La Rice a Ramallah: «Stato palestinese, ora».

La Rice a Ramallah: «Stato palestinese, ora»
Il segretario di stato: il vertice negli Usa porterà risultati. Ma tutto sembra pronto per un fallimento, come Camp David nel 2000
Michele Giorgio
Gerusalemme

Ci servono un accordo israelo-palestinese e la creazione di uno staterello in Cisgiordania (e Gaza?) per poter finalmente sventolare la bandiera della vittoria in Medio Oriente dopo il tonfo iracheno e l’incerto confronto a distanza in atto con l’Iran. L’acqua alla gola dell’Amministrazione Usa, alla ricerca disperata di un «successo» diplomatico da poter esibire in chiusura del secondo mandato di George Bush, era fin troppo palese ieri nelle parole pronunciate a Ramallah dal Segretario di stato Condoleezza Rice sulla presunta nuova priorità americana in Medio oriente: la nascita dello Stato palestinese. «Crediamo che sia giunto il momento che i palestinesi abbiano un loro Stato – ha detto a Ramallah la Rice al presidente Abu Mazen – e questo nell’interesse dei palestinesi, degli israeliani e di tutta la regione». Ancora Rice: «Il governo degli Stati Uniti sinceramente ha cose più importanti da fare, che invitare delle persone ad Annapolis per farsi scattare una foto di gruppo». Il meeting, ha aggiunto, «dovrà essere serio e sostanziale», e il documento sui principi di un accordo che israeliani e palestinesi dovrebbero portare – il condizionale è d’obbligo viste le differenze abissali che esistono tra le due parti – affronterà le questioni fondamentali del conflitto «perché solo in questo modo il processo diplomatico può avere successo».
Abu Mazen sorrideva ieri come un bimbo al quale hanno regalato un giocattolo nuovo, ma molti palestinesi (e israeliani) hanno fatto un salto indietro nel tempo, alla conclusione del mandato di Bill Clinton, alla fine del 2000, quando le necessità elettorali dei democratici portarono alla convocazione senza un’adeguata preparazione di quel vertice di Camp David destinato porre le basi non della pace ma di un nuovo scontro tra le due parti e della Seconda Intifada, grazie anche alla «passeggiata» di Ariel Sharon sulla Spianata di Al-Aqsa. Camp David si concluse con un fallimento totale che Clinton si affrettò ad addossare al presidente palestinese Yasser Arafat, colpevole di non aver accettato le «generose» proposte che avrebbe fatto in quei giorni il premier israeliano Ehud Olmert.
L’incontro di Annapolis si concluderà alla stessa maniera, con Abu Mazen accusato di non aver accolto le «generose offerte» di un altro Ehud, quell’Olmert che passerà alla storia come il primo ministro israeliano costretto ad affrontare tre indagini penali allo stesso tempo? Le condizioni ci sono tutte.
Olmert all’incontro in terra americana e alle dichiarazioni di principi – che lui chiama di «interessi» per sentirsi ancora meno vincolato – continua a imporre clausole e condizioni. A differenza dei palestinesi – che chiedono di inserire nella dichiarazione congiunta una tabella di marcia che fissi tra sei e otto mesi i tempi per la conclusione di un accordo sullo status definitivo dei Territori occupati – il premier israeliano preferisce un documento vago e generico, senza impegni precisi sui nodi del conflitto – Gerusalemme, profughi e confini dello Stato di Palestina – né un calendario di impegni. Abu Mazen ha denunciato ieri alcune iniziative del governo israeliano assolutamente contrarie a qualsiasi ipotesi di accordo, come il recente esproprio di centinaia di ettari di terra palestinese tra Gerusalemme est, Betlemme fino a Hebron, e la ripresa dei lavori di sbancamento a pochi metri dalla spianata delle moschee che, dopo tanti rinvii, ora stanno entrando nel vivo. A poco più di un mese da Annapolis le posizioni sono talmente distanti, che lo stesso Dipartimento di Stato americano, attraverso fonti anonime, ha fatto sapere che la data del vertice potrebbe slittare ulteriormente.

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