La demonizzazione dei Fratelli Musulmani non è utile alla lotta contro l’ISIS

Memo. Di Nasim Ahmed.

Questo articolo è il primo della serie Fratelli Musulmani vs. ISIS: MEMO riapre il dibattito sull’Islam politico contemporaneo

David Cameron ha dato il via alla sua indagine sui Fratelli Musulmani dichiarando: ” È un passo importantissimo. Le nostre politiche non saranno mai efficaci se non comprenderemo appieno la reale natura di questa organizzazione.” Quattro mesi più tardi, è l’ISIS a costituire la principale minaccia alla stabilità regionale e globale e un indirizzo politico giusto dovrebbe prevedere una distinzione chiara tra l’Islam politico e il jihadismo violento. Gruppi come i Fratelli Musulmani dovrebbero essere considerati alleati e non liquidati come terroristi, conclusione alla quale sembrerebbe giungere l’inchiesta di David Cameron.

L’inchiesta, commissionata ad aprile e coordinata dall’Ambasciatore Britannico in Arabia Saudita, Sir John Jenkins, è tesa a ricostruire i presunti rapporti tra i Fratelli Musulmani e l’estremismo. Esiste la concreta possibilità che il movimento venga dichiarato illegale in quanto organizzazione terroristica, una decisione che potrebbe gettare un’ombra di discredito su innumerevoli musulmani in tutto il mondo. È una scelta saggia, considerando la sostanziale sconfitta riportata nella cosiddetta “guerra al terrorismo”?

I sospetti, talvolta addirittura i timori, dell’Occidente nei confronti dell’Islam politico sono frutto di una serie di fattori: la rivoluzione islamica in Iran, gli attacchi terroristici, uno dei quali verrà ricordato come l’evento cardine del XXI secolo; e la questione relativa alla compatibilità dell’Islam con i costumi delle democrazie laiche occidentali. Quest’ultimo fattore, ovviamente, incide poco sulle politiche dei governi, visti i rapporti duraturi tra gli stati occidentali e i regimi autoritari del Medio Oriente.

Il successo dei partiti islamisti in Turchia e in tutta la regione in seguito alle cosiddette “Primavere arabe” non ha contribuito ad attenuare queste preoccupazioni. Sebbene sia risultato vincitore in tre elezioni democratiche in Medio Oriente, il giudizio sull’Islam politico è ancora sospeso. Nel 2006, in Palestina, Hamas ha vinto le prime elezioni democratiche controllate da osservatori internazionali; in Tunisia, Ennahda (Movimento della Rinascita) ha conquistato il 41% dei seggi parlamentari; e in Egitto, il Partito Libertà e Giustizia, espressione dei Fratelli Musulmani, ha sfiorato la maggioranza assoluta dei consensi. È palese che l’Occidente utilizzi due pesi e due misure  nei confronti dei partiti islamisti, in particolare con i Fratelli Musulmani in Egitto, dove una rivoluzione ha destituito un regime militare e lo ha rimpiazzato con un presidente democraticamente eletto, che è stato a sua volta spodestato da un golpe militare. Questo atteggiamento risulta dannoso e controproducente nell’ottica di una battaglia contro il jihadismo violento dell’ISIS.

L’iniziativa intrapresa da Cameron con l’inchiesta sui Fratelli Musulmani, che si ripropone di delineare i valori e la filosofia fondanti del movimento per comprendere meglio “con chi abbiamo a che fare”, potrebbe rivelarsi un boomerang, secondo la Professoressa Rosemary Hollis. Sembra che la decisione di condurla sia nata in seno all’intelligence britannica e non al Foreign Office, che invece è perfettamente consapevole di quanto sia pericoloso isolare la base di un movimento islamista finora identificato come relativamente moderato e non violento.

Alcune domande sorgono spontanee: ad esempio, chi produrrà le prove? E soprattutto, l’indagine risponde agli interessi Britannici o a esigenze esterne? Moltissimi cittadini britannici e milioni di musulmani nel mondo troveranno affinità tra i loro ideali e quelli dei Fratelli Musulmani e dell’Islam politico. Far partire questa inchiesta in un momento di fortissima instabilità dimostra, nel migliore dei casi, una grossolana ignoranza sull’Islam politico e un atto di discutibile opportunismo, visto che Arabia Saudita, Egitto e Emirati Arabi Uniti hanno già classificato i Fratelli Musulmani come gruppo terroristico, al pari del Fronte Al-Nusra e dell’ISIS.

