La sinistra italiana e la Palestina: ora o mai più

wall_kid_artPalestine Chronicle.

If we wash our hands of the conflict between the powerful and the powerless we side with the powerful – we don’t remain neutral”.

Ripercorrere diacronicamente la posizione italiana sulla questione palestinese significa, per certi versi, seguire la stessa dolorosa storia che ha segnato lo svuotamento della sinistra italiana, la rinuncia ai valori che ci avevano caratterizzato e resi grandi, lo smarrimento di un orizzonte e la perdita delle nostre categorie di riferimento.

La stessa subalternità che oggi caratterizza l’azione della sinistra su tutti i campi si traduce anche nella rinuncia all’adozione di posizioni nette e definite sulla politica estera e in una più o meno evidente confusione ideologica sui capisaldi che dovrebbero continuare a ispirare le nostre scelte.

La sinistra italiana ha costituito per anni un punto di riferimento importante per il movimento di liberazione palestinese, ma neanche in questo specifico ambito siamo potuti uscire indenni dall’ondata neoliberista e poi dalla retorica islamofoba che ha seguito l’11 settembre. [1] Schiacciati su tutti i fronti, abbiamo ceduto il passo alla narrazione imperante del nemico, adottando le sue categorie concettuali.

Durante le operazioni militari condotte da Israele su Gaza, parte della sinistra ha fatto sentire la propria voce, ma anche in quel caso è sempre mancato un apparato teorico cui fare riferimento per non cadere nella vuota retorica di un interesse di tipo esclusivamente umanitario, che si concentra solo sulla brutalità e sul balletto dei numeri delle vittime, senza per questo tirare in ballo l’autentica radice dei problemi.

La resistenza palestinese è una lotta di liberazione ampia, contro l’imperialismo, il colonialismo e il neo-colonialismo, e per questo resta dirimente nella comprensione del quadro medio orientale[2] e nell’approccio che un soggetto che si richiama alla sinistra dovrebbe avere.

In queste settimane, in Italia si assiste a un fervente dibattito sul futuro della sinistra, sulla possibile costituzione di un soggetto che rappresenti un’alternativa valida allo smantellamento dei valori che hanno caratterizzato la nostra storia e la nostra nobile tradizione.

Da semplice militante, sono convinta che questo nuovo soggetto non possa restare in silenzio di fronte a quanto sta accadendo in Palestina e, più in generale, in Medio Oriente. Anche in questo caso, il solco che ci divide dalla politica renziana sembra incolmabile: le dichiarazioni del nostro Premier alla Knesset, lo scorso anno, sono state chiare e incisive e hanno segnato un percorso ben definito, per la verità già intrapreso dall’Italia da qualche decennio.[3]   Mentre spostava il tema del diritto alla resistenza dalla parte del più forte (lo Stato di Israele) e dichiarava la disponibilità italiana a stare al suo fianco in questa sfida, appariva ancora più vuoto e puramente retorico il riferimento alla “soluzione dei due popoli, due Stati”, ribadito ad Abu Mazen il giorno successivo, a Betlemme. E la storia sembra ripetersi oggi, con le sue affermazioni imprecise e confuse in merito alla risoluzione dell’UNESCO.

Costruire una sinistra non subalterna al punto di vista dominante sulla storia è una sfida, un’impresa: e credo che, come in tutti gli altri campi, anche nella considerazione della linea da seguire in merito al Medio Oriente e, in particolare, alla questione palestinese, la discussione debba essere quanto mai franca.

Una sinistra da costruire nel prossimo futuro dovrebbe a mio parere iniziare a liberarsi da alcuni tabù e riconsiderare le sue scelte muovendosi in un orizzonte teorico preciso, che sappia delineare un pensiero autonomo e tracciare una nuova direzione.

Non può essere un tabù, ad esempio, l’argomento del boicottaggio, che nel peggiore dei casi viene bollato da Matteo Renzi come “sterile e stupido” e nel migliore dei casi viene invece presentato come un provvedimento che ostacola la costruzione di ponti per la libertà e la convivenza, come dichiarato dalla popolare scrittrice J.K. Rowling. Una tale presa di posizione non tiene chiaramente conto del contesto di apartheid in cui vive il popolo palestinese e nega persino il diritto a una forma di resistenza non violenta, che invece riscontrò il massimo sostegno dell’opinione pubblica internazionale nella vicenda del Sud Africa.

Altro tabù da cui liberarsi è la condanna acritica a ogni forma di violenza, che spesso ci porta a leggere la situazione in modo miope, senza il filtro della lente del diritto alla resistenza di un popolo. L’Italia, nata dalla Resistenza, deve mostrarsi fiera della sua storia ed esprimere, almeno dalla nostra parte, la piena solidarietà a ogni popolo che lotta per liberarsi dalla morsa dell’occupazione. Anche nella condanna al radicalismo e all’estremismo, che certo deve rimanere ferma, non si può prescindere dalla considerazione dei fattori che lo determinano in ultima istanza, che sono sia interni che esterni e che vanno analizzati per non cadere nella trappola di giudizi semplicisti e manichei.

Sarebbe poi il caso di iniziare a interrogarci sulla validità della formula che abbiamo ripetuto come un mantra ogni volta che eravamo interrogati sul tema: “due popoli due stati” è stato il principio ispiratore di una corrente di pensiero che spesso è servita solo a scaricarci la coscienza; tuttavia, la fiducia nella negoziazione come criterio unico di risoluzione del conflitto è tramontata con Oslo e quella promessa è ormai morta e sepolta; credo sia d’obbligo rinnovare le nostre categorie concettuali alla luce della storia, se non vogliamo cadere in un vortice meramente retorico che ci deresponsabilizza da una presa di posizione autentica ed efficace.

“Ora o mai più” è il pensiero che si affaccia alla mia mente ogni volta che mi fermo a considerare il quadro desolante che si presenta ai nostri occhi, in cui l’attacco ai valori di una tradizione è spietato; le conquiste del ‘900 sono proposte come stantii fardelli che ostacolano il mito del progresso, e vengono loro attribuite le colpe di una crisi che invece è tutta interna al capitalismo; il tessuto sociale è così disgregato che ognuno si chiude nel dolore degli effetti di questa crisi e cerca i responsabili tra le vittime e non tra i carnefici; “ora o mai più” si deve costruire una sinistra che, se ha la pretesa  di mettersi alla guida di un percorso ambizioso quanto necessario, non può e non deve restare in silenzio, afona e incapace di prendere una posizione nel conflitto tra il forte e il debole.

[1] cfr. Mirjam Abu Samra, L’Italia e i Palestinesi, cos’è andato storto http://osservatorioiraq.it/analisi/litalia-e-i-palestinesi-cosa-andato-storto

[2] Ramzy Baroud, Palestine remains the core struggle in the Middle East http://www.palestinechronicle.com/ramzy-baroud-palestine-remains-the-core-struggle-in-the-middle-east/

[3] cfr. http://www.italiapost.info/206827-renzi-knesset/