La politicizzazione della sofferenza.

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sofferenza-di.html

La Striscia di Gaza e un milione e mezzo di Palestinesi che la
abitano sono da mesi sottoposti ad un durissimo e inaudito assedio,
privati di elettricità e di combustibile, in preda a una gravissima
crisi alimentare, sanitaria e occupazionale.
A Gaza nessuno entra o esce, persino agli studenti è vietato di
andare all’estero per seguire corsi universitari o master e, più di
tutto, agli ammalati è vietato recarsi in Israele o all’estero per
ricevere quelle cure a loro indispensabili ma che non sono
disponibili nella Striscia: 70 sono i pazienti palestinesi di Gaza
morti a causa del criminale assedio israeliano.
A Gaza, soprattutto, è in atto un massacro senza precedenti: 20 morti
e 71 feriti nella settimana compresa tra il 3 e il 9 gennaio (tra
essi 5 membri di una stessa famiglia uccisi da una cannonata), 22
morti in sole 24 ore tra il 15 e il 16 gennaio.
Tra questi ultimi, tre membri della famiglia al-Yazji (tra essi, un
bambino di 5 anni), morti carbonizzati nella loro auto colpita per
un "deplorevole errore" nel corso di una esecuzione "mirata" dei
macellai israeliani della Iaf.
Eppure, di tutto questo, non v’è traccia nel dibattito politico, e i
media soltanto distrattamente o in maniera distorta danno conto di
quanto accade a Gaza e dei sanguinosi crimini di guerra commessi
quotidianamente da Tsahal: la guerra ai "terroristi" di Hamas val
bene la sofferenza di un milione e mezzo di innocenti il cui unico
torto è stato quello di nascere e vivere nella Striscia di Gaza.
In questo quadro, vorrei riportare il bellissimo articolo del
giornalista palestinese Ramzi Baroud, pubblicato l’8 gennaio di
quest’anno sul Middle East Times, nella traduzione offerta dal sito
Arabnews.

La politicizzazione della sofferenza di Gaza.
L’intenso dibattito su Gaza si sta placando visto che lo status quo,
prevedibilmente, verrà delineato dalla legge del più forte. Ma fino a
che punto la sofferenza umana può essere politicizzata, e trasformata
in una polemica puramente intellettuale insufficiente a determinare
il più piccolo cambiamento nella vita della gente?

L’avvento politico di Hamas nel gennaio del 2006, in qualità di primo
movimento di "opposizione" all’interno del mondo arabo ad ascendere
al potere con mezzi pacifici e democratici, fu ostacolato con
successo, grazie ad un colpo da maestro concordemente orchestrato
dagli Stati Uniti, da Israele, e da "apostati" delle fazioni
palestinesi. Successivamente, la storia – come al solito – fu
riscritta dal vincitore. Dunque Hamas, un partito che rappresentava
le istituzioni democratiche nei territori occupati, divenne il
partito che "rovesciò" la democrazia "legittima" di Mahmoud Abbas.
Pur trattandosi di un concetto assolutamente bizzarro – un governo
che rovescia se stesso – esso entrò negli annali dei media
occidentali come una incontestabile verità.

Ci si attendeva che tutte le parti, direttamente o indirettamente
coinvolte, avrebbero determinato la propria posizione a partire da
questa falsa affermazione, ed è ciò che esse effettivamente fecero al
fine di salvaguardare i propri interessi. Alcuni non si fecero
problemi a disconoscere del tutto la democrazia palestinese. Il
governo americano, Israele, l’Unione Europea, e diversi governi arabi
non democratici furono assai contenti del risultato dello scontro
interno palestinese. Essi celebrarono Mahmoud Abbbas e la sua fazione
come i reali e legittimi democratici, criticando aspramente coloro
che dissentivano. Paesi come la Russia, il Sudafrica, ed alcuni paesi
arabi del Golfo, si adeguarono, con qualche esitazione e con qualche
malumore, espressi troppo debolmente per opporsi in maniera
significativa allo status quo.

Sul fronte palestinese le scelte furono più difficili, nondimeno
coloro che in precedenza non si erano schierati né con Fatah né con
Hamas si misero rapidamente dalla parte che meglio serviva i loro
interessi. Rinomati esponenti della sinistra, ad esempio, che
normalmente si proponevano come rappresentanti della voce della
ragione, in questo caso non potevano permettersi di perdere quelle
poche ed inefficaci ONG che essi gestiscono secondo uno stile
da "drogheria" (il nome che molti palestinesi utilizzano per
prendersi gioco delle numerose ONG presenti in Palestina).
La paura di perdere la libertà di muoversi e di accedere alle
istituzioni finanziarie europee ed americane spinse molti palestinesi
a ripudiare Gaza completamente. La compassione che milioni di persone
in tutto il mondo avevano dimostrato nei confronti delle continue
sofferenze degli abitanti di Gaza si trasferì in gran parte nel regno
dell’indefinibile. La debolezza prevalse e rapidamente si aggiunse al
prevalente senso di impotenza e di incapacità da lungo tempo
associati alla Palestina in generale ed a Gaza in particolare.