L’inserimento dei Fratelli Musulmani nelle organizzazioni così classificate è quanto meno sospetta. Ed è scioccante che sia la coalizione di Cameron a considerarli tali, visto che il movimento è stato di recente eletto democraticamente nelle elezioni egiziane e ora viene affiancato all’ISIS.

Distinzioni tra ISIS e Islam politico

Vista l’ascesa dell’ISIS, è giunto il momento di affrontare la questione della scarsa conoscenza dell’Islam politico da parte dell’Occidente. Non possiamo più permetterci di pensare all’Islam politico come parte di un unico continuum, in cui si identifica con l’etichetta di “musulmano” ogni epifenomeno che vada dall’attivismo politico al Jihadismo violento. I Fratelli Musulmani e l’ISIS non sono semplicemente diverse sfumature nello spettro dell’Islam politico; insistere nel considerarli alla stessa stregua non fa che rafforzare dubbi e sospetti su tutti i Musulmani. Le loro origini sono diverse, e diversi sono i contesti in cui evolvono; le tattiche adottate non sono paragonabili e probabilmente le loro strategie per il futuro non si incroceranno mai. Come sostenuto da Alastair Crooke, ex diplomatico britannico, scrittore e fondatore del Conflicts Forum, è impossibile comprendere l’ISIS se non si conosce la storia del Wahhabismo in Arabia Saudita.

Crooke descrive il dualismo saudita e i conflitti interni, che segnano il paese sin dalla sua nascita. Da una parte ci sono i sostenitori della dottrina religiosa che fa capo direttamente a Muhammad Ibn Abdul Wahhab e dall’altro coloro che hanno condiviso la svolta statalista attuata dal Re Abd-al Aziz Ibn Saud negli anni ’20, che ha dovuto accantonare la violenza per ottenere un riconoscimento su scala mondiale. Crooke sostiene che il vero scopo dell’ISIS sia quello di destituire la famiglia reale Saudita ed ergersi a nuovi emiri dell’Arabia. A suo parere, l’ISIS coincide con la fazione wahhabista di allora, solo che oggi manca il controllo politico di Abdul Aziz; è la manifestazione concreta di un moderno gruppo politico che affonda le radici nel Wahhabismo.

A prescindere dalle considerazioni sulla tesi di Crooke, nonostante l’Arabia Saudita abbia donato 100 milioni di dollari al programma antiterrorismo delle Nazioni Unite, e il gran muftì abbia dichiarato l’ISIS come il “nemico numero uno”, l’ISIS è molto più vicino al Wahhabismo, movimento religioso maggioritario in Arabia Saudita, di quanto non lo siano i Fratelli Musulmani. Questi hanno sicuramente commesso degli errori, ma erano pienamente coinvolti nel processo di democratizzazione dell’Egitto e non hanno mai minacciato l’uso della forza, condotto arresti di massa o emesso condanne a morte di matrice politica contro i loro oppositori. Al contrario, sono stati gli avversari storici del movimento e il regime militare ormai rinvigorito a commettere simili crimini contro i Fratelli Musulmani e a cercare ora di ridurli al silenzio, liquidandoli come organizzazione terroristica.

I governi stranieri dovrebbero cercare di non diventare complici di questa farsa dando piena legittimità al golpe militare egiziano. Devono capire che l’etichetta di “terrorista” viene affibbiata solo per attenuare le conseguenze nefaste del deficit di legittimità che caratterizza i regimi non democratici del Medio Oriente.

