La guerra saudita contro la Siria

La guerra del Regno dell’Arabia saudita contro la Siria

Ogni osservatore del conflitto siriano desideroso di conoscere di più sulla ribellione antiregime avrà qualche problema a ritrovarcisi in ragione all’inflazione dei gruppi armati che si stimano oggi siano più di un migliaio. La guerra fratricida nella quale sono piombate le principali milizie jihadiste dall’inizio dell’anno accentua la confusione soprattutto sul ruolo e l’evoluzione di Al Qaida nel conflitto. Pertanto, al di là delle loro rivalità economiche e territoriali, una stessa ideologia e una stessa strategia li uniscono e li collegano a un personaggio chiave della guerra siriana: il regno dell’Arabia saudita.

Il wahhbismo siriano prima della guerra 

La corrente religiosa fondata circa 250 anni dal predicatore Muhammad Ben Abdel Wahhab nel Najd, in Arabia Saudita, non è un fenomeno di moda apparso improvvisamente in Siria in favore della primavera araba. Il wahhabismo dispone di una base sociale solida sostenuta da diversi anni dai siriani che vivono in Arabia Saudita e nelle altre teocrazie della penisola arabica. In Siria, gli emigrati dal Golfo sono singolarmente chiamati “i Sauditi”, poiché al loro ritorno nel loro paese, li si confonda con i veri Sauditi. La maggior parte di questi emigrati ritornano in effetti impregnati di puritanesimo rituale, negli abiti, familiare e sociale che caratterizza i regni wahhabiti.

Ma il wahhabismo è anche il fatto dei predicatori salafiti cacciati dal regime di Damasco e accolti dal regno del Golfo. Malgrado la distanza e la repressione, questi salafiti esiliati sono giunti a mantenere delle reti di influenza nelle loro regioni e tribù d’origine.

La moltiplicazione delle catene satellitari emittenti nei paesi wahhabiti si è rafforzata dopo che in Siria la popolarità di alcuni esiliati siriani si è riconvertita al “tele-coranismo”.

Il più emblematico tra di loro è indubbiamente Adnane Arour. Esiliato in Arabia Saudita, colui che viene nominato lo sceicco della discordia (fitna), anima numerose trasmissioni su Wessal TV e Safa Tv dove ha reso famose le arringhe anti-sciite e anti-alawite, nota come quella dove lui dice: “Passare gli alawiti nel tritatutto e gettare le loro carni ai cani”. Nella regione di Hama di cui è originario, Arour ha mantenuto un’influenza significativa al punto che il suo nome era usato fin dalle prime manifestazioni anti-regime del 2011.

Da un punto di vista storico e territoriale, la wahhabizzazione rampante della Siria si è all’inizio imposta nelle popolazioni rurali fuggendo al sunnismo istituzionale siriano d’orientamento hanafita reputato tollerante. Seguito alla svolta liberale improntata dal partito Baath nel 2005, il wahhabismo ha conosciuto un nuovo sviluppo nelle periferie delle metropoli siriane o nelle città di seconda zona come Douma o Darayya ravvivando lo spettro della discordia inter-comunitaria.

Numerosi siriani che si sono arricchiti in Arabia Saudita lanciarono delle campagne caritative nel loro paese d’origine, incrementando così la loro influenza fra i Siriani più poveri. Ogni carenza dello stato era subito colmata dalle reti di beneficenza legate a degli ambiziosi sceicchi esiliati. Uno dei più conosciuti si chiama Mohammad Sourour Zayn Al Abidin. Egli è il capofila di una corrente proselitismo a metà strada fra il movimento dei Fratelli Musulmani siriani e il wahhabismo.

Arrivato il momento, i Siriani del Golfo sono diventati i principali sponsor privati del jihad in Siria, subito assistiti nella loro “missione sacra” dai ricchi donatori sauditi, ma anche kuwaitiani, del Bahrein o ancora giordani, per la maggior parte, di obbedienza wahhabita.

Malgrado la calma del tutto relativa che creava la fama del regime di Damasco prima dei tumulti e della guerra che dura da tre anni, il paese ha conosciuto numerosi casi di tafferugli e di provocazioni a carattere confessionale. Un alawita originario della città maggiormente sunnita di Tall Kalah, nel governatorato di Homs, mi ha parlato di tentativi di pogrom anti-alawiti più di un anno prima delle manifestazioni democratiche del marzo 2011. Altri siriani mi hanno confermato l’installazione durante il decennio precedente, di un clima deleterio su un fondo di rancori comunitari nei quartieri poveri di Damasco e in alcuni villaggi d’Idlib.

