La Primavera Araba è morta: l’Egitto ha fallito la rivoluzione

egypt-revolution-failed-arab-spring.siRT. La Primavera Araba è morta: l’Egitto ha fallito la rivoluzione

Il 6 ottobre 2013, al Cairo, nel 40esimo anniversario della guerra arabo-israeliana, tutto quello che poteva andare storto è andato storto. È stato un po’ come quel grande racconto dello scrittore colombiano Gabriel García Marquez, “Cronaca di una morte annunciata”. Tutti sapevano che ci sarebbero stati degli assassinii, brutali e a sangue freddo, e per giorni e settimane c’era stato uno schietto dibattito sull’inevitabilità di tutto ciò. Ma niente è stato fatto per prevenirli, nessuno è davvero intervenuto.

In quella infelice domenica mattina, un flusso costante di auto portava via dalla capitale, verso la campagna, milioni degli abitanti della città. C’era minaccia di bombardamenti in Nile Street, intorno all’Hotel Sheraton ormai chiuso, dove solo due giorni prima erano morte almeno quattro persone. C’erano voci, urla costanti, flussi divergenti di informazioni. Nelle arterie principali, nelle piazze e sui ponti, avevano preso posizione i veicoli armati appartenenti alle forze di polizia, innumerevoli carri armati e decine di migliaia di soldati e agenti antisommossa. C’erano isteria totale, paura e caos. Un’infusione velenosa di gas lacrimogeni sul posto si aggiungeva ai problemi di inquinamento del Cairo.

“Indietro!”.  I soldati alla guardia di un angolo della strada che porta allo Sheraton avevano urlato al mio autista. “Imbecille, non sai che c’è una bomba che sta per esplodere, qui vicino? Potrebbe saltare in qualsiasi momento!”

“Vai avanti!”, gli ho intimato, ma lui tremava e si rifiutava. Sua moglie lo aveva chiamato sul cellulare, implorandolo di lasciarmi in mezzo alla strada e correre immediatamente a casa. Era nel panico, ha cominciato a piangere. Poi ha fatto retromarcia, quasi colpendo un’ambulanza e riuscendo a creare un piccolo ingorgo, e alla fine ha guidato l’auto all’interno di una galleria.

“Odiano gli stranieri”

Il ponte era pieno di forze armate. Alla nostra destra, direttamente dall’altra parte del fiume Nilo, era apparso l’imponente e ormai incendiato edificio della vecchia compagnia Mubarak. Poi era emerso il Museo Nazionale, tutto a un tratto così pateticamente piccolo in confronto a tutto quello scompiglio contemporaneo lì intorno. E improvvisamente era lì, proprio sotto di me, il vecchio, usurato simbolo della Rivoluzione del 2011: Piazza Tahrir, e le strade che conducono là da tutte le direzioni.

I sostenitori del capo dell’esercito egiziano, il generale Abdel Fattah al Sisi, e della sua coorte, rumorosi e acclamanti, stavano bloccando quasi tutte le strade. Portavano con loro dei ritratti di Sisi, e quelli di molti altri “leader” del colpo di stato, come se fossero stati delle icone religiose. Poi, in quel momento, entrambe le fazioni hanno agitato enormi bandiere egiziane, gridando slogan patriottici. C’erano carri armati, e una folla di personale della sicurezza controllva le persone che cercavano di entrare nella piazza.

Ho lasciato l’auto e ho iniziato a filmare; ma, immediatamente, un gruppo di passanti ha cominciato a bloccare il filmato e le lenti della telecamera. “No!”, urlavano spintonandomi.

“No!”, mi avevano gridato gli abitanti degli slum, tentando persino di colpirmi, mentre quello stesso giorno stavo tentando di lavorare in due quartieri miserabili. “No!”, mentre filmavo i canali di Giza intasati di spazzatura, o la tramvia sudicia e trasandata di Heliopolis. L’aggressione di quei “no!” era stata così estrema, così violenta, da eccedere persino la violenza verbale in certe zone di guerra come Kivu est, nella Repubblica Democratica del Congo.