Nel tentativo di sostenere la battaglia contro l’estremismo violento, sarebbe sciocco continuare ad appoggiare regimi autoritari e criminalizzare, al tempo stesso, organizzazioni di massa come i Fratelli Musulmani, più antiche di queste dittature e con un grado di legittimità democratica e civile maggiore, in grado di vincere libere elezioni quando sono messe nelle condizioni di parteciparvi. Sarebbe una strategia poco sensata e un paese sovrano come la Gran Bretagna non dovrebbe porre aut aut nei confronti dei Fratelli Musulmani. Se i governi occidentali non hanno alcun problema a collaborare con regimi repressivi che opprimono quotidianamente il loro popolo nella morsa del terrore, dovrebbero mostrare ancora maggiore tranquillità verso gruppi che sono definiti “terroristi” da questi stessi regimi. Tale incoerenza deriva da una mancata comprensione della minaccia posta dall’ISIS e da un uso sconsiderato del termine “Islamismo”.

Uso improprio del termine Islamismo

L’accezione ampia di termini come “Islamismo” e “Islam politico” per indicare semplicemente ogni partito politico che si ispira alla fede islamica è imprecisa e scorretta. Imprecisa, perché foriera di errori di analisi. Il termine Islamico, almeno per il milione e 600 mila fedeli, si riferisce ai principi fondanti della religione; ne deriva pertanto, logicamente, che così come non è giusto né possibile parlare di terrorismo ebraico o cristiano, non si dovrebbe nemmeno parlare di terrorismo islamico, crimini di matrice islamica, violenza islamica e così via. Chiaramente, è possibile che vi siano criminali o terroristi di religione musulmana. Membri di determinate frange possono autodefinirsi “Islamici”, ma questo non rende più giusta o corretta una definizione che è invece sbagliata ed ingiusta, perché, nella stragrande maggioranza dei casi, gli islamici non sono violenti terroristi e mai lo saranno.

Questo errore di fondo deriva da una mancata comprensione e da una più generale inconsapevolezza riguardo la natura ed il ruolo della religione, in particolare dell’Islam, nel Medio Oriente. Nelle culture di questa zona, la religione ha un ruolo diverso rispetto all’Occidente. I riferimenti alla religione e i richiami al simbolismo religioso fanno parte della quotidianità, in quanto la fede è radicata nella società. Per i baathisti laici come Saddam Hussain, i nazionalisti Arabi come Nasser e Sadat, le monarchie ereditarie del Golfo e le organizzazioni come i Fratelli Musulamani e l’ISIS, la religione funge da fattore di legittimità. È un sole, attorno a cui ruota tutto il resto. Quindi per certi versi, considerando il ruolo antropologico che riveste nel Medio Oriente, è estremamente superficiale cercare nella religione le risposte al problema dell’ISIS; perché questo ci porterebbe ad avere una maggiore conoscenza delle condizioni dell’Islam in questi paesi, ma al contempo non ci direbbe nulla rispetto all’Islam stesso.

Bisogna distinguere con chiarezza tra l’attivismo islamico e gli estremisti violenti. Gli attivisti sono spinti dalla fede, così come molti Ebrei, Cristiani o seguaci di altre religioni sono spinti dal loro credo e si mobilitano intorno a questo. La vera domanda è: operano entro i confini delle regole del gioco politico, nel quadro costituzionale, nel rispetto delle leggi, per migliorare i loro paese e la loro comunità?

Mi sembra dunque che eventuali azioni contro i Fratelli Musulmani possano essere estremamente controproducenti, nel momento in cui la guerra contro l’ISIS sta ridisegnando la mappa politica del Medio Oriente. Fratture politiche del passato vengono ricucite, mentre si delineano nuove distinzioni. L’ISIS è riuscito laddove qualsiasi altra organizzazione terroristica aveva fallito: ha reso alleati dell’Occidente l’Iran, l’Arabia Saudita e Israele. Persino Al-Qaida ha disconosciuto l’organizzazione. Il PKK, Partito dei Lavoratori del Kurdistan, era ritenuto un gruppo terroristico da Gran Bretagna e Usa, ma adesso viene reclutato nella lotta contro l’ISIS. In questo clima di ridefinizione del quadro politico, impensabile solo fino a qualche mese fa, considerare i Fratelli Musulmani alla stregua di terroristi non ha alcun senso.

Non ripetere gli errori della guerra al terrorismo.

