La pace in Medio Oriente, quale futuro possibile?

    LA PACE IN MEDIO ORIENTE, QUALE FUTURO POSSIBILE?

 

                  Il caso dei rapporti tra Libano, Palestina ed Israele.

  

 

   Un tragico destino lega indissolubilmente questi tre Stati, come la storia passata e recente sta a dimostrare con la sua lunga scia di sangue e di devastazioni.

   Tutto ciò trova motivazioni sia nell’indeterminatezza di alcune loro attribuzioni statuali, come pure è conseguente all’ingerenza nell’area di grossi interessi geopolitici ed economici.

   Mentre, infatti, il Libano, è uno Stato, di fatto e di diritto, riconosciuto internazionalmente come componente delle Nazioni Unite, l’altro, la Palestina, può partecipare ai lavori dell’Assemblea Generale solo in veste di osservatore, non essendo state ancora appagate le aspirazioni nazionali e territoriali del suo popolo con la proclamazione di uno Stato indipendente su quelli che sono, per l’ONU, i Territori Palestinesi Occupati ( OPT ) da Israele.

   Quest’ultimo, infine, non solo non ha mai rispettato le condizioni preposte alla sua accettazione come membro delle Nazioni Unite, la promulgazione cioè di una costituzione e l’applicazione della risoluzione relativa al diritto al ritorno dei profughi palestinesi espulsi durante la Nakba, ma non ha mai provveduto neppure alla definizione dei propri confini internazionali, lasciando agli eventi conflittuali la possibilità di una loro ridislocazione a discapito delle nazioni vicine.

   Israele, infatti, accampando sempre motivi di presunta sicurezza, ha impostato da tempo una strategia politica e militare mirante ad imporre al Libano una condizione di subordinazione, tramite il controllo diretto ed indiretto di parte del suo territorio e delle sue risorse, prevedendo, invece, per i Territori Occupati Palestinesi una loro graduale e totale annessione, vanificando così qualsiasi prospettiva che preveda la istituzione su di essi di un reale Stato palestinese indipendente.

   Nel 2002, al Congresso di Beirut, gli Stati Arabi si fecero ambasciatori di una proposta moderata che avrebbe potuto risolvere in modo definitivo qualsiasi causa di conflitto tra i paesi del Medio Oriente e Israele: essi offrirono il riconoscimento di Israele da parte di tutte le nazioni arabe e musulmane in cambio del ritiro dello Stato Ebraico entro i confini precedenti la guerra del ’67, con la restituzione di tutte le terre occupate, dal West Bank, alla Striscia di Gaza e a Gerusalemme Est, sulle quali si sarebbe costituito il nuovo Stato di Palestina, il ritorno delle alture del Golan alla Siria e della zona delle fattorie di Sheeba al Libano.

   Pace definitiva in cambio delle terre occupate, il riconoscimento reciproco immediato, furono le proposte di questo accordo, che pure trascurava il diritto al ritorno dei profughi palestinesi; ma esso venne ugualmente respinto da Israele.

   Evidentemente non accettò di dover rinunciare al vecchio e mai rimosso sogno di appropriarsi dei territori del sud del Libano dai quali provengono le risorse idriche delle quali abbisogna sempre di più, sottomettendo al controllo israeliano le acque dei fiumi Litani, Wazzani e Hasbani, come non recedette dall’occupazione delle alture del Golan siriano i cui corsi riforniscono di acqua il Giordano a nord del lago Tiberiade, mentre quelli che confluiscono nello Yarmouk, arricchiscono il Giordano a sud del mar di Galilea.

   E’ per questa guerra per l’acqua che Israele ha creduto di poter cogliere l’occasione dello scontro ad Aita ech Chaab per invadere il Libano. Non per nulla le sue truppe, con l’assenso internazionale, sono giunte fino al Litani prima di accettare il cessate il fuoco, mentre ora, sotto la supervisione dei soldati dell’UNIFIL2 ed il loro implicito silenzio-assenso, mezzi israeliani stanno provvedendo a canalizzare le acque della sorgente del Wazzani per portarle in Israele.

E’ sempre per questa guerra per l’acqua che Israele continua la sua occupazione del West Bank, l’ampliamento in estensione ed in numero delle colonie, la costruzione del muro e di tutte le varie barriere di profondità, accresce la rete delle by-pass road, strade ad uso esclusivo dei cittadini di Israele, coloni inclusi, interdette invece ai palestinesi, tanto da appropriarsi della maggior parte della falda idrica pedemontana proveniente dal massiccio centrale, che avrebbe nelle regioni attorno alle due città-prigione di Qalqiliya e di Tulkarem la maggiore ampiezza.

