‘La finta solidarietà della sinistra sionista israeliana’

Pubblichiamo qui di seguito un articolo di Electronic Intifada sulla “solidarietà sionista” alla causa palestinese. Si tratta purtroppo di una tendenza sempre più diffusa anche in Italia, e, inaspettatamente, pure nell'esperienza della seconda Freedom Flotilla per Gaza, dove ha fatto sentire la propria voce una componente vicina al sionismo.

Da anni ormai, la “sinistra pro-Palestina” è pesantemente infiltrata da elementi e realtà sioniste, che gestiscono “il discorso” della solidarietà decidendo “le modalità” attraverso cui il sostegno al popolo palestinese va veicolato, emettendo editti di inquisitoria memoria contro chiunque osi pensarla diversamente, e spargendo la velenosa, quanto falsa, accusa di “antisemitismo”. In questa trama ordita da Quinte Colonne della propaganda israeliana, in Italia abbiamo visto abboccare giornalisti coraggiosi, noti sacerdoti, compagni e amici, spaventati da sionisti mascherati (quasi fossero dei “musta'rabiyin”, soldati israeliani travestiti da arabi) da solidali con il sofferente popolo di Palestina. 

E' forse ora che il variegato mondo della solidarietà “a sinistra” faccia un po' di chiarezza, in particolare, in vista di altre flotillas o carovane per Gaza, o di altri eventi in Cisgiordania e Gerusalemme, perché i palestinesi non possono ritrovarsi vittime anche di un'oppressione travestita da solidarietà.

“La finta solidarietà della sinistra sionista israeliana”

di Budour Youssef Hassan

The Electronic Intifada

28 luglio 2011

Il 15 luglio, migliaia di israeliani hanno marciato in corteo nella Gerusalemme Est occupata a sostegno di uno “stato” palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Definita dagli organizzatori israeliani come una marcia congiunta palestinese-israeliana e ornata di slogan quali “lotta condivisa” e “solidarietà”, la partecipazione palestinese all’evento è stata comunque scarsa – solo un piccolo gruppo di partecipanti era palestinese. Questo evento ha avuto luogo alcune settimane dopo una marcia dello stesso tipo tenutasi a Tel Aviv, ma mentre la manifestazione di Gerusalemme ha raccolto una maggiore pubblicità per il fatto stesso di tenersi in quella città, entrambi gli eventi rendono palese il fallimento della supposta solidarietà della “sinistra” sionista nei confronti dei palestinesi.

Il termine solidarietà – così come quello di coesistenza – è così abusato nel discorso sionista liberale da renderlo privo di significato. L’idea sbagliata della solidarietà solleva una questione: che cosa vuol dire solidarietà, ed in particolare, quando può un’azione condotta da israeliani nel nome del sostegno ai palestinesi essere considerata un atto di vera e propria solidarietà?

E’ possibile che ogni volta che degli israeliani si riversano in strada inneggiando alla “Fine dell’occupazione” ciò venga avventatamente descritto come solidarietà? Ogni occasione in cui degli israeliani sventolino bandiere palestinesi dovrebbe forse venire entusiasticamente celebrata come un grosso aiuto alla causa palestinese? Dovrebbero i palestinesi semplicemente dire grazie per il fatto che, tra l’aumento della costruzione degli insediamenti in Cisgiordania, Gerusalemme Est inclusa, e la travolgente insorgenza del razzismo nella società israeliana, ci siano ancora alcune voci in Israele che hanno voglia di “riconoscere” uno stato palestinese?

Quando delle persone che si trovano in una posizione di privilegio formulano e progettano una soluzione e la impongono ad un popolo colonizzato ed occupato come l’unica possibile e “l’unico passo costruttivo che resta” – così veniva posta la questione nell’appello del 15 luglio – allora non si tratta di solidarietà ma piuttosto di un’altra forma di occupazione. Essere solidale non significa dire a qualcuno quello che tu credi che sia il suo problema, tantomeno dirgli quella che a tuo parere dovrebbe essere la soluzione. Essere solidali non significa essere d’accordo su tutto o anche essere d’accordo su una soluzione prefissata, ma significa lottare per una causa condivisa indipendentemente dalle differenze.

Un quasi-stato costruito sul 22% del territorio della Palestina storica non è ciò per cui i palestinesi hanno combattuto negli ultimi 63 anni: presentarlo come tale sottrae ai palestinesi la loro voce e il loro diritto di decidere del proprio destino.

Molti sostengono che lottare fianco a fianco con la sinistra sionista allarghi la base del sostegno alla causa della Palestina e fornisca ai palestinesi l’opportunità di discutere e convincere la parte avversa. Ciò sarebbe vero se i sionisti considerassero i palestinesi come partner sul loro stesso piano, ma non è così. L’intero concetto dei due stati per due popoli come unica soluzione all’impasse palestino-israeliana – estremamente popolare tra i sionisti liberali – è basato sull’isolazionismo, l’eccezionalità e la consapevolezza sionista della propria legittimità morale e della superiorità nei confronti dei palestinesi. Tutto questo li fa sentire legittimati a definire il problema, a darne la soluzione e a stabilire anche gli strumenti per ottenerla.

Una marcia “congiunta” palestinese-sionista non dà la possibilità di iniziare un dialogo produttivo; fornisce piuttosto ai sionisti un’ulteriore occasione per emarginare le voci dei palestinesi e per insegnare a questi come dovrebbero fare resistenza e cosa dovrebbero accettare.

