La scelta politica israeliana di trattenere i corpi dei Palestinesi

353227CBetlemme-Ma’an. Di Emily MulderAncora una volta, si torna a discutere del trattamento riservato da Israele ai morti palestinesi, visto che il governo si rifiuta sistematicamente di riconsegnare alle famiglie i corpi di 22 palestinesi uccisi in seguito ad attacchi contro israeliani nel mese di ottobre.

Tale politica, a cui Israele sembrava aver rinunciato alla fine della Seconda Intifada, è stata fonte di controversie tra le autorità israeliane e ha causato massicce proteste nella Cisgiordania occupata.

Secondo il Comitato nazionale palestinese per il recupero dei corpi dei martiri, nel mese di ottobre 33 cadaveri sono stati trattenuti da Israele e solo 11 restituiti.

Tra loro, la maggior parte si era resa responsabile dell’uccisione o del ferimento di militari e civili israeliani, ma il reale coinvolgimento negli attacchi da parte di diverse vittime è stato messo in discussione dalle Nazioni Unite e da Amnesty International.

A Hebron, il funerale di cinque ragazzi palestinesi, tutti sotto i 18 anni, ha portato migliaia di persone nelle strade, in quello che Israele ha definito un autentico “evento nazionalistico”.

Secondo fonti israeliane, il ministro della Difesa Moshe Yaalon, che sulle prime aveva autorizzato il rilascio dei corpi sostenendo che si trattava di “un peso e non di una risorsa”, domenica ha dichiarato che l’Autorità nazionale palestinese non è riuscita a chiudere un accordo con Israele per proibire esequie di massa per i corpi restituiti.

Sembra che, nel corso di una riunione del gabinetto di sicurezza, Yaalon abbia deciso di fermare temporaneamente la riconsegna delle salme dei Palestinesi di Hebron e anche che, qualora l’Anp non rispettasse la promessa di impedire le esequie di massa, Israele avrebbe sepolto i corpi su territorio israeliano.

Il risentimento del popolo è già così profondo che un’eventuale decisione da parte dell’Anp di impedire funerali di gruppo si tradurrebbe in una delusione ancora più amara verso dell’istituzione, già accusata di eccessiva cooperazione con Israele.

‘Farli soffrire’

Secondo Salwa Baker Hammad, portavoce del Comitato nazionale palestinese, tra i corpi trattenuti da ottobre ci sono 10 vittime di Hebron, 10 di Gerusalemme (tra cui quattro minorenni) e uno di al-Naqab (Negev).

Negli anni, Salwa ha seguito decine di famiglie palestinesi che si sono rivolte alla Corte Suprema per ottenere la custodia delle spoglie dei loro parenti.

A suo avviso, indipendentemente dalle ragioni politiche, l’unico risultato ottenuto è la sofferenza delle famiglie.

“Ho conosciuto il padre di Bayan al-Esseily, la ragazza diciassettenne di Hebron, prima di riavere il corpo. Una settimana prima, stava impazzendo di dolore. Ci ha detto, ‘Voglio vedere mia figlia, non riesco a dormire né a mangiare’. Lo hanno fatto soffrire molto”.

Salwa ha spiegato che questa pratica impedisce alle famiglie musulmane di rispettare le tradizioni religiose sulla sepoltura e la preghiera, obbligando i parenti della vittima a trasgredire i precetti del loro credo.

Secondo Salwa, finora Israele ha restituito 11 corpi grazie alle pressioni della comunità internazionale e delle comunità palestinesi che hanno organizzato varie manifestazioni di protesta.

Nel caso della scelta di riconsegnare le cinque salme dei cittadini di Hebron, a suo avviso la giovane età delle vittime è stata un fattore determinante, soprattutto perché tra loro c’erano anche due ragazze.

“Le famiglie credono che l’ANP dovrebbe avviare delle trattative per il recupero delle salme, ma non hanno alcuna fiducia in quell’istituzione.  Sono convinti che, senza la pressione esercitata da parte loro, non avrebbero ottenuto nulla”.

Le 22 famiglie che attendono ancora le spoglie dei loro cari rischiano di unirsi alla nutrita schiera di Palestinesi a cui questo diritto è stato negato.

Corpi senza nome

A lungo, in Israele ci sono stati “cimiteri per i nemici”, anche definiti “cimiteri dei numeri”, in cui venivano sepolti i Palestinesi morti durante attacchi a Israeliani in tombe senza nome, contrassegnate solo da numeri.

Sembra che siano circa 262 le salme trattenute da Israele, senza contare i 19 palestinesi sepolti in territorio israeliano durante e dopo la Guerra di Gaza del 2014 e i 22 del mese di ottobre.

Le salme vengono seppellite in questi cimiteri sin dagli anni ’60, anche se all’inizio non si trattava di una prassi consolidata, secondo un rapporto di Hamoked e B’Tselem.