“Odiano gli stranieri”, mi aveva detto solo due giorni prima un mio amico, un direttore (che non vuole essere identificato) di un’importante catena di hotel. “Tutti sono alla ricerca di spie. Adesso sono tutti fissati nel sospettare l’uno dell’altro. I Fratelli Musulmani pensano che i militari li stiano spiando. E se hai una barba, anche una corta come la tua, i militari e i loro sostenitori pensano che tu appartenga ai Fratelli Musulmani. E ovviamente adesso tutti odiano gli stranieri. È per questo che ora non vedi mai dei giornalisti dall’aspetto straniero per le strade.

Ero consapevole della situazione. Due giorni prima, mi ero trovato in mezzo al fuoco incrociato tra i sostenitori di Sisi e gli ufficiali veterani dei Fratelli Musulmani. Credo che mi abbiano gettato pietre da entrambe le fazioni.

“Miseria ovunque”

Continuavo a lavorare, e quello che vedevo dall’alto e a livello della strada non appariva incoraggiante.

Difficilmente il cameratismo dei militari e dei loro sostenitori avrebbe potuto mantenere le sembianze di una coesistenza amichevole e confortevole. Tutto dell’Egitto sembrava completamente sull’orlo dell’abisso, nervoso, in guerra con se stesso. Camion armati della polizia si addentravano in mezzo alla folla dei sostenitori, le ambulanze ululavano: i carri armati tenevano la posizione e puntavano sui civili. Le auto strombazzavano, i bambini sventolavano bandiere, la folla spingeva e veniva sospinta verso piazza Tahrir, e poi lontano da lì.

Erano circa le 15; e tutti sapevano, anzi, non avevano dubbi, che esattamente alle 15.30, dopo le preghiere, i membri dei Fratelli Musulmani avrebbero lasciato le loro moschee e sarebbero andati direttamente al confronto con la folla dei sostenitori di Sisi e con le forze di sicurezza.

Il popolo della Fratellanza ha una visione estremamente chiara della situazione, una visione alquanto ostinata: il loro presidente democraticamente eletto, Mohammed Morsi, era stato deposto con la forza dai militari nel colpo di stato del luglio 2013, e subito dopo migliaia di persone erano state assassinate, erano scomparse, o imprigionate. In agosto, mentre i militari “sgomberavano” gli accampamenti pieni di manifestanti, numerosi cittadini erano morti.

Alcune figure di spicco dell’Organizzazione Socialista Rivoluzionaria, uno dei due soli movimenti che ancora combattono per la giustizia sociale e gli ideali della rivoluzione del 2011 (l’altro, il più grande, è il “Movimento del 6 aprile”, consistente principalmente di professionisti egiziani e di persone della classe media), mi avevano spiegato che “Morsi e la sua Fratellanza Musulmana sono stati eletti democraticamente, ma hanno tradito la rivoluzione. E il popolo si è stancato presto di loro. Quando i militari hanno rovesciato il governo nel luglio 2013, molti cittadini comuni hanno sostenuto il colpo di stato. Ma i militari hanno provato di essere addirittura peggiori; ed è stato chiaro che stavano tentando di restaurare il vecchio regime di Mubarak e di bloccare tutte le riforme fondamentali”.

La signora Tahny Lasheen, attivista e politica dell’opposizione, con base negli slum di Imbaba, ha descritto la tragica condizione sociale della sua città: “La maggior parte dei residenti del Cairo in realtà vive negli slum. C’è una mancanza di buona istruzione, cure mediche, acqua potabile pulita, di servizi fondamentali come la raccolta dei rifiuti”.

La signora Lasheen ricorda come le persone di Imbaba all’inizio sostenessero i militari e il loro colpo di stato. “Ma quando sono iniziati gli omicidi hanno cambiato idea, rendendosi conto dell’orrore del massacro”.

“In quanti sono morti?”, voglio sapere.

“Almeno 1600 persone sono state uccise”, spiega il dottor Mohammad Shafik, psichiatra e membro dell’Organizzazione Socialista Rivoluzionaria. “Ma queste sono stime prudenti. Potrebbero essere qualche migliaio ormai”.

Sto monitorando la situazione, attraverso i miei amici e contatti diretti, dottori e intellettuali al Cairo, a Port Said e ad Alessandria. Queste sono persone che mai abbandonerebbero la lotta, gli ideali originari della Primavera Araba, della rivoluzione che doveva servire alla gente comune dell’Egitto.

