La responsabilità che tutti portiamo.

La responsabilità che tutti portiamo
Joharah Baker, MIFTAH, 14 Novembre 2007

Quando l’anziano Presidente Yasser Arafat dichiarò uno stato palestinese indipendente il 15 Novembre 1988, è pacifico che non immaginasse una situazione come quella prodottasi ai giorni nostri. Il bagno di sangue a Gaza il 12 Novembre, quando sette Palestinesi sono stati uccisi da altri Palestinesi, è una catastrofe da ogni punto di vista — una catastrofe così potenzialmente distruttiva che, se averà un seguito, finirà per cancellare tutto ciò per cui i Palestinesi, Arafat o chiunque altro, hanno combattuto.

Lunedì 12 Novembre, migliaia di sostenitori di Fatah sono convenuti nelle strade di Gaza per il terzo anniversario della morte del Presidente Arafat. L’anniversario, alla vigilia, è una giornata che nessuno Palestinese può trascurare, che sia stato d’accordo con le posizion di Arafat o meno. Il "padre della rivoluzione palestinese" Yasser Arafat fu, ed evidentemente è ancora, una forza con cui fare i conti. Questo fu chiaro dalla massa di gente radunatasi l’11 Novembre al mausoleo appena inaugurato presso il quartier generale di Ramallah, e dai sostenitori di Fatah che si riunirono per dimostrare in suo nome.

Comunque, il raduno di Lunedì ebbe una tragica svolta quando membri della Forza Esecutiva, una unità di sicurezza affiliata ad Hamas, aprirono il fuoco contro il raduno nel centro di Gaza. FE, che è la forza armata agli ordini del deposto ministro degli interni, più tardi ha dichiarato che stavano reagendo ad atti ostili dei dimostranti di Hamas che li bersagliavano con sassi e sparavano contro di loro con armi silenziate. Secondo funzionari di Hamas, Fatah non si era attenuta ai termini dell’accordo per il mantenimento della legge e dell’ordine. Piuttosto, hanno scandito slogan incendiari e provocatori contro Hamas e hanno esibito un comportamento aggressivo verso le forze di sicurezza.

Che queste siano accuse basate su fatti o meno, niente giustifca l’uccisione di sette persone, tra cui un bambino di 12 anni e il ferimento di altre 100. Il fatto stesso che la Forza Esecutiva si è assegnata il diritto di prendersi le vite di altri Palestinesi nelle strade di Gaza per commemorare il leader che ha lungamente rappresentato la causa è inaccettabile e ingiustificabile.

Oggi la Striscia di Gaza è in lutto e le famiglie continuano a seppellire i propri morti. I Palestinesi sono un popolo che conosce la morte e la tragedia per averle vista in faccia anche troppo bene, essendo stati scacciati dalle loro case e gettati fuori dal loro paese come rifugiati nel 1948 e nel 1967, mentre quelli che rimanevano dovevano vivere sono una occupazione militare estremamente oppressiva. Centinaia di migliaia di madri e padri palestinesi hanno seppellito i loro figli e le loro figlie, uccisi dalle forze israeliane perché ogni espressione di resistenza contro la loro occupazione rappresenta una minaccia alle fondamenta su cui Israele è stato creato.

Inoltre, gli eventi di due giorni fa a Gaza rappresentano una tendenza altrettanto se non più sinistra di un’occupazione nemica. Le morti e i ferimenti inflitti a quei dimostranti indicano le profondità dello scisma che divide in due la società palestinese.

Ancora, cogliamo il paradosso. Domani, 15 Novembre, è il 19mo anniversario del discorso di Yasser Arafat ad Algeri presso il Consiglio Nazionale Palestinese in cui dichiarò lo stato palestinese nella West Bank, nella Striscia di Gaza e a Gerusalemme Est. La dichiarazione giunse meno di un anno dopo l’inizio della prima Intifada nei territori palestinesi, e tutti i Palestinesi concepirono grandi speranze per una soluzione finale. Arafat coniò la famosa frase secondo cui allo stato palestinese mancava solo "un quarto d’ora ancora" ed il "lancio di un altro sasso".