Dobbiamo pensare all’ISIS e alle possibili decisioni del governo britannico, nel contesto più ampio della cosiddetta guerra al terrorismo, percepita da molti come una guerra contro l’Islam e i Musulmani, perseguita da neo-conservatori estremisti spinti da motivi di natura ideologica, ovvero dalla volontà di modificare l’assetto del Medio Oriente, e armati di una cieca fiducia nella capacità, da parte dell’America, di cambiare il mondo grazie al solo uso della forza. La follia di una simile “crociata” è ormai palese, nonostante i principali fautori di quell’operazione sciagurata, tra cui Tony Blair, abbiano lasciato intendere, in seguito ai tumulti in Siria e alle Primavere Arabe, che la deposizione di Saddam in Iraq sia stata un detonatore per le rivoluzioni arabe e abbia evitato un’altra guerra settaria come quella siriana. Logica vorrebbe che, se i neo-con intendono prendersi il merito di tutti gli effetti positivi dell’invasione e dell’occupazione in Iraq, dovrebbero anche assumersi la responsabilità dei molteplici danni causati.

È un dato di fatto che l’invasione dell’Iraq abbia favorito il terrorismo e la nascita di moltissimi nuovi ribelli di religione musulmana. Tony Blair era stato avvisato dai servizi segreti sul fatto che l’invasione avrebbe accresciuto la possibilità di un attacco terroristico di Al-Qaida contro la Gran Bretagna. In un’intervista ormai famosa, che ha avuto ben 1.200.000 visualizzazioni su YouTube, Dick Cheney, uno dei principali artefici della guerra al terrorismo, risponde a una domanda sul 1996, sulle ragioni che spinsero l’America a non arrestare Saddam a Baghdad e a non deporre il regime dopo la liberazione del Kuwait. “Se l’avessimo fatto,” ha dichiarato, “saremmo stati soli, nessuno ci avrebbe appoggiato. Sarebbe stata un’occupazione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti, non sostenuta da altre potenze arabe. Se avessimo occupato l’Iraq e deposto il governo di Saddam Hussein, chi avremmo dovuto mettere al suo posto? Quella è una regione molto instabile, abbattere il governo centrale iracheno poteva voler dire smantellare l’Iraq e affondare in un pantano”.

E in effetti, è un vero e proprio pantano quello che si è creato in seguito. Non è stata la mancanza di conoscenza o di lungimiranza a far sì che gli Stati Uniti approdassero a questa situazione caotica. Al contrario, sono state l’eccessiva sicurezza nella bontà dei propri obiettivi e la cieca fiducia nella propria capacità di conseguirli. La morte e la distruzione che, chiaramente, ne sarebbero seguite, sono state viste come “le doglie del parto di un nuovo Medio Oriente”. Questo “nuovo Medio Oriente” doveva, nei propositi, ridefinire la regione scatenando le forze del “caos costruttivo” e creare una situazione di tensione e focolai di guerra che gli Stati Uniti e i loro alleati avrebbero potuto sfruttare per ridisegnare i confini della regione, a seconda delle loro esigenze e dei loro obiettivi geo-strategici.

Le insidie dell’arroganza

Il problema è che la violenza è incontrollabile e comporta un pericolo reale: può dare luogo a realtà che non erano state previste. Forse la Freedom Agenda di George W. Bush ha creato in Medio Oriente le condizioni per un processo di democratizzazione, come i commentatori repubblicani non hanno mancato di sottolineare nel 2012, ma ha anche determinato le condizioni per la nascita dell’ISIS.

Un’analisi imparziale sul Medio Oriente condotta da William R. Polk, ex consulente del comitato di gestione delle crisi del Presidente John F. Kennedy, è giunta a queste conclusioni: in Libia, dopo l’abbattimento del Regime di Gheddafi, si sono scatenate forze tali che hanno diviso la nazione e si sono riversate nell’Africa Centrale, aprendo una nuova area di instabilità. In Egitto, il “golpe – non golpe” del Generale Al-Sisi non ha prodotto nulla di positivo per il popolo egiziano, si è limitato a giustiziare moltissimi leader religiosi. Nella Palestina occupata, lo stato di Israele sta riducendo la popolazione alla miseria, generando rabbia e malcontento. In Siria, i  governi occidentali hanno armato, addestrato e finanziato quelle stesse forze che oggi compongono l’ISIS e che vengono bombardate in Iraq. In Iraq, l’Occidente si accinge a sostenere un regime alleato con Siria ed Iran, che per anni sono stati nel suo mirino; e in Iran, sembra che non si voglia più annientare il regime, ma che anzi si cerchi il suo aiuto per sconfiggere i ribelli iracheni.

