando e implementando le visioni a lungo termine dello stato.

Tra i palestinesi non c’è dubbio che la forestazione del JNF nel Negev sia semplicemente una piantagione temporanea mirata, soprattutto, a rendere la terra off-limits per i suoi abitanti beduini.

Dopotutto, la Società israeliana per la protezione della natura ha portato la JNF in tribunale per la preoccupazione che le attività di quest’ultima nel Negev abbiano ripercussioni distruttive sull’ecosistema del deserto. La corte si è pronunciata a favore di JNF.

In ogni caso i palestinesi, in Israele e altrove, vedono la questione del Negev solo come una parte della politica più ampia di Israele per appropriarsi della loro terra. Provoca in loro la paura esistenziale di perdere la loro comunità e la loro identità, una prospettiva che rende irrilevante la questione della legalità o della sua mancanza.

 “I palestinesi in Israele e altrove vedono la questione del Negev solo come una parte della politica più ampia di Israele per appropriarsi della loro terra”

Illegittimità selettiva.

Dall’istituzione di Israele e con il processo di sfratto attuato dallo stato, la popolazione beduina nel Negev è scesa da 65-100.000 di prima della Nakba a solo 11.000 subito dopo. Coloro che sono rimasti sono passati sotto il dominio militare israeliano, proprio come  quei palestinesi che sono rimasti nelle loro case nel nord e nell’est della Palestina storica.

I beduini furono concentrati con la forza in un’area amministrata dall’esercito chiamata “Al-Siyaj” (“il recinto”). Con l’introduzione nel 1965 della legge sulla pianificazione e costruzione, la maggior parte dei terreni di Al-Siyaj  fu designata come zona agricola, vietando così la costruzione di case ed etichettando retrospettivamente quelle esistenti come “illegali”.

Nel corso di una notte, una parte considerevole della popolazione beduina fu trasformata in “intrusi” nella propria terra.

Per decenni, lo stato israeliano ha inquadrato il suo conflitto con i beduini nel Negev come una “disputa legale” sulla terra. Nella legislazione statale le terre del Negev sono terre demaniali; ergo, l’affermazione che lo stato si stia appropriando della terra beduina non è vera.

La polizia di guardia mentre gli escavatori lavorano nell’ambito del progetto di forestazione del Fondo nazionale ebraico (JNF) nel deserto del Negev il 12 gennaio 2022. [Getty]

Un’altra linea di difesa a questa logica legale è che le controversie sulla terra tra i gruppi nomadi e le autorità non sono esclusive di Israele, ma un fenomeno regionale.

Né il mandato britannico, né gli ottomani, riconobbero le pretese di proprietà terriera dei beduini nel Negev. Israele ha adottato le leggi fondiarie britanniche e ottomane già esistenti riguardanti le comunità nomadi nel sud.

Opportunamente omesso da questa prospettiva legale è lo status dei cosiddetti insediamenti ebraici di frontiera nella regione, iniziati alla fine del XIX secolo. Questi insediamenti non avevano alcuno status giuridico valido ai sensi della legge ottomana e non erano nemmeno ufficialmente riconosciuti dalle autorità del mandato britannico.

I beduini,  organizzati in tribù, vivevano già da generazioni in tutta la regione. Al contrario, la funzione centrale degli insediamenti ebraici, eretti diverse generazioni dopo in questo deserto semiarido, era la delimitazione dei confini della comunità ebraica in Palestina.

Eppure oggi, mentre la proprietà terriera dei beduini è costantemente messa in discussione, gli insediamenti ebraici sono invece incoraggiati ad espandersi.

Un’altra argomentazione citata delle autorità israeliane fa perno sulle affermazioni secondo cui i beduini rappresentano un ostacolo allo sviluppo nell’area. Ciò fornisce allo stato il potere legale necessario per trasferirli con la forza.

Nel gennaio 2019, le autorità  annunciarono un piano per trasferire con la forza i 36.000 beduini che vivono in “villaggi non riconosciuti” al fine di realizzare progetti di “sviluppo economico” ed espandere i siti di addestramento militare nell’area.

Secondo Adalah, il piano è l’ennesima conferma delle politiche discriminatorie di Israele nei confronti dei beduini nel Negev. Il piano, da attuare nel corso di diversi anni, vedrà alla fine la rimozione di migliaia di beduini in township assegnate dal governo e colpite dalla povertà in altre aree del Negev.

Proposte con la scusa del “bene comune della popolazione beduina”, un rapporto delle Nazioni Unite sostiene che queste township mancano di infrastrutture sufficienti, compresi adeguati sistemi fognari, strutture sanitarie e educative e servizi pubblici.

 “Da un lato, la comunità beduina è barricata nella sua terra storica e resiste all’esproprio. Dall’altro, c’è lo stato israeliano con la sua potenza legale e militare”

Si prevede che gli sgomberi restituiranno allo stato circa 260.000 dunam (circa 640.000 acri), che Adalah, proprio come altri gruppi per i diritti umani, stima saranno utilizzati per facilitare la crescita e lo sviluppo della popolazione ebraica, concentrando i beduini nei centri urbani congestionati.

Il “Piano strategico per lo sviluppo del Negev” del 2005, ad esempio, chiarisce che lo stato mira ad aumentare la popolazione ebraica nell’area da (allora) 535.000 a 900.000 nel 2015. Non è chiaro se l’obiettivo sia stato raggiunto.

Finora, il governo israeliano ha introdotto due piani quinquennali interministeriali (rispettivamente 2011 e 2017) per gli sviluppi economici, educativi e sociali nel Negev. L’effetto positivo di questi piani, secondo il Consiglio regionale per i villaggi non riconosciuti, non corrisponde alla realtà.

Sono esclusi quasi tutti i “borghi non riconosciuti”. Inoltre, il piano del 2017 include una clausola di “applicazione della legge” aggiunta su richiesta di un certo numero di ministri del governo che si erano rifiutati di firmare il piano a meno che non fossero incluse misure aggiuntive per garantire il trasferimento dei beduini dai villaggi non riconosciuti a quelli pianificati dallo stato.

Come suggeriscono i recenti scontri, i molteplici piani di Israele contro i beduini del Negev servono solo ad approfondire il conflitto. Da un lato, la comunità beduina è barricata nella sua terra storica e resiste all’esproprio. Dall’altro, c’è lo stato israeliano con la sua potenza legale e militare, così come la visione coloniale dei coloni.

Tra i due si trovano i membri della Knesset palestinese che tentano di essere fedeli ai loro elettori, pur essendo limitati dai doveri statutari nei confronti dello stato nato attraverso l’espropriazione del loro popolo.

Al momento potrebbe non essere possibile ottenere un risultato soddisfacente per la comunità beduina. E questa non è certamente una buona notizia per la più ampia popolazione palestinese di Israele, che mentre combatte una battaglia esistenziale nel sud, ha gli occhi puntati sul deterioramento delle condizioni socioeconomiche, sull’aumento dei tassi di criminalità e su espropriazioni simili ma più sottili nel nord.

Il dottor Emad Moussa è un ricercatore e scrittore specializzato in politica e psicologia politica della Palestina/Israele.

Traduzione di Grazia Parolari per Invictapalestina.org