La luce alla fine del Tunnel tra Gaza e Ramallah.

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La luce alla fine del Tunnel tra Gaza e Ramallah

Omar Barghouti, The Electronic Intifada, 20 Giugno 2007

Quando la settimana scorsa ho visto alcune delle immagini provenienti dalle lotte intestine di Gaza, ho represso la mia angoscia e la mia ira al calor bianco, ricordando le sagge, quasi profetiche parole del grande educatore brasiliano, Paulo Freire, che scrisse:

"Il problema centrale è questo: come possono gli oppressi, essendo esseri divisi e inautentici, partecipare allo sviluppo della propria pedagogia della liberazione? Solo scoprendosi ad ‘ospitare’ l’oppressore possono contribuire al travaglio della loro pedagogia di liberazione. Finché vivono nel dualismo secondo cui essere significa essere come, e essere come significa essere come l’oppressore, questo contributo è impossibile. La pedagogia degli oppressi è uno strumento per la loro critica scoperta che sia essi che i loro oppressori sono manifestazione di deumanizzazione".

Apparentemente nessuna delle due parti in conflitto è riuscita a trascendere il suo ruolo di essere come l’oppressore.

Il rapidissimo successo di Hamas nell’acquisire con la forza il controllo dei presunti simboli del potere palestinese a Gaza non può e non dovrebbe oscurare il fatto che data l’irresistibile presenza dell’occupazione militare israeliana, il sanguinoso scontro tra il gruppo islamista e la sua controparte laica, Fatah, al di là dei motivi, è sceso al livello di una faida tra due schiavi che si contendono le briciole gettate loro, quando si comportano bene, dal loro comune dominatore coloniale.

Non vi è dubbio che una fazione interna di Fatah — apertamente foraggiata, addestrata e ispirata da USA e Israele — è la principale sospettata dietro il deflagrare di questa sanguinosa lotta che provoca devastazione a entrambe le parti, che molti osservatori vedono come una tentativo sottilmente velato di destabilizzare il governo democraticamente eletto di Hamas, costringendolo ad accettare diktat israeliani che finora aveva respinto. Inoltre, ogni decente esperto legale ammetterà subito che il cosiddetto "governo di emergenza", dichiarato dal Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, in risposta alla conquista di Gaza da parte di Hamas, viola diversi articoli della Legge Fondamentale, l’equivalente della Costituzione dell’AP.

Mentre la corruzione, l’assenza di legge, la speculazione e persino il tradimento da parte di sezioni di Hamas è divenuto noto e ben documentato da tempo, le tattiche brutali, spregiudicate ed in certi casi criminali usate da gruppi armati all’interno di Hamas ammonivano osservatori neutrali, disposti a concedere al gruppo il beneficio del dubbio, a ricordare che anch’esso contiene una forte fazione, affamata di potere, pronta a sacrificare principi e diritti umani per raggiungere i suoi obiettivi politici. Hamas non può andare esente dall’accusa che, partecipando alle elezioni legislative e munipali secondo le leggi e i parametri posti dagli Accordi di Oslo, ha già contribuito a legittimare i prodotti di quegli accordi, ed ha rinunciato alla sua posizione di movimento di resistenza votato principalmente a realizzare i principi fondamentali del programma di liberazione nazionale. Oltre a ciò, e a differenza degli assai più sofistacati e responsabili Hezbollah in Libano, Hamas, nello scorso anno e mezzo di esperienza di governo a vari livelli, ha rivelato la sua intrinseca tendenza, come tutti i movimenti islamisti, ad imporre la sua visione ideologica e sociale esclusiva, e a rigettare e, quando possibile, reprimere i diversi punti di vista e culture che sono in conflitto con quell’ordine.

In breve, il vuoto politico che inevitabilmente risulterà dalla crescente spaccatura tra Ramallah e Gaza e l’inarrestabile collasso delle strutture dell’AP e della rimanente autorità verrà con tutta probabilità riempito da una completa rioccupazione israeliana dell’intera West Bank e Gaza. Questo annuncerebbe la morte ufficiale del cosiddetto processo di pace di Oslo, che in realtà è collassato molto tempo fa sotto il peso dell’incessante espansione coloniale di Israele, del muro dell’Apartheid — dichiarato illegale da parte della Corte Internazionale di Giustizia — e l’intricato apparato di oppressione e umiliazione dei Palestinesi sotto il suo controllo.

