‘La rivoluzione libica’. Intervista a Farid Adly

Con questa intervista al giornalista e scrittore libico, da anni residente in Italia, Farid Adly, prosegue l’inchiesta della nostra redazione sulle rivolte arabe e sui nuovi scenari mediterranei e mediorientali.

  Di Angela Lano.

Nel suo ultimo libro, “La rivoluzione libica” (edizioni Il Saggiatore), lei parla di “unità del Paese”. Qual è l’attuale situazione dopo la rivolta e l’intervento della Nato che hanno portato alla fine del regime di Gheddafi? 

“In Libia la situazione è diversa dalle altre rivolte arabe. Qui abbiamo avuto una guerra civile con intervento straniero. L’hanno messa in atto i giovani, le donne, le famiglie dei prigionieri rinchiusi nel famigerato carcere di Abu Salim, e il 15 febbraio dell’anno scorso è scoppiata a seguito dell’arresto dell’avvocato Fathi Terbil, due giorni primi della programmata ‘Giornata della Collera’, indetta per il 17, a ricordo del quinto anniversario della strage di Bengasi.

“Il regime ha risposto alla protesta popolare con l’antiaerea piazzata su camion ed elicotteri, colpendo la gente per le strade.

“All’inizio, le manifestazioni sono state non-violente, pacifiche, come in Tunisia e in Egitto. La popolazione pensava di tirare giù il tiranno come nelle altre rivolte in corso, ma la reazione di Gheddafi è stata molto violenta”.

Lei era favorevole a un intervento della Nato. Nel libro lo spiega chiaramente. Per un uomo di sinistra, “antimperialista” non è un po’ una contraddizione?

“Io metto al centro della questione il popolo libico. Il mio odio contro la dittatura mi ha impedito di essere nichilista, o di anteporre i miei principi, le mie posizioni antimperialiste al bene del mio popolo.

“Le condizioni di lotta politica non erano tali da poter affrontare le armate di Gheddafi. I carri armati sono arrivati a 500 metri dalla casa di mia madre: era terrorizzata. E come lei, tanti altri. La popolazione subiva da anni la repressione del regime. Bisognava porvi fine”.

La Nato non agisce mai per interesse dei popoli, ma per propri fini…

“Non si può dire ‘no’ alla guerra in generale. Bisogna prima eliminare le dittature. Questa avrebbe dovuto essere la parola d’ordine dei pacifisti.

E’ vero, la Nato voleva il nostro petrolio, eppoi, gli interventi militari hanno un alto costo e bisogna pur ripagarlo. In ogni caso, i Paesi aderenti al Patto Nordatlantico ricevevano il petrolio da Gheddafi stesso, nonostante lui si dicesse ‘antimperialista’… Forse, all’inizio, da giovane ufficiale, lo era anche, poi, dopo l’aprile del 1973 (la cosiddetta ‘rivoluzione culturale’, a partire dalla quale chiunque non si fosse lasciato sottomettere dal regime sarebbe stato considerato un traditore), non lo è più stato. Da allora aveva fatto anche tanti accordi con società petrolifere.

“Se fosse stato davvero un governo di tipo socialista, come diceva, avrebbe creato le basi per una gestione autonoma dei giacimenti di petrolio, sviluppando il know-how locale, anziché affidarsi ad aziende e consulenti esterni. Ma non è andata così: se non ci fossero stati i tecnici dell’Eni, ora, con la fine del regime, non sarebbe stato possibile far ripartire l’estrazione di petrolio”.

Forte è stata la critica ai bombardamenti Nato sulla Libia, tra l’altro, partiti dall’Italia L’esportazione della democrazia a suon di bombe è un ossimoro…

“Andava scelto il male minore: la sconfitta dei miei ideali pacifisti è stata la nostra vittoria. La ‘No fly zone’ è stata per me una sconfitta personale, ma ha corrisposto alla vittoria del popolo. E’ una questione di logica politica.

“La Nato ha svolto il proprio compito con il minimo di vittime civili. Alla coalizione internazionale arabo-occidentale va dato il merito di aver mantenuto la parola: cambiato il regime, finito il pericolo, la Nato ha dichiarato la fine della missione bellica. E dalla fine di ottobre 2011, la Libia ha iniziato una nuova fase, di libertà.

“Concludo il mio libro con queste affermazioni: ‘Nel futuro della Libia non ci potrà essere un intervento straniero perché sono stati già sperimentati i risultati di interferenze militari non richieste. Inoltre, il nazionalismo libico non accetterebbe la presenza di forze esterne neanche con basi militari, come era avvenuto negli anni cinquanta ai tempi della monarchia. (…) La sintesi tra giovani rivoluzionari e capaci tecnocrati, malgrado le frizioni e gli ostacoli, ha creato un mix benefico che tutti i libici guardano con attenzione e forti aspettative’”.

Gheddafi godeva di simpatie, a sinistra come a destra. La sua era una Libia “laica”…

“La Libia del regime di Gheddafi laica non lo è mai stata. Il laicismo era solo di facciata. Sapendo di aver quasi perso, il 22 agosto 2011, aveva chiesto agli imam di invitare la popolazione a insorgere. Lui ha combattuto le persone di fede islamica perché sapeva che la gente avrebbe potuto organizzarsi nelle moschee, aggregarsi e cambiare il Paese. Molti giovani libici andarono in Afghanistan a combattere…”.

