La guerra dell’informazione in Israele e Palestina

350741CMa’an. Di Megan Hanna. I titoli dei media occidentali, della BBC, della CNN o del Telegraph, nel coprire l’ escalation di violenza che sta attualmente interessando Israele e i territori palestinesi occupati, si sono concentrati soprattutto sulle vittime israeliane. Solo brevi analisi sono state dedicate alla morte di qualcuno dei 44 palestinesi uccisi da Israele dall’inizio del mese.

Sabato, le varie fonti occidentali riportavano la versione fornita dall’esercito israeliano, secondo cui il diciottenne Fadil Qawasmi era stato ucciso dopo un tentativo di accoltellamento a Hebron. Ma un video che si è diffuso subito dopo ha sollevato non pochi dubbi sull’eventualità che sia stato il soldato israeliano a infilare un coltello sotto il suo corpo esanime, come narrato dai testimoni, che confutano la versione ufficiale degli eventi fornita dall’esercito.

Il 4 ottobre, la polizia israeliana uccide con un colpo d’arma da fuoco  Fadi Alloun, 19 anni, a Gerusalemme Est. Come riportato dal New York Times e da altre fonti, anche in questo caso la versione israeliana parla di un tentativo di accoltellamento. Ma il video amatoriale girato da un astante e poi pubblicato sui giornali locali, dimostra che il ragazzo non rappresentava una minaccia al momento della sparatoria: sembra invece che stesse fuggendo da un gruppo di coloni israeliani che lo chiamavano con l’appellativo di “terrorista”, incitando l’agente a fare fuoco.

Si è parlato pochissimo, invece, del video circolato sui social media il 12 ottobre, in cui si vede il tredicenne Ahmad Manasra, che viene investito dopo un’aggressione con il coltello nell’insediamento di Pisgat Zeev, vicino a Gerusalemme Est. Il suo corpo è sanguinante, le gambe divaricate in posizione innaturale, mentre gli astanti lo insultano a colpi di “Muori! Figlio di puttana, muori!”, e incitano la polizia a “sparargli un colpo in testa”. Poca attenzione ha suscitato anche il video della trentenne Israa Abed, madre di tre figli, a cui hanno sparato l’11 ottobre alla stazione dei bus di Afula, mentre era in piedi, con le braccia alzate in segno di resa.

Nelle ultime settimane, sui social network c’è stata una grande diffusione di questi video terribili, che mostrano le uccisioni potenzialmente illecite da parte di soldati israeliani, che discordano con le dichiarazioni ufficiali, spesso caldeggiate dalla stampa occidentale.

Quando si guardano i video o si ascoltano le testimonianze, le uccisioni di cittadini palestinesi come il diciottenne Mustafa Adel al-Khatib, in assenza di un’arma o con la vittima con le braccia alzate, sembrano più esecuzioni extra-giudiziali che reazioni di autodifesa. In un rapporto pubblicato il 25 settembre, Amnesty International sostiene che l’omicidio della diciottenne Hadeel al-Hashlamoun, a Hebron, sospettata di detenere un’arma, era “l’ultima di una lunga lista di uccisioni illegali compiute dalle forze israeliane nella Cisgiordania occupata, in un regime di totale impunità.”

E il video che è circolato dopo l’uccisione getta serie ombre sulla possibilità che la ragazza fosse realmente in possesso di un’arma.

Gruppi per i diritti umani come Human Rights Watch hanno espresso “forte preoccupazione” per l’uso “indiscriminato e talvolta deliberato” della forza da parte di Israele, anche ai danni dei manifestanti. In un rapporto di Amnesty International pubblicato il 9 ottobre, si legge che le forze israeliane stanno esercitando “un uso eccessivo della forza su ampia scala, con l’utilizzo di armi da fuoco anche contro persone che non costituiscono una imminente e concreta minaccia di morte.”

Il tutto è reso ancora più doloroso dai racconti forniti dai media occidentali, che parlano di un’“ondata di terrorismo” che sembra provenire da una sola parte e che, anziché rappresentare fonti di notizie imparziali, sembrano invece i megafoni di gente Micky Rosenfeld, portavoce della polizia israeliana, costantemente citato dalla stampa.

