La “Combattente del Ritorno”: Pensieri Sparsi su Razan al-Najjar e Nikki Haley

Di Romana Rubeo. Dall’inizio della ‘Grande Marcia del Ritorno’, il 30 marzo, ogni giorno, ma specialmente ogni venerdì, si è trasformato in un bagno di sangue, a tratti persino in un massacro.

Settimana dopo settimana, l’esercito israeliano ha sparato contro i Palestinesi disarmati, che protestavano lungo la linea di demarcazione per gridare al mondo di rimuovere il blocco dalla Striscia e per ribadire la loro determinazione a non rinunciare al diritto al ritorno.

Ho sempre pensato che il minimo che possiamo fare per supportare la lotta di liberazione del popolo palestinese è riconoscerne la forza, la creatività, l’umanità, per sfidare l’immagine disumanizzata e sbagliata che viene dipinta dall’oppressore.

È sempre possibile trovare uno spiraglio di speranza: negli occhi di un bambino che costruisce con le sue mani una maschera anti-lacrimogeni; nei passi dei giovani che ballano la Dakbe, la danza tradizionale palestinese; in una coppia che si sposa al confine; nella storia di due ragazzi che si innamorano mentre si prendono cura dei feriti negli ospedali da campo improvvisati.

È in questa realtà che il dolore della vita quotidiana incontra il coraggio della resistenza; che le innumerevoli ingiustizie dell’occupazione si scontrano con l’orgoglio di un popolo che non rinuncia a combattere, a sopravvivere, a vincere.

Ma quel venerdì 1 giugno, quando Razan al-Najjar è stata uccisa al confine di Gaza mentre cercava di soccorrere ed evacuare dei feriti, non si vedevano luci di speranza in quell’oceano di dolore.

Eppure, la storia di Razan è quella di una guerriera; la sua vita è il simbolo della resistenza che non si spegne e che non può essere uccisa.

Qualche giorno prima della morte, l’infermiera ventunenne di Gaza era stata intervistata dal New York Times.

Mentre guardava fisso in camera e parlava del ruolo delle donne al confine, questa giovane, bellissima ragazza sembrava più forte di qualsiasi stereotipata versione di Wonder Woman.

Con l’hijab a incorniciarne il viso delicato, era più libera di tante pseudo-femministe occidentali, che si riempiono la bocca di slogan vuoti e confondono la libertà con i centimetri di stoffa sottratti ai loro vestiti.

Nessun uomo, diceva Razan, poteva sostituirla. E come darle torto?

Tutti i venerdì, Razan usciva dalla casa in cui viveva con la sua famiglia e andava al confine, a curare i feriti con un obiettivo ben chiaro nella testa: “Salvare vite umane e mandare un messaggio al mondo, che anche senza armi, possiamo fare qualsiasi cosa”.

Razan non era armata mentre correva verso la morte per salvare la vita di un uomo che stava protestando pacificamente.

Indossava con fierezza la divisa da paramedico che, secondo il diritto internazionale e le Convenzioni di GInevra, avrebbe dovuto garantirle l’immunità. I testimoni hanno raccontato che ha alzato entrambe le mani per dimostrare ai cecchini israeliani che non costituiva una minaccia.

L’hanno uccisa comunque. Hanno deciso di porre fine alla sua vita, senza pietà. Le hanno trafitto il torace con un unico, singolo proiettile.

Voglio pensare che Razan non abbia capito che stesse morendo; che mentre il cecchino premeva il grilletto, lei avesse un solo pensiero nella testa: che era forte, più forte degli uomini, più forte degli Israeliani, più forte di quel fato ingiusto che costringe lei e gli altri giovani Palestinesi a lottare per il loro diritto inalienabile a vivere nella propria terra.

Voglio pensare che si sentisse invincibile.

Razan è morta sul campo, circondata da amici e colleghi, che sono accorsi immediatamente a cercare di salvarla, riempendola di amore e struggendosi di dolore.