Quelle false speranze si sono da molto tempo ridimensionate nei cuori dei Palestinesi. Che si sia Palestinesi che rimasero a fianco di Arafat fino alla fine o che lo si consideri responsabile del deragliamento chiamato Accordi di Oslo, nessuno può negare che il carnaio e la devastazione di oggi non fossero parte dei piani del leader.

La questione ora è fermare la follia e in qualche modo liberarsi del cattivo sangue che si è accumulato tra Hamas e Fatah. Intanto, questa situazione di Gaza, da tutte le angolazioni pratiche, isolata com’è dalla West Bank, deve cessare perché più dura e più le animosità incancreniranno. Il deposto governo di Hamas sta già manifestando segni di mania, vivendo in un proprio mondo allucinato di controllo assoluto, dove ogni cosa è giustificata se lo scopo è mantenere salde nelle proprie mani le redini del potere.

Frattanto, il governo della West Bank sotto il Presidente Abbas sta vivendo anch’esso nel suo mondo di fantasia. Abbas e compagnia non possono credere nemmeno per un istante che potranno godere di un oncia di successo fino a che Gaza continua ad essere un terreno di incitamento alla lotta intestina, che tra l’altro si sta trasferendo alla West Bank giorno dopo giorno. Prima che questo governo ponga tutte le sue uove in un unico paniere (ad Annapolis), dovrebbe rimettere ordine nella sua casa diroccata, qualunque cosa ciò significhi. Questo significa che quando il deposto primo ministro di Hamas Ismail Haniye invita al dialogo "tra fratelli", anche se il suo controverso collega Mahmoud Zahhar proclama la "conquista della West Bank", il governo non dovrebbe accantonare subito l’offerta.

Tuttavia il valore della vita umana deve sempre venire al primo posto, il che significa che Hamas ha una responsabilità morale nel rivalutare le sue azioni nella Striscia di Gaza. Le vite che sono state distrutte non torneranno indietro, ma devono essere prese misure che assicurino il non ripetersi di una tragedia come questa. Se Hamas insiste che è capace di tenere Gaza con un pugno di ferro ma equo, deve darne prova. Aprire il fuoco contro i dimostranti — indipendentemente che vi sia stata provocazione o meno — non suggerisce un’idea di autorità, ma di spietata tirannide.

Anche la gente ha la responsabilità di far sentire la propria voce. Una volta che ci volgiamo l’uno contro l’altro, chiamandoci con nomi che una volta riservavamo al nostro peggior nemico, il viaggio verso la distruzione della nazione è già cominciato. Se i nostri leader sono troppo ciechi nei loro programmi e nelle loro avide aspirazioni, noi non dobbiamo esserlo. I leader della nostra rivoluzione — Yasser Arafat, Abu Ali Mustapha, Khalil Al Wazir, e dozzine di altri — non avrebbero mai perdonato questa lotta fratricida.

La vera minaccia è sempre davanti a noi. Israele non ha posto fine alla sua occupazione, non ha abbattuto il muro e non ha smantellato gli insediamenti. I nostri uomini e le nostre donne continuano ad essere arrestati, assassinati, braccati. Uno sguardo dall’alto alla West Bank, cosparsa di insediamenti ebraici e tagliata a fette da un muro alto nove metri, dovrebbe farci capire che il nostro lavoro non è finito, e che ogni distrazione ci costerà cara.

Joharah Baker è un’autrice di Media and Information Programme at the Palestinian Initiative for the Promotion of Global Dialogue and Democracy (MIFTAH). Può essere contattata a @miftah.org.

Fonte: MIFTAH

Tradotto dall’inglese da Gianluca Bifolchi, membro del blog collettivo http://achtu
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