Un tale scenario può condurre o a minacciare la sopravvivenza stessa del movimento nazionale palestinese ed il completamento del processo ben avviato di disintegrazione della società palestinese, o a innescare una rinascita della lotta palestinese per l’auto-determinazione. Perché si verifichi il secondo caso, comunque, occorrono due difficili ma realistiche condizioni: primo, la democratizzazione strutturale della Palestina, insieme alla riforma politica e alla ridefinizione delle priorità palestinesi; in secondo luogo, una revisione critica e un rilancio della strategia di resistenza, da prospettive sia etiche che pragmatiche. Entrambe sono urgentemente necessarie, per riallineare la lotta palestinese con il movimento sociale internazionale e porre di nuovo la questione della Palestina nell’agenda mondiale come una lotta di liberazione eticamente e politicamente realistica e giustificabile che — di nuovo — catturi l’immaginazione ed il sostegno dei progressisti e degli amanti della libertà di tutto il mondo.

Al fine di contrastare la duplice strategia israeliana, che da un lato frammenta e ghettizza ed espropria i Palestinesi, e dall’altro riduce il conflitto ad una disputa su un sottoinsieme di diritti palestinesi, l’OLP deve essere resuscitato e rimodellato per incorporare i principi, le energie creative, e le cornici nazionali dei tre principali segmenti del popolo palestinese: i Palestinesi nei Territori Occupati, i rifugiati palestinesi, e i cittadini palestinesi di Israele. Le organizzazioni di base dell’OLP hanno bisogno di essere ricostruite dal basso con una partecipazione di massa, e devono essere rette da una democrazia incondizionata e da rappresentanze proporzionali. Questo processo deve essere seguito da un ben pianificato trasferimento dei poteri dalla avvizzita AP ad un OLP ringiovanito, che includa l’intero spettro del movimento politico palestinese.

Per quanto riguarda le strategie di resistenza, non si può e non si deve separare i mezzi dai fini. Se la lotta per la libertà in Algeria, Irlanda del Nord e Sud Africa ci insegna qualcosa, è questo fatto. Indipendentemente dal diritto dei Palestinesi di resistere all’occupazione straniera con tutti i  mezzi, riconosciutagli dal diritto internazionale, noi abbiamo un dovere morale di evitare tattiche che bersaglino indiscriminatamente i civili e corrompano la nostra stessa umanità. Allo stesso tempo, con un pieno rispetto al primo principio, abbiamo l’obbligo politico di scegliere metodi che massimizzino le notre vittorie. Dato il continuo nichilistico abuso e la completa inutilità della resistenza armata palestinese, l’unicità della sua difficoltà del contesto geopolitico in cui opera il movimento di resistenza palestinese,  la frammentazione di fatto del popolo palestinese e l’isolamento della sua resistenza da potenziali fonti di risorse ed appoggio logistico, la resistenza civile che ha il potenziale di mobilitare la base palestinese sembra non solo moralmente ma anche pragmaticamente preferibile.

Le nuove campagne palestinesi per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) contro Israele, modellate sull’esempio della lotta anti-apartheid in Sud Africa,
ha gia mostrato con ampia evidenza di avere un grande potenziale di unire i Palestinesi ed il movimento internazionale di solidarietà in una strategia di resistenza che è morale, efficace e sostenibile. Solo negli ultimi, molti importanti ed influenti gruppi ed istituzioni hanno aderito all’invito palestinese per il boicottaggio, ed hanno iniziato a considerare ed applicare diverse forme di efficace pressione su Israele.

Tra queste ricordiamo la British University and College Union (UCU);
Aosdana, l’accademia di artisti sostenuta dal governo irlandese; la Chiesa d’Inghilterra; la Chiesa Presibiteriana (USA); importanti architetti britannici guidati dall’organizzazione Architects and Planners for Justice in Palestine (APJP); la National Union of Journalists nel Regno Unito; l’organizzazione Congress of South African Trade Unions (COSATU); il Consiglio delle Chiese Sud Africano; il sindacato del pubblico impiego nell’Ontario; e dozzine di celebri autori, artisti e intellettuali guidati da John Berger, tra molti altri.