Per distogliere l’attenzione da questa questione, Mahmoud Abbas ed il
primo ministro israeliano Ehud Olmert vennero in tutta fretta
convocati ad Annapolis per mettere in piedi una messinscena mediatica
di cui vi era urgente bisogno. Lodati dall’auto-proclamato campione
della democrazia, il presidente americano George W. Bush, i due
leader sono nuovamente alla ricerca della pace. Lo spettacolo di
second’ordine organizzato dagli Stati Uniti ha raggiunto il suo
scopo. Date come quella del gennaio 2006 sono ormai completamente
dimenticate; nuovi appuntamenti, nuove manifestazioni di retorica e
nuove promesse stanno prendendo il posto delle vecchie; tutti gli
occhi sono ora puntati su Abbas e Olmert, su Ramallah e Tel Aviv,
accompagnati dalla richiesta di future conferenze e di dolorosi
compromessi. E Gaza sta diventando una dimenticata ed irrilevante
nota a piè di pagina.

La Striscia di Gaza vive sotto un assedio senza precedenti, con la
gente che muore per l’assenza di supporto medico. Israele ha tagliato
le forniture di combustibile diesel a 60.000 litri, quando sarebbero
necessari 350.000 litri al giorno. Come può funzionare un’economia
già di per sé sottosviluppata con un così scarso rifornimento di
energia, per non parlare degli ospedali e delle scuole? Anche
l’elettricità è stata drasticamente tagliata, conformemente alle
raccomandazioni della Corte Suprema di Israele, e la disoccupazione è
ai massimi livelli di sempre (oltre il 75 %). Un milione e mezzo di
abitanti è letteralmente intrappolato in uno spazio di appena 365 Km
quadrati, senza neanche la possibilità per respirare, con poco cibo,
con poca energia, e quel che è peggio è che, più o meno, viene detto
loro che meritano il loro destino.

Se del tutto i media nominano Gaza, lo fanno in un contesto
politicizzato. Ad esempio: "Tre militanti uccisi dai missili
israeliani"; "L’esercito israeliano afferma che i militanti stavano
per lanciare razzi contro Israele"; "I leader di Hamas perseverano
nel loro atteggiamento di sfida", e così via. Gran parte della
copertura mediatica è concentrata esclusivamente ad ingigantire i
peccati di Hamas, per cui ogni singolo comportamento, buono o
cattivo, viene riportato in maniera del tutto deformata. L’assunto
fondamentale è che qualsiasi sofferenza gli abitanti di Ga
za siano
costretti a sopportare, essa è causata dalla minaccia di Hamas e
delle sue "forze oscure". Il fatto che in molti casi le violazioni
dei diritti umani da parte di Hamas possano essere legate allo stato
di assedio, di morte, e di caos creato dalle molte circostanze che lo
hanno preceduto, rimane una questione del tutto irrilevante.
Gaza è diventato il principio guida di cui c’era bisogno per
ricordare ai palestinesi, e ad altri, ciò che non debbono avere
l’ardire di compiere se vogliono che venga loro risparmiato lo stesso
destino. Ai palestinesi della Cisgiordania viene richiesto di
offrire, in contrasto con le immagini dei barbuti ed arrabbiati
poliziotti di Hamas che se la prendono con i manifestanti, quella del
rispettabile e benvestito Abbas che presenzia conferenze
internazionali brulicanti di facce nutrite e ben pasciute.

Le vere ragioni che stanno dietro le sofferenze di Gaza sono
completamente omesse, con l’eccezione di pochi giornali arabi
progressisti come questo. Attualmente il dibattito viene allontanato
dall’attenzione immediata dei media per rimanere circoscritto alle
conferenze accademiche, ai libri, ed alle opere di saggistica.

Con ciò non si vuole negare il riconoscimento a coloro che hanno
avuto il coraggio di adottare la giusta posizione nei confronti dei
drammatici eventi che si stanno succedendo a Gaza. Molti dispongono
di sufficiente umanità per distinguere le politiche che hanno portato
al completo isolamento di Gaza dal fatto che la gente comune, con i
suoi sentimenti, le sue speranze, e le sue aspirazioni, sta
sopportando privazioni, soffrendo, e morendo inutilmente sotto i
nostri occhi. Il campo israeliano è implacabile nel giustificare la
brutalità inflitta da Israele ai palestinesi usando i soliti triti
argomenti, come la sicurezza di Israele ed il suo diritto ad
esistere, ed accusando i suoi detrattori di antisemitismo ad ogni piè
sospinto. Ma quale giustificazione ci può essere per coloro che sono
turbati dalla sofferenza umana, e tuttavia perdono di vista la
miseria in cui versa Gaza? Io non riesco a trovare alcuna
giustificazione per l’apatia di fronte ad un bambino che muore, sia
esso bianco, nero, arabo, ebreo, o qualsiasi altra cosa.

Non lasciamo che la disumanità divenga la norma accettata. Se
permettiamo che trionfi a Gaza, allora lasceremo che possa ripetersi
ovunque.

Ramzy Baroud è un giornalista arabo-americano; è caporedattore del
Palestine Chronicle, ed è autore del libro: "The Second Palestinian
Intifada: A Chronicle of a People’s Struggle (Pluto Press, Londra)

Titolo originale: Politicizing Gaza misery (Middle East Times,
8.1.2008)

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