In questo caso, in ballo ci sarebbe – secondo il comitato filopalestinese – un assegno di ricerca sulle energie rinnovabili. Dire di no fa rumore tanto più in un contesto in cui un contratto è spesso per i ricercatori un miraggio. «Ho rifiutato l’offerta perdendo di conseguenza il lavoro e – con ogni probabilità – qualsiasi velleità di carriera accademica – scrive la ricercatrice, che ha da poco concluso un dottorato – ma le istituzioni accademiche israeliane sono un punto chiave del regime di oppressione». E ancora: «Mantenere legami di questo tipo con Israele equivale una normalizzazione dello stato e dei suoi istituti di ricerca sullo scenario internazionale; significa dare riconoscimento a, e quindi non problematizzare, le strutture che sottendono alla produzione scientifica israeliana e le basi di esistenza dello stato di Israele». La ricercatrice, a proposito del progetto sulle rinnovabili, accusa: «Come non pensare ad una perfetta installazione di sistemi fotovoltaici nelle colonie illegali, isole autosufficienti ed ipertecnologizzate, mentre al di là dei muri la popolazione palestinese viene costretta a morire di sete?».