L’intensificarsi dell’oppressione dei Palestinesi, particlarmente a Gaza, con un’impunità senza precedenti è stato il fattore di innesco principale per l’estendersi del boicottaggio. Con la sua spietata distruzione delle infrastrutture palestinesi, la deliberata uccisione di civili, in modo particolare bambini, il muro di apartheid, le strade e le colonie per soli Ebrei, l’incessante confisca di terra e risorse idriche, e l’orrifica negazione di libertà di movimento per milioni di persone sotto occupazione, Israele ha mostrato alla comunità internazionale la sua totale mancanza di rispetto per il diritto internazionale e i fondamentali diritti umani.

Questa ultima dose di "caos costruttivo" in stile americano — ispirato da Israele — nei Territori Occupati palestinesi può avere effetti assai distruttivi sulle poliche USA e Israeliane nella regione. Con l’imminente dissipazione dell’illusione che una sovranità nazionale palestinese possa essere stabilita sotto l’egemonia coloniale di Israele, molti Palestinasi stanno ora seriamente mettendo in discussione la saggezza del mantra dei due stati, e considerando di riformulare i termini della propria causa come una causa di eguale umanità e piena emancipazione, all’interno della cornice di uno stato democratico ed unitario per Israeliani e Palestinesi nella Palestina storica. Dopo quasi tre decenni di "assopimento della coscienza" sull’idea che solo una soluzione a due stati possa soddisfare le esigenze dei Palestinesi, gli USA ed Israele stanno raccogliendo quello che hanno seminato: il collasso di ogni finzione di indipendenza ed integrità dell’AP — che finora è stata incaricata di sollevare Israele dal peso del suo ruolo coloniale contro gli abitanti della West Bank e di Gaza sotto occupazione — ed il montante scontento palestinese (se non ancora un’aperta rivolta) verso il gioco di un unilaterale compromesso palestinese verso le insaziabili richieste israeliane di ulteriori cedimenti che comportino perdite di terra, risorse, libertà e le prospettive sinistre, quanto reali, di un crollo della società.

La fine della soluzione a due stati non merita che vi si versino sopra troppe lacrime. Oltre ad aver passato la sua data di scadenza, essa non fu mai una soluzione morale, tanto per cominciare. Nel migliore dei casi, se la Risouzione ONU 242 fosse stata meticolosamente implementata, essa avrebbe dato risposta solo ai diritti legittimi di meno di un terzo del popolo palestinese su meno di un quinto della loro terra ancestrale. Più di due terzi dei Palestinesi, i rifugiati più i cittadini palestinesi di Israele, sono stati espunti in modo miope e maligno dalla definizione di Palestinesi.

E’ ora più chiaro che mai che la soluzione a due stati — oltre ad essere solo un travestimento per il protrarsi dell’occupazione israeliana ed un meccanismo per dividere permanentemente il popolo di Palestina in tre segmenti sconnessi — era inteso soprattutto ad indurre i Palestinesi a rinunciare al proprio inalienabile diritto al ritorno dei rifugiati nelle loro case e terre dalle quali furono cacciati nella pulizia etnica attuata dai sionisti durante la Nakba (catastrofe) del 1948.

La soluzione ad un unico stato viene percepita sempre di più dai Palestinesi e dalla gente di coscienza nel mondo come l’alternativa morale al dominio coloniale ed apartheid di Israele. Una tale soluzione, che promette una inequivoca uguaglianza nella cittadinanza, come nei diritti comuni e dell’individuo, sia ai Palestinesi (rifugiati inclusi) che agli Ebrei israeliani, è la più appropriata per riconciliare ciò che oggi appare come irreconciliabile: i diritti inalienabili, sanciti dalle Nazioni Unite, all’autodeterminazione del popolo indigeno di Palestina, al rimpatrio, e all’uguaglianza, in armonia col diritto internazionale e, d’altro canto, il diritto acquisito ed internazionalmente riconosciuto degli Ebrei Israeliani di vivere in Palestina — da eguali, e non da padroni coloniali. 

Omar Barghouti è un analista politico palestinese indipendente. 

Tradotto dall’inglese da Gianluca Bifolchi, un membro di  Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica. Questa traduzione è in Copyleft per ogni uso non-commerciale : è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l’integrità e di menzionarne l’autore e la fonte.

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