“Ora stiamo combattendo per una società socialista, non solo per un cosiddetto Egitto democratico. Stiamo lottando per ciò che può essere descritto come una “vera democrazia popolare”. E da questa posizione siamo antagonisti di entrambe le forze – il deposto regime musulmano, e il vecchio regime di Hosni Mubarak”, ha spiegato Wassim Wagdy, uno dei leader leggendari dell’Organizzazione Socialista Rivoluzionaria.

Ma presto questo entusiasmo viene affievolito dalla tristezza: “Il popolo egiziano è confuso. Non sono davvero ideologici. Non molti sono pronti a lottare per una società socialista. Qui non è come in America Latina. Per decenni, i nostri cittadini hanno subìto il lavaggio del cervello dal regime filo-occidentale di Mubarak. Ora vogliono più soldi, perché per anni hanno dovuto far fronte alla realtà che i soldi significano la sopravvivenza. In Egitto, se hai i soldi, vivi, ma se non li hai, muori…”.

“Il 70% della popolazione vive in una terribile miseria”, spiega Mahler Abdelmalek, sociologo.

Gli chiedo cosa significa essere poveri qui.

“È molto semplice: è una persona che, se non ha un lavoro per sette giorni, muore… perché non ha risparmi. Certamente, in Egitto non è come da altre parti: le persone non muoiono di fame, perché c’è la solidarietà… Ma la miseria è dappertutto”.

Il signor Abdelmalek non è un estremista. È analitico e cauto. Non sogna cambi fondamentali nella società egiziana. Supporta i militari. Crede che i soldati possano portare ordine e stabilità in Egitto. È un patriota egiziano. Non gli piacciono troppo gli stranieri: non si fida di loro. Non si fida necessariamente nemmeno di me. Ma, come molti egiziani, in qualche modo non associa i militari e gli enormi aiuti stranieri che vengono dagli Stati Uniti e dall’Europa. Non ne vuole sentir parlare nemmeno se gli F16 e gli elicotteri da combattimento Apache stanno rombando sopra la capitale.

“Stanno impaurendo l’opposizione?”, chiedo.

“Certo che no! Stiamo celebrando!”, risponde il signor Abdelmalek. “Quarant’anni fa, i nostri eroi hanno riportato il Sinai via dall’occupazione israeliana!”

So che lui sa che questa notte alcune persone moriranno. Che molte persone perderanno la vita. Che gli armamenti militari forniti dall’occidente e posseduti dai militari apriranno il fuoco su cittadini disarmati. So che lui lo sa. Lui sa che lo so. Ci stringiamo la mano e ci separiamo, fingendo che sia tutto come prima.

Come nel Cile del 1973

Ora in Egitto la situazione è orribile. Non è solo brutta, o seria; in realtà, non è dissimile dalla situazione successiva al colpo di stato dell’11 settembre 1973 a Santiago del Cile. E anche i numeri delle vittime sono simili. Le persone vengono uccise, e scompaiono. Come in Cile nel 1973, c’è un considerevole numero di coloro che credono che l’Egitto stia “venendo salvato” dai militari. Certamente Morsi non è Allende, e la struttura della società egiziana è completamente diversa rispetto alla classe media cilena, storicamente ben istruita. Ma il colpo militare in sé, il modo in cui la società è divisa, l’aggressività della classe media e di quella medio-alta – tutto ciò fa sembrare straordinariamente simili i due luoghi e i due eventi storici!

In Egitto, ora, il falso e volgare nazionalismo è dappertutto. Ci sono lo sventolio di bandiere e l’adorazione degli alti capi militari. Ho visto con i miei occhi fotografie del generale Sisi che viene baciato pubblicamente in mezzo alla strada.

In Egitto, associare il nazionalismo ai militari è completamente assurdo. Come in Indonesia o in Turchia, i militari egiziani stanno davvero commettendo tradimento da anni e da decenni, prendendo ordini diretti dagli Stati Uniti e dall’Occidente, così come un considerevole mucchio di contanti – 1,3 miliardi di dollari all’anno, secondi solo a Israele, per la precisione.