Le autorità siriane hanno preferito soffocare questo tipo di incidenti per evitarne il dilagarsi.

Nel marzo 2011, gli slogan ostili agli sciiti, a Hezbollah e all’Iran scanditi alle porte della moschea Abou Baqr As Saddiq a Jableh sulla costa siriana hanno rapidamente ceduto il posto agli appelli alla guerra contro le minoranze. Mentre i siriani manifestavano contro l’ingiustizia, la tirannia, la corruzione e la povertà, alcune forze conservatrici tentavano deliberatamente di volgere la collera popolare verso dei bersagli innocenti, il cui l’unico crimine era quello di esistere. Così, prima che le truppe di Al Qaida sparassero il loro primo colpo in Siria, i predicatori wahhabiti erano già all’opera.

La wahhabizzazione della ribellione siriana

Se all’alba dell’insurrezione siriana, al centro della schiacciante maggioranza dei combattenti di confessione sunnita, si poteva incrociare qualche ribelle druso, cristiano, sciita e alawita, sotto la pressione  degli agitatori  e dei generosi donatori del Golfo, la ribellione va rapidamente a omogeneizzarsi sul piano confessionale e a radicalizzarsi, costringendo alcuni combattenti nati da minoranze a smobilitarsi e a esiliare.

Nella loro propaganda, i gruppi ribelli siriani riprendono a loro volta gli insulti anti-sciiti in voga nel regno dei Saud. Gli sciiti ma anche gli alawiti, gli ismaeliti e i drusi saranno sistematicamente accusati dalla ribellione di essere dei miscredenti (kuffar), dei rinnegatori (rafidhi), degli zoroastriani (majus), dei trasgressori (tawaghit, plurale di taghut: politeisti, adoratori di icone), invasori persiani, safavidi o ancora dei cripto-ebrei.

Parallelamente, degli eserciti dalle connotazioni confessionale si vanno a formare all’interno stesso dell’Esercito siriano libero: battaglioni Muawiya, Yazid, Abou Ubayda Jarrah, Ibn Taymiyya, Ibn Kathir, la brigata turkmena “Yavuz Sultan Selim” dal nome del sultano-califfo ottomano che, nel XV secolo, massacrò alevisti, alawiti e sciiti.

Fra i gruppi di insorti a connotazione confessionale, c’è la famosa Brigata Farouk vera spina dorsale dell’Esercito siriano libero. Nessun media occidentale si è interrogato sul senso della parola Farouk. Si trattava tuttavia del soprannome del califfo Omar Ibn Khattab, considerato come un usurpatore dagli sciiti.

Niente può far dimenticare Khalid al Hamad, l’uomo che eviscerò un soldato dell’esercito governativo prima di gridare portando alla sua bocca il cuore e il fegato della sua vittima: «Oh, eroi! Massacrate gli Alwiiti e strappate i loro cuori per mangiarli!” Ma ci si ricorda che questo individuo non era né membro di Al Qaida né un semplice miliziano, ma un comandante della celebre brigata Al Farouk affiliata all’Esercito siriano libero (ASL) dicendosi moderato e oggi diretto da Salim Idriss.

Il predicatore Andan Aorur che si appellava all’assassinio di massa all’epoca delle apparizioni televisive, fa anche lui parte dell’Esercito siriano libero (ASL) e non della ribellione detta «estremista».

Questi esempi mostrano che la presentazione dell’Esercito Siriano libero (ASL) come ribellione democratica, laica e plurale era un puro prodotto marketing a destinazione dell’opinione pubblica occidentale.