Dopo l’attacco suicida del 1994 contro l’insediamento di Netzarim, nella Striscia di Gaza, Israele ha iniziato a trattenere regolarmente i corpi dei presunti terroristi palestinesi.

L’attacco avvenne subito dopo la Prima Intifada e sarebbe stato il primo di una lunga serie, prima che le fazioni politiche palestinesi organizzassero la resistenza armata sfociata nella Seconda Intifada, tra il 2000 e il 2005.

All’epoca dei fatti, Hamoked e B’Tselem avevano dichiarato che il cambiamento nella politica di restituzione dei corpi era dovuto alla volontà di punire gli organizzatori degli attacchi, visto che gli esecutori materiali si sottraevano al castigo suicidandosi nel corso degli attentati.

Allo stesso tempo, l’intenzione del governo era di impedire lo svolgimento dei funerali e forme di acclamazione sociale nei confronti dei “terroristi”; secondo gli oppositori, però, questa politica ottiene esattamente l’effetto contrario. Un altro fattore è da rintracciarsi nell’uso delle salme come oggetti di trattative con i gruppi politici palestinesi.

Nel 2004, questa prassi viene interrotta, senza ulteriori spiegazioni. Lo stato avrebbe restituito i corpi alle famiglie dopo averli identificati, con un test del DNA a spese dei parenti, secondo Hamoked. Ma secondo Hamoked e altri gruppi, negli anni Israele ha rifiutato in più occasioni la restituzione delle salme.

L’anno scorso, Hamoked ha documentato anche vari inadempimenti israeliani nel trattamento delle spoglie dei Palestinesi, fino alla nomina di una commissione speciale.

In una delle interrogazioni, il gruppo ha accusato Israele di non svolgere le attività minime per l’identificazione delle vittime, di non apporre nessun segno identificativo sulle tombe e di non garantire la sepoltura secondo i rituali religiosi dei deceduti, contravvenendo quindi al diritto internazionale.

Politica o gioco di potere?

Dopo la Seconda Intifada, il rifiuto di restituire le salme ha toccato i massimi livelli nel mese di ottobre, secondo le dichiarazioni rilasciate a Ma’an da Dalia Kerstein, Direttrice di Hamoked.

All’inizio, la decisione è stata presa dal Ministro della Pubblica Sicurezza Gilad Erdan e approvata dal Primo Ministro Israeliano Netanyahu, all’interno di un pacchetto di misure punitive contro i Palestinesi messa in atto in seguito all’aumento degli attentati ad ottobre.

La proposta di Erdan prevedeva che i corpi dei “terroristi” non fossero restituiti alle famiglie e fossero sepolti nei cimiteri all’interno del territorio israeliano.

Salwa e Kerstein hanno posto interrogativi sul possibile uso delle salme nelle future trattative tra Israele e l’Autorità nazionale palestinese.

L’estate scorsa, Israele ha provato a trattare concedendo la restituzione dei corpi dei Palestinesi e il rilascio di diversi affiliati di Hamas arrestati nella Striscia di Gaza, in cambio delle salme dei due soldati israeliani trattenute dal movimento islamico.

I due militari, Hadar Goldin e Oron Shaul, sono ancora sotto la custodia di Hamas; le famiglie hanno chiesto a Israele di bloccare la restituzione di tutti i corpi palestinesi finché il movimento non cederà.

Salwa e Kerstein hanno rilevato, anche nell’interesse nazionale israeliano, che questa prassi ha, nel passato, consentito allo Stato di coprire potenziali casi di illeciti perpetrati dalle forze israeliane.

Kerstein ha dichiarato che si sta riproponendo la situazione della Seconda Intifada, in seguito all’aumento degli attacchi perpetrati da Palestinesi contro militari e civili israeliani.

“È la stessa politica, che io non definisco neanche politica, quanto gioco di potere. Perché una politica è frutto di un ragionamento e di una ricerca che sfociano in una conclusione, qui la cosa è diversa,” ha spiegato Kerstein a Ma’an.

Per le famiglie dei centinaia di Palestinesi uccisi ad ottobre o nei periodi precedenti, questa prassi ritarda l’accettazione della morte dei loro cari.

In una società abituata a sistemi di detenzioni arbitrari, in cui vige un ordinamento in cui ai Palestinesi è costantemente negato il diritto a un equo processo, spesso i familiari rifiutano di credere all’uccisione dei loro cari e ritengono che siano detenuti nelle carceri israeliane, se non è loro permesso di vedere la salma.

Secondo Hamoked, questa è una delle forme di punizione collettiva inflitta ai membri della famiglia di chi ha commesso un reato.

Interrogata sul potere contrattuale da parte dell’Anp per ottenere la restituzione dei corpi, Kerstein risponde che in genere Israele cede solo per “tranquillizzare l’Autorità Palestinese o la popolazione.”

“A prescindere dalle richieste palestinesi, conta solo la volontà di Israele, che vuole dimostrare di essere il più forte agli occhi di tutti.’ È un vero e proprio gioco di potere”.

Traduzione di Romana Rubeo