La Palestina è stata distrutta in 12 mesi, ma la Nakba continua ininterrotta da 75 anni

La Palestina è stata distrutta in 12 mesi, ma la Nakba continua ininterrotta da 75 anni

MEE. Di Ilan Pappe. La Nakba ha distrutto le vite e le aspirazioni del popolo palestinese. Solo un processo approfondito di giustizia riparatoria, con l’aiuto della comunità internazionale, può cominciare a porre rimedio ai torti subiti.

All’inizio del febbraio 1947, il gabinetto britannico decise di porre fine al mandato sulla Palestina e di lasciare il Paese dopo quasi 30 anni di governo.

La crisi economica che aveva colpito la Gran Bretagna dopo la Seconda guerra mondiale aveva portato al potere un governo laburista, intenzionato a ridurre l’impero e a soddisfare i bisogni della popolazione delle isole britanniche. La Palestina si rivelò un peso e non più una risorsa, poiché sia i nativi palestinesi che i coloni sionisti stavano ora combattendo contro il mandato britannico e ne chiedevano la fine.

La decisione fu presa durante una riunione di gabinetto del 1° febbraio 1947 e il destino della Palestina fu affidato all’ONU – un’organizzazione internazionale allora inesperta, già compromessa dagli inizi della guerra fredda tra USA e URSS.

In via eccezionale, tuttavia, le due superpotenze permisero agli altri Stati membri di offrire una soluzione a quella che fu chiamata “la questione palestinese”, senza interferire.

La discussione sul futuro della Palestina fu trasferita al Comitato speciale delle Nazioni Unite per la Palestina (Unscop), costituito dagli Stati membri. Ciò fece infuriare i palestinesi e gli Stati membri della Lega Araba che si aspettavano che la Palestina post-mandato venisse trattata come qualsiasi altro Stato della regione, ossia permettendo alla popolazione stessa di auto-determinare in modo democratico il proprio futuro politico.

Nessuno nel mondo arabo avrebbe mai accettato che in Nord Africa fossero i coloni europei a partecipare alla determinazione del futuro dei nuovi Paesi indipendenti. Allo stesso modo, i palestinesi rifiutarono l’idea che il movimento sionista dei coloni – composto per lo più da coloni arrivati solo due anni prima della nomina dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati in Palestina (UNRWA) nel 1949 – potesse avere voce in capitolo sul futuro della loro patria.

I palestinesi boicottarono l’Unscop e, come temevano, la commissione propose di creare uno Stato ebraico su quasi metà della loro patria, come parte della risoluzione 181 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, approvata il 29 novembre 1947.

La leadership sionista accettò la spartizione della Palestina (accogliendo il principio di uno Stato ebraico), ma non aveva intenzione di aderirvi nella pratica, visto che metà della popolazione sarebbe stata comunque palestinese e lo spazio assegnato era solo la metà del Paese ambito dal movimento sionista.

Progetto di pulizia etnica.

E’ da oltre 30 anni che gli storici hanno portato alla luce sufficiente materiale d’archivio declassificato, principalmente da Israele, per esporre la strategia sionista dal novembre 1947 alla fine del 1948. Nel mio lavoro ho definito la strategia sionista dell’epoca un piano generale per la pulizia etnica della Palestina.

Il trascorrere del tempo, l’esposizione di altro materiale e i progetti palestinesi di storia orale, sempre più numerosi e fondamentali, non hanno fatto altro che accentuare l’adeguatezza dell’applicazione di questo termine agli eventi che i palestinesi chiamano Nakba.

Negli ultimi anni, una vecchia definizione del sionismo come movimento coloniale dei coloni è stata ripresa dagli studiosi che si occupano di storia della Palestina. Questo spiegherebbe chiaramente perché la leadership sionista non avrebbe mai potuto accettare una Palestina divisa.

Come ogni altro movimento coloniale, si trattava di un movimento di europei che erano emarginati in quel continente e dovevano crearsi una nuova vita altrove, di solito in luoghi già abitati da altre persone.

La necessità di eliminare le popolazioni indigene divenne il tratto distintivo di tali movimenti, portando ad esempio al genocidio dei nativi americani in Nord America.

