Di Mariagrazia Nemour.
La palestinese che non sono.
“Alla ricerca di Fatima” di Ghada Karmi”.
Quattrocento pagine attraversano la vita di una donna, girando intorno a una voragine che è sempre sul punto di inghiottire tutto: la perdita della propria identità.
Ghada nasce negli anni quaranta in un’accogliente villetta di Gerusalemme, un grande patio, fiori, alti finestroni. Il padre ha un buon impiego, Fatima – la governante – la riempie di dolcezze e Rex scodinzola in giardino, adora le coccole, lui.
Ma poi il ’49 si abbatte sulle loro vite come un macete e da un giorno all’altro i genitori caricano i tre figli e poche valigie su un taxi, la violenza ha impregnato così fortemente la città che partire è diventata l’unica alternativa alla morte. I terroristi sfidano l’ordine costituito con continui attentati, dicono gli inglesi di guardia a Gerusalemme, riferendosi ai sionisti, già, perché è proprio con riferimento agli ebrei estremisti che il termine terrorista fa il suo ingresso in Palestina, in quegli anni. “Torneremo presto”, continua a ripetere il padre di Ghada mentre chiude la casa. Dal finestrino del taxi la bambina saluta con la mano Fatima e Rex. Ancora non lo sa, ma tutta la sua Palestina rimarrà intrappolata in quel momento, in quei quattro occhi che la fissano mentre si allontana da un luogo della sua anima a cui non potrà più fare ritorno.
La famiglia di Ghada si trasferisce prima a Damasco e poi a Londra, ed è proprio in questa città che Ghada diventa a tutti gli effetti inglese: frequenta scuole inglesi, fa amicizia con bambine inglesi, indossa abiti inglesi, beve il tè nel pomeriggio, come tutti gli inglesi. Ma la Palestina la aspetta a casa: ogni volta che apre la porta rientra nel mondo arabo che la madre custodisce gelosamente. Una casa che per quarant’anni la madre continuerà a considerare una sistemazione provvisoria, in attesa del ritorno in Palestina. Fuori da quella porta Ghada diventa una giovane donna occidentale che si trucca, si scatena sulle note di Beatles, amoreggia con un ragazzo inglese con tanto di tenuta nella brughiera, una donna che si laurea in medicina, proprio come voleva il padre.
Ma l’idea del “ritorno” è più forte di ogni novità, aleggia costantemente sulle loro vite londinesi, un ritorno a un passato che Ghada ricorda sempre meno e a una cultura che ha rifiutato. Ghada si sposa, per evitare quel ritorno, sfidando nel profondo la sua famiglia. Ma l’accurata facciata di anglicizzazione a cui Ghada lavora dai tempi della scuola inizia a sgretolarsi con la crisi di Suez del ’56, e ancora di più con l’attacco israeliano del ’67, la Guerra dei sei giorni. Scopre che l’amato fair play inglese cede il passo alla pusillanimità coloniale, quando si parla di interessi britannici in Medio Oriente; scopre che l’ebraismo con cui ha imparato a convivere è sempre più fittamente intessuto di sionismo; scopre che il male subito dalla sua famiglia in Palestina non interessa a nessuno dei suoi compassati amici inglesi. Ghada è tollerata, addirittura amata, se fa l’anglosassone, ma non è ben accetta se si mostra araba. Ghada si spezza: non è una vera inglese ma non è più neanche araba. La sincerità di ogni pagina è spiazzante, le critiche più aspre sono sempre per se stessa, per il suo vivere in equilibrio tra due culture così diverse.
Ma neanche il divorzio e il suo nuovo sodalizio con l’attivismo palestinese riescono a ricostruire le radici che continua a cercare in se stessa. Organizza manifestazioni per i diritti umani, incontra Arafat, visita i campi profughi, ma per il mondo arabo continua a essere un’occidentalizzata, una donna con cui si può andare a letto, certo, ma che non si può sposare.
Infine tenta il ritorno di cui i suoi genitori hanno parlato giornalmente per una vita intera, senza trovare mai il coraggio di affrontarlo. Un ritorno doloroso in un posto che non c’è. Ghada sbarca a Tel Aviv con il suo onorevole passaporto inglese e vaga per i vicoli di Gerusalemme in cerca della bambina spensierata che li percorreva correndo. Troverà solo i muri della vecchia villetta che da cinquant’anni è diventata la casa di una famiglia ebrea. Ferma e sola davanti al cancello, deve riconoscere che il patio non era così ampio come lo ricordava, le finestre non erano poi così alte. Nessuna traccia di Fatima e di Rex, l’aria dolce della sua amata Palestina si è rarefatta. Tutto d’un tratto le braccia le cascano lungo il corpo, e capisce: la Palestina per lei non è più un luogo, è un’idea che si porta dentro, un’idea – e questo sì che la terrorizza – destinata a morire con lei. Un’idea da salvare in un libro, forse.