Il camice bianco insanguinato, quello che avrebbe dovuto proteggerla, è rimasto tra le mani di sua madre: non dimenticherò mai l’immagine di quella donna, seduta su una panca, piena di dignità, nonostante gli occhi consumati dal dolore.

Subito dopo la morte di Razan, si è sparsa la voce che a ucciderla fosse stata un’altra donna; una giovane soldatessa di nome Rebecca, arrivata da Boston, negli Stati Uniti, per unirsi alle file dell’esercito israeliano. La notizia è risultata infondata. La verità è che l’insopportabile dolore collettivo nato da settimane di terribili lutti aveva condotto alla formazione di un mito: ‘Rebecca’ era solo un simbolo, utile a esorcizzare il demone del dolore.

Tutte quelle vittime palestinesi, 123 morti e oltre 13.000 feriti, cifra destinata a salire, e nessun Israeliano ritenuto responsabile; ore, giorni, settimane, mesi e anni di dolore, senza neanche un carnefice da poter odiare.

Ma non c’è bisogno di una ‘Rebecca’ per individuare i veri responsabili dell’omicidio di Razan e di migliaia di altri Palestinesi.

Non basta prendersela con Israele, con il sistema di apartheid vigente, con le sue brutali politiche di occupazione e colonizzazione, o con il suo spietato esercito.

Ogni governo e anche ogni individuo che non condanni pubblicamente le azioni di Israele è da ritenersi moralmente responsabile per il massacro in atto, per questa tragedia collettiva dei tempi nostri.

Ma in quel giorno, in particolare, mentre Razan lasciava questo mondo, un’altra donna, a chilometri di distanza, decideva di premere simbolicamente il grilletto insieme al cecchino israeliano lungo il confine di Gaza.

No, non ‘Rebecca’, né un’altra soldatessa con divisa e anfibi militari, ma una donna in tailleur e stiletti, appena uscita dal parrucchiere: Nikki Haley.

Mentre Razan correva verso il suo crudele destino, immolando la sua vita per un ideale di libertà e giustizia, Nikki Haley, l’Ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite, procedeva in una direzione opposta.

Decideva di porre il veto sulla risoluzione presentata dal Kuwait in rappresentanza dei Paesi Arabi e di proporre una bozza diversa, che attribuiva la responsabilità alla resistenza palestinese e chiedeva loro di “mettere fine agli atti di violenza e alle provocazioni, perpetrati anche lungo il confine”.

Descriveva la risoluzione del Kuwait come “esageratamente parziale, utile solo a minare i tentativi di raggiungere la pace tra Israeliani e Palestinesi”.

Mentre Razan al-Najjar compieva il sacrificio estremo in nome della giustizia, emancipando di fatto tutte le donne, in ogni angolo del pianeta, la Haley condannava deliberatamente a morte persone innocenti, in nome di una sfacciata corruzione morale travestita da realpolitik.

Le sue parole erano un susseguirsi di menzogne, e il riferimento a quegli astratti ‘tentativi di raggiungere la pace’ dovrebbero farci capire, una volta per tutte, che il cosiddetto ‘processo di pace’ è solo un’operazione propagandistica, un mantra vuoto usato per demonizzare e distruggere ogni forma di resistenza, quella di un combattente armato o quella di Razan, con il suo camice da infermiera.

Ricordiamo il volto di Razan ogni volta che le bugie della Haley inquinano il dibattito e alterano la verità su Gaza e sulla Palestina.

Ripensiamo alle sue parole in quel video ogni volta che gli Stati Uniti e i loro alleati si ergono a sceriffi del mondo e a paladini dei diritti civili, della libertà e della democrazia.

Non dimentichiamo l’ipocrisia e la crudeltà della Haley, che ha posto il veto su una risoluzione che avrebbe potuto proteggere Razan e milioni di civili palestinesi nella loro terra, un posto in cui nessuno è al sicuro, neanche chi indossa un camice e salva vite umane.