Attualmente, i nostri media presentano il Fronte Islamico (FI), la principale coalizione jihaista che federa circa 80.000 combattenti come una possibile alternativa ad Al Qaida. Il leader del Fronte islamico si chiama Zahran Alloush. E’ figlio di Mohammad Alloush, un predicatore siriano ultraconservatore esiliato in Arabia Saudita. Zahran Alloush ha un bel resistere contro le due succursali siriane di Al Qaida – Al Nosra e lo Stato islamico dell’Iraq del Levante (EIIL) alias Daech -, egli sviluppa la stessa retorica settaria dei suoi concorrenti. In un’allocuzione pronunciata davanti al castello omayyade Qasr al Hayr al Sharq, vicino a Al Sukhna, nel luglio 2013, ecco che Zahran Alloush dichiarava urbi et orbi:

“I figli degli Omeyyadi sono ritornati nel paese del Levante malgrado voi. I mujahidin del Levante laveranno la sozzura dei Raidhas, per purificare il Levante per sempre… Gli Sciiti dimoreranno per sempre sottomessi e umiliati come sono sempre stati lungo la loro storia. E l’Islam ha sempre distrutto il loro Stato….La dinastia degli Omayyadi ha sempre distrutto il loro Stato».

All’inizio di ottobre 2013, quattro gruppi jihadisti che hanno raggruppato diverse migliaia di combattenti indipendenti di Al Qaida annunciano la creazione nell’Est siriano dell’Esercito della Sunna e della comunità (Jaysh al Sunna wal Jama’a). Non solo, questa nuova coalizione sfoggia un nome confessionale chiaramente anti-sciita ma, in più, essa accusa i loro nemici di essere safavidi, un nome che designa una dinastia sciita che regna sull’Iran dal 1501 al 1736. Peraltro, il nuovo esercito confessionale proclama la sua volontà di combattere le “sette” fino al giorno del giudizio finale.
Di conseguenza, sarebbe illusorio considerare la ribellione di gruppi armati contro Al Qaida come pegno di rispettabilità e di tolleranza. In effetti, tutti i movimenti ribelli attivi in Siria praticano il takfir, cioè la guerra contro la “miscredenza”, in un primo tempo contro le correnti dell’Islam che essi considerano come eretiche e i non credenti, poi contro le minoranze cristiane e infine contro i sunniti.

La distinzione fatta dai media occidentali fra i ribelli e gli jihadisti è dunque abusiva. Fra Al Qaida, il Fronte Islamico e l’Esercito siriano libero, c’è in qualche modo un modo dire: se non è zuppa è pan bagnato.

Il Regno wahhabita all’assalto della fortezza siriana

In tre anni di conflitto in Siria, il regime dei Saud non è contento di esportare la propria ideologia. Fin dall’inizio della crisi, Riyad si profila in effetti come la forza di avanguardia della guerra contro il regime siriano. Si fa notare diventando il primo paese al mondo a rompere le sue relazioni diplomatiche con Damasco.

Quando l’insurrezione armata esplode in Siria, il regno wahhabita cerca immediatamente di prenderne il controllo. Incarica i propri agenti locali di canalizzare le risorse finanziarie, logistiche e militari verso i gruppi insorti più deboli.

In Libano, in Turchia e soprattutto in Giordania, i servizi di informazioni sauditi organizzano dei campi di addestramento per i ribelli siriani.

Nel paese del Cedro, l’Arabia saudita mobilita la Corrente del futuro degli Hariri, una potente famiglia libano-saudita politicamente assoggettata alla dinastia wahhabita, così come le cellule terroriste presenti nel Nord del paese. I gruppi terroristi del Nord del Libano costituiscono la forza di riserva tradizionale del regime di Riyad nella sua guerra contro Hezbollah, partito solidamente impiantato nella popolazione sciita del Sud del Libano.

All’inizio della «primavera siriana» (marzo 2011), questo stesso Nord del Libano è logicamente servito all’Arabia Saudita come base d’attacco contro la Siria. Dei mercenari pro-sauditi di qualunque origine, ma soprattutto siriani, sono affluiti verso le province di Homs e di Damasco a partire dal territorio libanese.

Il capo delle operazioni anti-siriane non è altro che il principe Bandar Ben Sultan, segretario generale del Consiglio nazionale di sicurezza saudita. Il principe è per altro soprannominato “Bandar Bush” in ragione dei suoi stretti legami con l’ex presidente statunitense. Abituale delle operazioni segrete, il principe Bandar ha fatto dell’eliminazione del presidente siriano una questione personale. Sbarca personalmente a Tripoli, la capitale del Nord del Libano, per incoraggiare, con monete suonanti e tintinnanti, i volontari per la jihad anti-sciita, anti Hezbollah e anti siriani. A volte, egli incarica i suoi migliori agenti, come il deputato harirista Okab Sakr, di assicurare la logistica. Secondo un inchiesta del giornale Time, Okab Sakr si trovava a fine agosto in Antiochia, la città turca che serve da retroguardia ai jihadisti anti-siriani del Fronte nord per equipaggiare di armi leggere diverse unità dell’Esercito siriano libero (ASL) con base a Idlib e Homs.