Le autorità israeliane possiedono una poderosa macchina mediatica e canali strutturati per diffondere le notizie sui media occidentali, quindi per loro è fin troppo facile presentare la propria versione degli eventi, avendo un vantaggio indiscusso nel dettare le regole della narrazione. I Palestinesi non hanno una rappresentanza altrettanto coordinata e devono affidarsi ai testimoni oculari che, laddove siano disponibili, non vengono quasi mai presi in considerazione dalle fonti di informazione locali.

Purtroppo, la discrepanza tra le dichiarazioni israeliane ufficiali e i fatti appurati attraverso le testimonianze oculari o i video non è un fatto nuovo. Il 3 luglio, il Colonnello Yisrael Shomer ha rilasciato una dichiarazione ufficiale, subito ripresa dalla stampa occidentale, secondo cui il diciassettenne Mohammed Kasbeh era stato raggiunto da un colpo di arma da fuoco nel corso di una pericolosa aggressione ai danni di un veicolo militare. Ma il video diffuso dieci giorni dopo mostrava un’altra verità: il ragazzo era stato colpito alla schiena mentre tentava di fuggire, quindi tale uso eccessivo della forza non era giustificato dall’ordinamento israeliano.

La tendenza largamente maggioritaria nelle agenzie occidentali sembra un fallimento della funzione stessa della stampa, del suo dovere di indagare e riportare i fatti con neutralità, chiarezza e trasparenza. Come ha dichiarato Ingrid Jaradat Gassner, della Coalizione Civica per i diritti dei Palestinesi a Gerusalemme: “I giornalisti stanno facendo un pessimo servizio di informazione quando tacciono sulla violenza sistematica praticata da Israele: dovrebbero attirare l’attenzione del pubblico sui video e sulle testimonianze oculari che contestano le versioni ufficiali e raccontare che i giovani palestinesi vengono deliberatamente uccisi o feriti gravemente anche quando non rappresentano una minaccia concreta alla vita dei civili o delle forze di sicurezza israeliani.”

I media hanno un ruolo determinante nella formazione dell’opinione pubblica, quindi la parzialità delle fonti non rappresenta solo un cattivo servizio di informazione. Il quadro incompleto di quanto sta accadendo in Israele e nei territori palestinesi occupati, fornito al mondo occidentale potrebbe avere ripercussioni significative su un regime di occupazione che andrebbe regolato da un intervento internazionale, come sostenuto dai gruppi per i diritti umani.

La richiesta di bollettini lampo e gli aggiornamenti 24 ore su 24 non fanno che evidenziare la discrepanza tra il racconto delle notizie e la realtà. Con la diffusione di tecnologia a basso costo, qualsiasi spettatore con un telefono dotato di fotocamera può diventare una fonte importante. La recente proliferazione di video amatoriali fornisce una nuova dinamica all’escalation di violenza; sempre più persone si affidano ai social media come fonte primaria di informazione e questo testimonia la difficoltà riscontrata dalle agenzie mainstream di fornire aggiornamenti accurati in tempo reale.

Affidandosi alle dichiarazioni rilasciate da un governo ampiamente criticato dalle ONG e, recentemente, da una Commissione di Inchiesta indipendente delle Nazioni Unite per i suoi sistemi di attività investigativa, i redattori non riescono a formulare titoli attendibili, e sembrano diffondere notizie senza una minuziosa ricognizione della veridicità dei fatti. Coprendo le sue azioni, Israele sta creando intorno a sé un alone di impunità, con i Palestinesi continuamente diffamati e ridotti al falso archetipo di “terrorista”. E gli organi di stampa, non verificando le fonti, stanno contribuendo a questo processo di disumanizzazione.

Interessandosi a un’occupazione che non viene mai narrata nel modo giusto, possedere informazioni accurate è essenziale per risolvere questa situazione; ma soprattutto, la diffusione di notizie fuorvianti è molto pericolosa. Nella guerra d’informazione che circonda quella che alcuni osservatori hanno già definito “La Terza Intifada”, i grandi sconfitti sembrano l’obiettività e l’imparzialità.

Megan Hanna è una fotografa e giornalista freelance che vive e lavora in Palestina.

Traduzione di Romana Rubeo