Il “ disimpegno “ dalla Striscia di Gaza, con il trasferimento dei coloni prevalentemente negli insediamenti della Cisgiordania, trova ragioni sufficienti nell’esaurimento della abbondante falda idrica costiera ad opera dell’eccessivo sfruttamento da parte dei coloni ebrei. Questo inaridimento avrebbe costretto lo Stato israeliano a forti investimenti per fornire gli insediamenti ebraici di acqua potabile in sostituzione di quella divenuta inutilizzabile per l’inquinamento con acqua salmastra di provenienza marina.

Se nei documenti ufficiali lo Stato ebraico si ostina a chiamare “ Samaria “ l’insieme dei distretti palestinesi a nord di Gerusalemme, mentre chiama “ Giudea “ quello dei governatorati a sud della città santa, è evidente che con tale atto toponomastico esso vuole rimarcare la propria sovranità su tutta la regione compresa tra il fiume Giordano e le rive del Mediterraneo orientale.

Dato che l’obiettivo da sempre dichiarato è quello di creare uno Stato a composizione quasi esclusivamente ebraica, dovendosi necessariamente scartare una possibile assimilazione della popolazione palestinese, specie di quella dei Territori Occupati la cui crescita demografica metterebbe a rischio gli esiti complessivi del progetto, il governo israeliano e vari partiti politici ebraico-ortodossi stanno mettendo in campo soluzioni che favoriscano l’esodo, la morte o l’asservimento della popolazione palestinese.

Il blocco dei finanziamenti, dei rifornimenti alimentari e di quelli sanitari, come pure la pratica continua di ogni forma di terrorismo di stato e, da ultimo, l’incentivazione di una guerra civile catastrofica, sono tutti atti di etnocidio della popolazione palestinese, per i quali va ricordato con forza che la responsabilità non ricade solo sul governo israeliano, ma si estende anche a tutti quei governi “ democratici “ che, come quelli dell’Unione Europea, applicano la corruzione nel ricatto come arma per imporre ai deboli, alle vittime, cioè agli occupati, proprie soluzioni politiche, estremamente miopi, che avvantaggiano esclusivamente l’occupante, senza essere in grado di offrire prospettive giuste e durature al concretizzarsi della pace nella regione.

Certo è che soluzioni quali il transfert della popolazione araba autoctona dalle terre di Palestina o la sua reclusione in bantustan asserviti e blindati, pur con la beffa dell’attribuzione ad essi dell’ingiurioso titolo di Stato palestinese, sarebbero solo l’atto finale di una vicenda storica della quale l’Europa tutta, e l’Italia in particolare, avrebbe molto da vergognarsene per i secoli futuri.

 

Non si può fare a meno di notare però che la recente guerra di aggressione israeliana in Libano, come pure la campagna “ pioggia estiva “ nella Striscia di Gaza e le continue azioni militari dell’esercito israeliano in tutti i Territori Occupati Palestinesi del West Bank sono avvenimenti che non possono essere letti  secondo codici interpretativi puramente regionali, in quanto  essi sono portatori di elementi che fanno parte anche di uno schema strategico molto più ampio, come schegge esplosive di quella guerra permanente e preventiva al “terrorismo” che sta incendiando ed insanguinando gran parte del Medio Oriente e dintorni, fino a coinvolgere l’intero mondo

 

Infatti, da molte parti si sostiene che le conseguenze prevedibili dello sconfinamento territoriale in Libano della pattuglia israeliana, che ha portato all’uccisione di 8 dei suoi componenti da parte delle milizie libanesi di Hezbollah, nei pressi di Aita ech Chaab, oltre alla cattura di due soldati, facciano parte di una strategia israelo-americana di  destabilizzazione dell’area, occasionalmente anticipata dalla controversa casualità dello scontro, il cui obiettivo comprendeva l’allargamento dello scenario bellico alla Siria ed all’Iran, fino a rendere  poi verosimile l’accerchiamento successivo della Cina.

I bombardamenti israeliani di villaggi e di città libanesi, durante l’operazione “una giusta ricompensa “, sono apparsi subito di una inusitata violenza, indiscriminati, disumani, ma giustificati dal governo israeliano con la necessità di distruggere il sostegno popolare libanese ai “ combattenti di Dio “. Così come, nella Striscia di Gaza in particolare, ed in tutto il West Bank, in generale, è stata praticata la strategia di una ritorsione preventiva e punitiva scellerata, messa in atto per isolare e distruggere le basi del sostegno popolare palestinese al movimento di Hamas.

Devastazioni ed omicidi sono stati compiuti in quanto vie obbligate per poter motivare, in modo ritenuto sufficientemente credibile, una successiva estensione del conflitto alla Siria e all’Iran, perché nazioni denunciate come sostenitrici e finanziatrici dei due movimenti, Hezbollah ed Hamas, dichiarati “ terroristici “, e ai quali erano state attribuite nefandezze di ogni tipo.