Il 25 febbraio 2013, il New York Times ha rivelato che delle armi uscite da stock segreti dell’esercito croato sono state acquistate dall’Arabia Saudita e inoltrate ai ribelli siriani via Giordania. Era questione di “numerosi aerei caricati di armi” e un “numero sconosciuto di munizioni”.

Il 17 giugno 2013, citando dei diplomatici del Golfo, l’agenzia Reuters annuncia la fornitura ai ribelli siriani dall’Arabia Saudita di missili anti-aerei acquistati in Francia e in Belgio. Il dispaccio precisa che il trasporto delle sue armi sarebbe stato finanziato dalla Francia.

In Libano, in Turchia o in Giordania, l’Arabia Saudita avanzava le proprie pedine in misura degli altri sponsor della ribellione, mentre il regime di Ankara e l’emiro del Qatar, rallentavano l’azione. Ormai, la Siria era vittima di una guerra saudita, una guerra d’invasione e di conquista della Siria da parte dell’Arabia saudita.

Le Legioni saudite irrompono in Siria

Vedendo che gli Stati Uniti storcevano il naso a inviare delle truppe per combattere il regime di Damasco seguito all’attacco chimico sopravvenuto il 21 agosto 2013, il regime di Riyad ha deciso di accelerare i tempi aumentando in maniera significativa il budget militare e il numero di mercenari sauditi per la guerra contro la Siria. Parallelamente, diverse centinaia di Sauditi, soldati d’azione o riservisti, hanno vinto la Siria per rinforzare i gruppi terroristi più radicali come Al Nosra o Daesh.

Queste ultime settimane, il giornale libanese As-Safir e i media ufficiali siriani hanno constatato che questa implicazione accresciuta dalla monarchia wahhabita,ha indicato che diversi gradi dell’esercito saudita, tra cui un colonnello, sono stati catturati dall’esercito siriano ad Aleppo, mentre un generale maggiore dell’esercito saudita chiamato Adel Nayef Al-Shummari era stato ucciso in un attacco kamikaze a Deir Attiyeh. I media siriani hanno pubblicato la sua foto in uniforme dell’esercito saudita. Al Shummari sarebbe il figlio del capo degli ufficiali della Guardia reale saudita. Un’altra personalità saudita, Moutaleq el-Moutlaq, figlio del generale saudita Abdallah Moutlaq Soudairi è stato anche lui ucciso ad Aleppo. Alla sua morte, le autorità saudite hanno tentato di dissociarsi dal suo impiego in Siria sostenendo che si fosse recato in questo paese in guerra per scappare alla giustizia. Il giornale As-Safir nota tuttavia che lo zio paterno di Moutlaq al-Moutlaq, si trova anche lui in Siria nelle fila dei gruppi jihadisti.

Fra le migliaia di Sauditi attualmente presenti in Siria, si contano degli sceicchi influenti come Abdullah Al Mohaisany. In un video postato su Youtube, lo si vede armato, cantare le lodi al Fronte Al Nosra e allo Stato islamico d’Iraq e del Levante (EILL), i due rami di Al Qaida in Siria e maledire gli sciiti e gli alawiti.

L’inerzia dei servizi segreti sauditi verso la partenza di personalità pubbliche come Al Mohaisany pone delle domande. All’inizio del conflitto, le autorità saudite sembravano volere tenere i propri cittadini lontano dalla guerra di Siria. Nel settembre 2012, diversi ulema appartenenti a un organo religioso governativo avevano anche sconsigliato ai loro cittadini di andare a combattere in Siria. Oggi, Riyad sembra al contrario predicare con veemenza la guerra totale in questo paese.

A fine novembre 2013, l’esercito arabo siriano ha annunciato di aver catturato non meno di 80 combattenti sauditi a Deir Attiyeh durante la battaglia di Qalamoun.