Ottenere la maggior parte delle nuove terre con il minor numero possibile di nativi era già un tema centrale dell’ideologia e del movimento sionista, fin dalla sua nascita. Il dominio britannico impedì qualsiasi acquisizione significativa di terre (meno del sei per cento delle terre della Palestina erano di proprietà sionista nel 1948). Ma sulle terre acquisite dai sionisti, principalmente attraverso acquisti dall’élite palestinese e da proprietari terrieri assenti che vivevano fuori dalla Palestina, i contadini locali furono sottoposti a pulizia etnica con l’approvazione delle autorità britanniche.

La leadership sionista iniziò a pianificare la pulizia etnica della Palestina nel febbraio 1947 e le prime operazioni si svolsero già un anno dopo sotto gli occhi delle autorità britanniche.

La leadership sionista aveva bisogno di affrettare le operazioni di pulizia etnica contro i palestinesi nel febbraio 1948, iniziando con lo sgombero forzato di tre villaggi situati sulla costa, tra Jaffa e Haifa. Gli Stati Uniti e altri membri delle Nazioni Unite avevano già iniziato a dubitare della saggezza di un piano di spartizione e cercavano soluzioni alternative. Il Dipartimento di Stato americano propose un’amministrazione fiduciaria internazionale sulla Palestina della durata di cinque anni, al fine di concedere ulteriore tempo per nuovi negoziati.

La situazione sul campo.

La prima cosa che la leadership sionista fece fu quindi quella di decidere la situazione sul campo, anche prima della fine ufficiale del mandato (prevista per il 15 maggio 1948). Ciò significava eliminare i palestinesi dalle aree assegnate dall’ONU allo Stato ebraico e conquistare il maggior numero possibile di città della Palestina.

I palestinesi non erano all’altezza dei gruppi paramilitari sionisti. Arrivarono alcuni volontari arabi, ma poterono fare ben poco per difendere i palestinesi dalla pulizia etnica. Il mondo arabo attese fino al 15 maggio prima di inviare truppe in Palestina.

Il fatto che i palestinesi fossero del tutto indifesi tra il 29 novembre 1947 (quando fu adottata la risoluzione di spartizione delle Nazioni Unite) e il 15 maggio 1948 (giorno in cui terminò il mandato e arrivarono le unità degli Stati arabi confinanti per cercare di salvare i palestinesi) non è un mero fatto cronologico. Sfata categoricamente la principale affermazione della propaganda israeliana sulla guerra: i palestinesi sono diventati rifugiati perché il mondo arabo ha invaso la Palestina e ha detto loro di andarsene; un mito che troppe persone in tutto il mondo accettano ancora oggi.

Secondo questa narrazione, se il mondo arabo si fosse astenuto dall’attaccare Israele, i palestinesi avrebbero potuto sfuggire al destino di rifugiati ed esuli.

Quasi un quarto di milione di palestinesi erano già rifugiati prima del 15 maggio 1948 e un mondo arabo riluttante inviò i suoi eserciti per cercare di salvare almeno gli altri.

Quasi tutti i palestinesi che vivevano ad Haifa e Giaffa furono scacciati con la forza dalle loro case e le città di Bisan, Safad e Acri furono completamente spopolate. I villaggi circostanti subirono un destino simile. Nell’area che sorge intorno alle pendici occidentali delle montagne di Gerusalemme, decine di villaggi furono sottoposti a pulizia etnica e a volte, come accadde a Deir Yassin il 9 aprile 1948, le espulsioni furono accompagnate da massacri.

Le peggiori atrocità di Israele.

L’ingresso degli eserciti arabi – Egitto, Siria, Giordania e Libano – nel maggio 1948 rappresentò una seria sfida per il nuovo Stato di Israele. Ma a quel punto la capacità militare della comunità ebraica era aumentata notevolmente (con l’aiuto di armi provenienti dal blocco orientale acquistate, con l’approvazione sovietica, dalla Cecoslovacchia, che possedeva un gran numero di armi in eccedenza della Seconda Guerra Mondiale, lasciate dagli eserciti tedesco e russo. All’epoca, Gran Bretagna e Francia avevano posto l’embargo sulle forniture di armi a tutte le parti interessate nel conflitto).

Di conseguenza, le forze israeliane furono in grado di portare avanti le missioni su due fronti: in primo luogo, contro gli eserciti arabi; in secondo luogo, continuando le operazioni di pulizia etnica, prendendo di mira soprattutto le aree concesse dalla risoluzione di spartizione delle Nazioni Unite allo Stato arabo.