 

Anche se gli sviluppi della campagna militare in Libano non hanno dato, per il momento, gli esiti sperati dai promotori di questa guerra, l’interruzione delle tormentate operazioni di occupazione del territorio, resa provvidenzialmente possibile dalla dislocazione delle truppe internazionali dell’UNIFIL 2 a difesa della frontiera settentrionale di Israele, ha ridotto l’effetto deflagrante della  sconfitta dell’esercito israeliano, oltre ad agevolare la fase della riorganizzazione della sua strategia militare in vista della resa finale dei conti.

 

 L’imprevedibile resistenza di Hezbollah, offerta da truppe ben organizzate ed addestrate militarmente, ben armate e fortemente motivate, intimamente e saldamente radicate nel territorio dal quale provenivano e dove operavano, ha colto di sorpresa tutti, sia i politici che i militari israeliani. Gli effetti sono stati catastrofici. Per rimediare alle perdite di uomini e mezzi, per spezzare la fiducia che sempre più veniva saldando combattenti di Hezbollah ed ampi e variegati strati della società libanese, per cavalcare l’ondata di violenta critica  che stava diffondendosi in Israele, i comandi politici e militari hanno optato per applicare la linea intransigente dei bombardamenti devastanti. Tutto è stato distrutto in Libano: strutture ed infrastrutture civili e militari. La quasi totalità dei morti prodotti dai continui attacchi israeliani dal cielo, dal mare e da terra è data da civili assassinati mentre tentavano la fuga o mentre cercavano protezione e venivano travolti dalla rovina delle abitazioni.

Se però l’aggressione israeliana ha portato al Libano un’impensabile coesione tra la maggioranza delle forze politiche di tendenza nazionalista, anche se di diversa confessione religiosa, oltre a una decisa identificazione di gran parte della popolazione con le forze della resistenza sciita, è nel ventre molle dello schieramento arabo, cioè in Palestina, che l’aggressione israeliana ha prodotto e sta dando, invece, i risultati politicamente e socialmente più devastanti.

 

Tutti i Territori Palestinesi Occupati, infatti, ed in particolar modo la Striscia di Gaza, dall’inizio del 2006 stavano vivendo gli effetti di un boicottaggio meschino e disumano che andava a colpire una popolazione civile  impoverita, debilitata, umiliata, frustrata nelle sue aspirazioni individuali e collettive; boicottaggio pretestuosamente imposto per negare di fatto al popolo palestinese il suo diritto alla libera scelta politica ed amministrativa.

Ciò si doveva aggiungere all’incessante azione militare distruttiva svolta dall’esercito israeliano, ai suoi interventi terroristici di punizione collettiva, di eliminazione fisica indiscriminata di innocenti e alla sconvolgente sperimentazione sui corpi affamati ed impauriti di tanti esseri umani degli effetti atroci di nuove armi.

Ora poi, per concludere l’opera di disgregazione della società palestinese, per la complicità del ricatto internazionale si è arrivati ad imporre una guerra civile che completerà l’opera devastante già iniziata dai missili, dai proiettili sparati dagli elicotteri apache, dagli aerei supersonici , dai carri superblindati merkava, dalle navi e dalle migliaia di armi dei soldati dell’esercito “più morale” del mondo.

Per il popolo che lotta per la realizzazione dei propri diritti, il sangue palestinese versato a causa dello scontro fratricida tra al-Fatah e  Hamas è ben più doloroso di quello prodotto sui propri corpi dalle schegge degli obici israeliani!

 

E noi ne siamo responsabili, perché abbiamo giocato cinicamente con le loro ambizioni e coltivato i loro difetti, oltre a sostenere con il nostro silenzio complice l’azione irresponsabile del governo israeliano!

 

E’ per fermare questa strage  che alla “sinistra” si impone il dovere morale di intervenire.

La nostra posizione non può essere di “equivicinanza”, perché essa esprime in realtà la possibilità di fare solo ciò che ci è permesso e dove ci è concesso. Essa rappresenta emblematicamente la nostra impotenza di fronte all’arroganza di chi ci blandisce, ci usa, ma ci disprezza.

La pace si realizza con la difesa del Diritto e dei diritti di tutte le parti coinvolte, rifiutando, con chiarezza e decisione, qualsiasi tipo di rapporto con chi tutto ciò calpesta caparbiamente ogni giorno;  senza penalizzare invece chi da queste violenze si dissocia.

Un’autonoma presa di coscienza ci potrebbe impedire, inoltre, di venire direttamente coinvolti nel prossimo futuro, anche nostro malgrado, in quella guerra immane dei “buoni” contro i “cattivi”, che, apparentemente rimossa, non è  stata ancora  esorcizzata definitivamente.

 

 

 

                                                        mariano mingarelli

 

 13 ottobre 2006

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