Della Libia post-bombardamenti si parla poco, e più che altro per evidenziare una situazione di instabilità interna. Com’è la situazione?

“La Libia è rimasta unita: non c’è stata la secessione che taluni temevano e non si è instaurato alcun emirato islamico, come affermava la propaganda di Gheddafi, per spaventare la popolazione. Non c’è stata alcuna ‘somalizzazione’ della rivolta.

“Non abbiamo mai avuto fenomeni di estremismo politico, tranne il gheddafismo stesso. Il nostro è sempre stato un Paese moderato, che ora deve affrontare diverse sfide: la ricostruzione, la riorganizzazione della società e dell’economia; la lotta contro la corruzione e il rischio delle vendette”.

Lei afferma che la Libia non è un Paese basato su divisioni di tipo tribale. Ce ne può parlare?

“La composizione etnica della Libia è molto complessa. Esistono le tribù, quello sì, ma non ci sono lotte tra di esse, come è stato scritto dai media occidentali. Ci sono conflittualità per motivi politici ed economici, faide tra bande dedite al contrabbando di merci e al traffico di esseri umani, nelle zone di frontiera.

“Le tribù libiche sono un fenomeno sociale, non politico: sono il segno dell’appartenenza al territorio.

“Il colonialismo europeo ha sempre dipinto la Libia come una società primitiva e formata da tribù in conflitto, che avevano bisogno dell’intervento esterno per essere sottomesse e guidate. Ma questa è una visione coloniale, appunto. La struttura tribale gliela ha data Gheddafi per controllare il territorio e la popolazione: è il divide et impera

“La rivolta è scoppiata a causa della grave situazione economica, della disoccupazione dei giovani, delle repressioni politiche, e ha seguito la scia delle altre rivoluzioni arabe – tunisina ed egiziana. E’ stata una lotta contro la dittatura, condotta anche dall’opposizione dei libici che vivevano all’estero.

“Ciò che ha fatto da detonatore, anticipando lo scoppio della rivolta dal 17 febbraio 2011 al 15, è stata la drammatica situazione dei prigionieri di Abu Salim e le proteste dei loro familiari e avvocati”.

Quale ruolo ha avuto e ha l’Italia nei confronti della Libia?

“L’Italia è stata un Paese coloniale, dal 1911 al 1943. Ma è stato anche un partner importante e lo è tuttora. Metà del carburante usato dagli italiani viene dalla Libia.

“L’Italia non ha mai avuto una vera politica estera nei confronti della Libia, sia per retaggio coloniale sia per la convinzione della necessità della dittatura come collante interno. Ma il regime di Gheddafi ha sempre ricattato i governi italiani con l’immigrazione clandestina, a conferma di non essere affatto democratico. Il dittatore ha accettato di fare il guardiano dell’Europa creando lager per immigrati. Una vergogna! Nel 2010 chiese 5 milioni di euro all’Unione Europea per bloccare il traffico di clandestini. Voleva soldi e tecnologie per pattugliare le frontiere nel sud del Paese. Voleva avere potere contrattuale con l’Europa.

“I rapporti tra l’Italia e la Libia sono stati condizionati dalla mancanza di politiche da parte della prima. Durante il primo mese di rivolta, il governo italiano è stato tentennante, poi ha dovuto adeguarsi. L’amministratore delegato dell’Eni ha incontrato il Consiglio di transizione libico e ha ricevuto rassicurazioni sulle forniture di petrolio, e così l’Italia è passata da amica di Gheddafi a membro della coalizione Nato.

“Il Belpaese ha tutto da guadagnare con una Libia democratica: si potranno creare posti di lavoro e investimenti, consulenze tecniche. La Libia ha bisogno di know-how in tutti i campi, di creare economia vera. Il nuovo gruppo dirigente è molto preparato: non accetterà corruzione e affarismo, com’è avvenuto durante i 40 anni di dittatura”.

Cosa pensa della situazione in Siria?

“E’ una situazione diversa. La Siria ha un ruolo nevralgico in tutta la regione. Diciamo che è strategica per Turchia, Iran, Golfo, Palestina.

“Il governo siriano ha garantito stabilità a Israele di fronte alla situazione del Golan. Non ha mai sparato una pallottola. Non è facile fare saltare il regime degli Assad: c’è un’opposizione forte, ma che rifiuta l’intervento della Nato, sbagliando.

“E’ un regime che ha ancora il controllo dell’esercito e un appoggio popolare, quindi resiste. Paradossalmente, la debolezza dell’opposizione libica è stata la sua forza, e vittoria, contro Gheddafi, perché ha portato a richiedere l’intervento esterno, della Nato. La forza dell’opposizione siriana è la sua debolezza, perché rifiuta di fare altrettanto”.

 

Ribadiamo a coloro che vorrebbero la nostra agenzia partigiana di questa o quella visione politica, che siamo, appunto, un media, un mezzo di diffusione di notizie, analisi, report, studi. E tale rimarremo.