E questa relazione inquietante, anzi agghiacciante tra i Fratelli Musulmani e i militari egiziani data dagli anni precedenti alla rivoluzione. I Fratelli Musulmani sono stati marginalizzati, indimiditi e liquidati dal regime filo-occidentale di Mubarak. Secondo molti testimoni, i suoi membri sono stati regolarmente rapiti, stuprati, torturati e barbaramente assassinati. Le traversie dei Fratelli Musulmani sono state persino immortalate nell’iconico romanzo contemporaneo intitolato “Palazzo Yacoubian”.

Sembra che le élite filo-occidentali, pienamente disconnesse dalla realtà, stiano sostenendo apertamente i militari, mentre la povera gente è divisa. I professionisti istruiti e i lavoratori organizzati sono spesso con il Movimento secolare del 6 aprile, o con l’Organizzazione Socialista Rivoluzionaria.

“Lavorare in Egitto è diventato kafkiano”

Il dottor Mohammed Shafik sta riposando nella sua clinica su di un divano. Ad un certo punto si impensierisce. Siamo buoni amici e si apre con me: “Sono un fissato di fotografia. Ho la mia macchina fotografica professionale, la porto con me dappertutto. Ma, sai… adesso sta diventando difficile anche solo fare foto normali, alla natura, al fiume Nilo. C’è così tanta paura tutto attorno. C’è così tanto fanatismo… e non viene solo dagli islamici…”.

Gli appuntamenti vengono cancellati. Nessuno si fida di nessuno. C’è una carenza di fiducia persino all’interno dei movimenti, persino tra alleati.

Lavorare in Egitto sta diventando davvero kafkiano. Vengo attaccato quasi ogni giorno – insulti e perquisizioni. Quei continui “No!”

“Deve stare molto attento”, spiega il mio autista. “La gente è così agitata che anche se qui attaccasse un solo uomo, l’intera folla si unirebbe a lui e la farebbe a pezzi”.

So che ha ragione. Nei quartieri come Bulak o Imbaba vedo schermaglie tra vicini in pieno giorno.

“Non si parla più dell’Egitto”

E poi arriva: domenica 6 ottobre 2013, ore 15.30. Sono sul ponte. Il mio autista, orripilato, è nascosto all’interno dell’auto. Si sentono urla: “Arrivano i Fratelli!”. Nessuno sa da dove.

Salto all’interno dell’auto. Io voglio cercare i Fratelli Musulmani, il mio autista vuole fuggire. Mentre guidiamo sull’autostrada sopralevata, la carneficina e la follia all’improvviso erompono sotto di noi.

“Ferma!”, urlo, ma lui tenta di accelerare. Non ho scelta, apro la portiera e fingo di stare per saltar fuori. Funziona. Lui pigia forte sui freni. Rotolo fuori e striscio verso il guard-rail. Là sotto uomini disperati saltano sulla barriera, qualcuno tenendo i figli. Espressioni di paura e disperazione sui volti. Una nuvola di gas lacrimogeno aleggia nell’aria. I jet da combattimento volano sulla città. Ci sono urla e poi vengono esplosi colpi di proiettili; non so se verso il cielo o direttamente sulla folla. I fuochi artificiali celebrativi fanno quasi gli stessi rumori dei mitragliatori di gas lacrimogeni. Poi si sentono gli spari. Le persone corrono, cadono, e poi corrono di nuovo.

Non c’è una logica in tutto questo. I militari vogliono mantenere il potere. La Fratellanza vuole tornare al potere. Non si parla di giustizia sociale, istruzione, alleviare la povertà. Non si parla nemmeno di quale direzione prenderà l’Egitto, politicamente o ideologicamente. Non si parla davvero nemmeno più dell’Egitto!

Le persone sotto di me cominciano ad uccidersi tra loro, automaticamente e sistematicamente. Io premo sull’otturatore, automaticamente e sistematicamente. Sono bravi in quello che fanno, e lo sono anch’io.

Niente ha più senso ormai. Il bel sogno e la pietosa rivoluzione, la Primavera Araba, sono tutti morti!

Durante quel giorno e quella notte sono morte almeno 54 persone.

 

Andre Vitchek – scrittore, regista e giornalista investigativo. Attualmente lavora e risiede in Asia orientale e in Africa. Può essere contattato tramite il suo sito web o il suo account Twitter.

Traduzione di Elisa Proserpio

(Foto di Andre Vitchek)