L’operazione in Alta Galilea, in particolare, registrò alcune delle peggiori atrocità commesse dall’esercito israeliano durante la Nakba: in parte a causa dell’agguerrita resistenza di persone che già conoscevano il destino che li attendeva sotto l’occupazione israeliana; in parte a causa della stanchezza delle forze di occupazione, che abbandonarono qualsiasi inibizione nel modo in cui trattavano la popolazione civile.

Nel massacro di al-Dawayima, vicino a Hebron, il 29 ottobre 1948, si stima che 455 palestinesi, metà dei quali donne e bambini, siano stati giustiziati dai soldati israeliani.

Due aree della Palestina storica sfuggirono al destino di pulizia etnica. L’area che divenne nota come Cisgiordania fu conquistata quasi senza combattere dalle forze giordane e irachene. Si trattava in parte di un tacito accordo tra Israele e Giordania, secondo il quale, in cambio di questa annessione, la Giordania avrebbe svolto un ruolo militare minimo nello sforzo generale degli arabi per salvare la Palestina.

Tuttavia, sotto le pressioni israeliane che seguirono la fine della guerra, la Giordania concesse, durante i negoziati per l’armistizio, parte di quella che avrebbe dovuto essere la sua Cisgiordania. Quest’area si chiama Wadi Ara e collega il Mediterraneo al distretto di Jenin.

Questa annessione poneva un problema a uno Stato coloniale come Israele. Avere più territorio significava anche avere più palestinesi nello Stato ebraico. Così, vennero effettuate piccole operazioni di pulizia etnica, per ridurre il numero di palestinesi che vivevano a Wadi Ara.

Questa connessione tra geografia e demografia portò il primo primo ministro di Israele, David Ben-Gurion, a rifiutare le pressioni dei suoi generali per occupare la Cisgiordania (questi generali sarebbero diventati i politici che spingevano per l’acquisizione della Cisgiordania nella guerra del 1967, per compensare l'”errore” di non averla occupata nel 1948).

La Nakba attuale.

Israele lasciò tranquilla anche un’altra zona, che divenne nota come Striscia di Gaza. Si tratta di un rettangolo artificiale di terra che Israele ha creato come enorme ricettacolo per le centinaia di migliaia di profughi che ha ripulito dalla parte meridionale della Palestina e ha permesso all’Egitto di mantenerla come area occupata militarmente.

Sulle rovine dei villaggi palestinesi, Israele ha costruito insediamenti (spesso utilizzando una versione ebraica del nome arabo – così Saffuriya è diventata Tzipori e Lubya è diventata Lavi) o ha creato dei parchi, cercando di cancellare ogni traccia della cultura, della vita e della società che ha distrutto nel 1948, in soli nove mesi.

Metà della popolazione palestinese divenne rifugiata, centinaia di villaggi furono demoliti e le città de-arabizzate dalle forze di occupazione.

La Nakba ha distrutto un Paese, ma anche le vite e le aspirazioni del suo popolo. L’enorme capitale umano che la società palestinese aveva sviluppato è stato investito, attraverso i rifugiati, in altri Paesi arabi, contribuendo al loro sviluppo culturale, educativo ed economico.

Il messaggio del mondo a Israele era che la pulizia etnica della Palestina, ben nota in Occidente, era accettabile – soprattutto come compensazione per l’Olocausto e i secoli di antisemitismo che avevano afflitto l’Europa.

Pertanto, Israele ha continuato la sua pulizia etnica anche dopo il 1967, quando un ulteriore spazio occupato ha portato più persone “indesiderate”. Questa volta la pulizia etnica è stata incrementale e continua fino ad oggi.

Tuttavia, i palestinesi sono ancora lì, dimostrando un’incredibile resilienza e resistenza – accanto alla Nakba attuale, vi è un’intifada in corso e, finché Israele non renderà conto di ciò che ha fatto e sta facendo, la colonizzazione continuerà, così come la lotta anti-colonialista contro di essa.

L’unico modo possibile per rimediare ai mali del passato è il rispetto del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi e la creazione di un unico Stato in tutta la Palestina storica, basato sui principi di democrazia, uguaglianza e giustizia sociale.

Questo deve essere costruito attraverso un processo di giustizia riparatoria che compensi il popolo per la perdita della terra, delle opportunità di lavoro e della vita da parte del nuovo Stato e con l’aiuto della comunità internazionale.

Traduzione per InfoPal di Aisha T. Bravi

(Foto: https://www.middleeasteye.net/news/nakba-images-show-palestine-then-and-now).