Democrazia o stabilità è un falso dilemma.

Vista la continua comparsa di terribili nemici, il desiderio di stabilità potrebbe di nuovo prendere il sopravvento sulla volontà di diffondere la democrazia. Questo sarebbe un terribile errore.

Va anzi ribadito che la scelta tra stabilità e libertà è un falso postulato, sbandierato dagli esponenti di destra che, per primi, hanno sostenuto la guerra al terrorismo. Nonostante il fallimento del governo islamista in Egitto, l’idea di dover scegliere tra democrazia e stabilità ha ricevuto un duro colpo dopo il successo della Turchia e del Partito Ennahda in Tunisia. Forse non è un colpo mortale, visto il fallito tentativo da parte dei Fratelli Musulmani in Egitto di andare verso una transizione pacifica, ma la teoria secondo cui gli Islamici userebbero la democrazia per conquistare il potere e poi cambiare rotta, sembra fare acqua da tutte e parti. Sicuramente questa teoria, che condiziona la linea politica di molti governi, dovrebbe basarsi su esempi reali. Se fosse vera, i Fratelli Musulmani avrebbero dovuto usare ogni mezzo pur di restare al potere. Dopo la caduta di Mubarak, l’Egitto sarebbe stato comunque ingovernabile, a prescindere da chi si fosse messo alla guida, ma altri partiti islamici hanno dimostrato di saper governare un territorio in varie zone della regione.

La seconda guerra al terrorismo

La guerra al terrorismo di George W. Bush ha alimentato il terrorismo: questo è un dato di fatto. Nata dalla convinzione dei neo-conservatori di cambiare volto al Medio Oriente attraverso la Freedom Agenda, giace ormai nel dimenticatoio, ma le conseguenze rimangono. La guerra ha gettato discredito sulle organizzazione musulmane. L’attivismo sociale e politico dei Musulmani è stato visto come il primo passo verso il terrorismo violento. Questa narrazione, ripetuta fino allo sfinimento, ha isolato i musulmani in ogni parte del mondo. Le organizzazioni musulmane sono state marginalizzate in favore di cosiddetti esperti e think tank, che in teoria avrebbero dovuto comprendere l’anatomia del “terrorismo Islamico”.

Adesso Barack Obama ha lanciato la “seconda guerra al terrorismo”. E ci ha tenuto a ribadire le differenze dalla prima. Ha cercato di far comprendere che l’attuale spiegamento di forze da parte dell’America non è paragonabile alla prima guerra al terrorismo e alla successiva invasione del’Iraq. “Quando si intraprende un’azione militare, ci sono sempre dei rischi” ha dichiarato, “ma voglio che il popolo Americano capisca quanto questa operazione sia diversa dalle guerre in Iraq e in Afghanistan. Questa vedrà il coinvolgimento di un’“ampia coalizione” di alleati, che si uniranno all’America per contrastare l’ISIS.”

La seconda versione della guerra al terrore sicuramente presenta dei miglioramenti rispetto alla prima; l’impostazione che prevedeva l’invasione di interi paesi e che trasformava i cittadini in sospettati era per forza di cose destinata a fallire. Sembra, almeno per il momento, che si possano evitare gli errori che avevano segnato la prima operazione: un’impostazione molto ideologica e senza obiettivi chiari, l’assenza di legittimazione internazionale e soprattutto il conseguente isolamento dei Musulmani nel Regno Unito e nel mondo. Ma questa ricerca di chiarezza e lucidità imposta dalla minaccia rappresentata dall’ISIS sarà vana, se il governo Britannico non opererà la necessaria distinzione tra ISIS e Fratelli Musulmani, invocata a gran voce dai cittadini britannici di fede musulmana. Non sono la stessa cosa, e nessuna disonesta operazione politica potrà cambiare questo dato di fatto.

Traduzione di Romana Rubeo