Il 15 gennaio 2014, l’ambasciatore siriano alle Nazioni Unite M. Bachar Jaafari ha dichiarato che il 15% dei combattenti stranieri in Siria erano Sauditi. Nei suoi due ultimi discorsi, il presidente siriano Bachar el Assad ha sottolineato la minaccia del wahhabismo sull’Islam e sul mondo. E da aggiungere: “(…) tutti devono contribuire  alla lotta contro il wahhabismo e allo suo sradicamento”. Il presidente siriano confermava così che la guerra in Siria è diventata una guerra dell’Arabia saudita contro la Siria.

Conclusione

Quando si parla del ruolo dell’Arabia saudita nella guerra in Siria, per ignoranza o di proposito, gli analisti occidentali restano spesso vaghi, limitandosi a ripetere discorsi in generali sulle rivalità fra l’Iran e la dinastia dei Saoud.

Se i media occidentali principalmente francesi, sono avari e critici verso le monarchie del Golfo, essi sono chiaramente muti sull’ossessione di Saoud di voler confessionalizzare a ogni prezzo un conflitto che è chiaramente politico, geo-strategico e ideologico. E’ vero che “i nostri” esperti puntano il discorso confessionale e l’estremismo della ribellione, ma ne parlano come una conseguenza e non come la principale causa del conflitto e del suo perpetuarsi.

Ora, le forze del regime hanno sempre messo prima la solidarietà interconfessionale e l’unità della patria al centro del loro combattimento, (ciò che i media mainstream badano a non menzionare, facendo passare le forze lealiste per i membri di una sola comunità) mentre i gruppi armati coltivavano la loro differenza e la loro purezza in rapporto alle comunità giudicate devianti in rapporto all’insieme della popolazione.

Laddove queste milizie fanatiche hanno preso il potere, il caos e il terrore si sono installati. Nelle zone dette “liberate”, il gioco pericoloso del rilancio anti-sciita e anti-alawita intrattenuto dai canali di propaganda sauditi è rapidamente mutato in campagna di sterminio di tutto ciò che è non sunnita dapprima e di tutto ciò che è diverso poi. E’ il fenomeno che noi osserviamo oggi, con la liquidazione di più di un migliaio di jihadisti in due settimane di guerra fra fazioni rivali rivendicanti la stessa confessione e la stessa pratica teologica.

In tre anni di crisi e di guerra in Siria, la strategia saudita è passata dal “soft power” e dalla wahhabizzazione rampante alla guerra diretta.

I Saoud hanno cominciato a sabotare ogni prospettiva di riforma, di democratizzazione e di riconciliazione in Siria. Essi hanno poi spinto i Siriani a uccidersi l’un l’altro di fronte alle forze loyaliste dei gruppi armati creati a loro immagine in ogni parte. Vedendo il loro progetto di rovesciamento del regime fallire, essi hanno deciso di tentare il tutto per tutto, liberi di ridurre la Siria in polvere con l’aiuto di Al Qaida.

Come il regime teocratico di Riyad è in guerra contro Al Qaida sul piano domestico, alcuni esperti occidentali dubitano del sostegno di Riyad ai terroristi in Siria. Ora, la manipolazione da parte dei servizi sauditi di gruppi affiliati ad Al Qaida come l’EIIL o Al Nosra  è non solo una costante della politica straniera saudita ma in più, le milizie del Fronte islamico (FI) e dell’Esercito Siriano libero (ASL) che l’Arabia saudita sostiene ufficialmente hanno un’ideologia e una retorica quasi identica a quelle di Al Qaida.

Così, il capo dello spionaggio saudita Bandar Ben Sultan al leader suppremo di Al Qaida Ayman al Zawahiri, dell’emiro di Al Nosra Abu Mohammad Al Joulani al comandante dell’esercito siriano libero Salim Idriss, dell’emiro di Daech Abu Bakr Al Baghdadi al comandante del Fronte Islamico (FI) Zaharan Alloush, essi raccomandano tutti lo stesso discorso, gli stessi metodi e gli stessi obiettivi in Siria.

I terrorismo di queste bande armate e del loro sponsor saudita non lascia altra scelta alla Siria sovrana che di resistere o di sparire.

Noi siamo decisamente ancora ben lontani dalla pace.

Bahar Kimyongür
18 gennaio 2014

Traduzione di Teresa Carpino