Questo tipo di manifestazioni dunque, mentre sembra chiedere l’uguaglianza, in realtà mantiene lo status privilegiato degli ebrei israeliani. E se pure una volta ogni tanto riesce a portare in piazza migliaia di israeliani, in realtà non accresce il sostegno israeliano alla causa palestinese. Al contrario, rivela il sostegno ad una “soluzione” che ignora il problema dei profughi – cioè il cuore della causa palestinese –,  frammenta la nazione palestinese e condanna i cittadini palestinesi di Israele ad una perpetua condizione di inferiorità e discriminazione.

La solidarietà non si misura con i numeri. Non nel contare quante persone sono venute ad una manifestazione a favore della Palestina, ma nella ragione per cui queste persone hanno partecipato. Lottare al fianco di una cinquantina di israeliani davvero impegnati a sostegno della causa palestinese è quindi molto più importante e di maggior valore che marciare all’ombra di migliaia di israeliani che credono che la Palestina sia solo la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.

La pagina di Facebook della marcia del 15 luglio a Gerusalemme aveva in ebraico questo titolo: “Marciare per l’indipendenza della Palestina”, mentre la versione araba diceva: “Insieme verso la liberazione della Palestina”. C’è un’enorme differenza tra la liberazione e uno “stato indipendente”. Per i palestinesi la libertà ha un significato molto più ampio della creazione di un bantustan in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. La discrepanza tra le versioni araba ed ebraica è significativa, ma non è né cosa nuova né strana che le organizzazioni “di sinistra” israeliane si rivolgano al pubblico palestinese con un linguaggio ed un tono diverso rispetto a quello usato per il pubblico israeliano.

Del centinaio circa di palestinesi che hanno partecipato alla manifestazione, molti hanno deciso di farlo perché hanno capito, sbagliandosi, che lo scopo fosse la richiesta della libertà, piuttosto che un appello ad una fasulla “indipendenza”. Inoltre, i membri dei comitati popolari palestinesi di Sheikh Jarrah e Silwan, due quartieri vittime di continue demolizioni di case e di un silenzioso e straziante processo di pulizia etnica, sostengono di non aver avuto altra scelta che aderire alla marcia al fine di attirare l’attenzione sulla loro lotta. Ma la loro difficile situazione è stata strumentalizzata dagli organizzatori per pubblicizzare la marcia come “lotta comune”, allo scopo di guadagnarsi dei punti a livello politico e per migliorare le public relations.

Non ci vuole certo sminuire l’apporto del Movimento di solidarietà con Sheikh Jarrah, il principale organizzatore della marcia del 15 luglio. Le manifestazioni a cadenza settimanale che esso organizza a Sheikh Jarrah e a Lydd hanno fatto luce sulla lotta dei palestinesi ivi residenti contro la sistematica politica israeliana di demolizione delle case ed evacuazione. I dirigenti di questo movimento e di altre organizzazioni pacifiste israeliane di sinistra ricevono brutali attacchi dall’estrema destra israeliana, incluse minacce di morte e accuse di tradimento.

Tutto ciò comunque non le pone al riparo da critica. Pur con tutto il loro attivismo, non sono riuscite ad abbracciare il pubblico palestinese e a coinvolgerlo. Le loro manifestazioni sono dominate da bianchi e laici liberali sionisti, e la voce dei palestinesi, che si presume vogliano far sentire, non si sente, in mezzo ad un coro di canti in ebraico sulla pace e la coesistenza. Persino gli slogan e gli striscioni portati durante le manifestazioni sono stati decisi preventivamente dagli organizzatori israeliani, trasformando le proteste in una routine noiosa, penosamente prevedibile ed elitaria.

Riassumendo, la “solidarietà” israeliana è un’arma a doppio taglio. Potrebbe potenzialmente far avanzare la causa palestinese, influenzare l’opinione pubblica israeliana e portare la lotta palestinese sui media che vanno per la maggiore. Ma in realtà c’è il grosso rischio che alcuni gruppi dirottino il crescente movimento di base della resistenza popolare palestinese per metterlo sotto il mantello della solidarietà e della coesistenza.

Il fatto che ci sia un’enorme ondata di evidente estremismo all’interno dell’élite israeliana al potere e più in generale nella società israeliana, non vuole dire che i palestinesi abbiano il dovere di acclamare con gratitudine i “compromessi” dei sionisti di buon cuore. La solidarietà non è né un atto di carità né una parata di discorsi pretenziosi e di vuota retorica. E’ un obbligo morale che dovrebbe essere adempiuto con un impegno pieno, risoluto ed incondizionato.

Quelli che ricercano l’apprezzamento e la gratitudine farebbero meglio a starsene seduti nelle loro comode poltrone di Tel Aviv. Ogni tentativo di strumentalizzare le difficoltà palestinesi e di trasformare la causa palestinese da lotta per i diritti umani, la giustizia, la libertà e l’uguaglianza in uno sfoggio di fasulla indipendenza e di frasi fatte deve essere denunciato e respinto.

 

Budour Youssef Hassan, originaria di Nazareth, è un’attivista socialista palestinese e una studentessa al terzo anno di giurisprudenza dell’Università ebraica di Gerusalemme. E’ possibile contattarla su Twitter: twitter.com/Budouroddick

 

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