La strana morte di Pierre Gemayel.

Cari amici,

    io non ho certo la conoscenza di Medio Oriente di Robert Fisk (autore, fra l’altro, di quello che, a parer mio, è il più bel libro sulla guerra civile libanese: Pity the Nation), né scrivo per un giornale prestigioso come "The Independent". Ma anch’io vorrei dire la mia sull’assassinio di Pierre Gemayel. Il pezzo che vi mando comparirà sulla mia rubrica ("Quadrante") nel numero di dicembre del mensile svizzero "Galatea".

    Buona lettura.

    Michelguglielmo Torri

 

La strana morte di Pierre Gemayel

 

L’assassinio il 21 novembre a Beirut di Pierre Gemayel ha determinato un brusco aumento di tensione in Libano. Nel paese era già in corso uno scontro politico durissimo, determinato dal tentativo di arrivare alla costituzione di un nuovo governo «di unità nazionale», che tenesse conto dell’addizionale peso politico guadagnato da Hizballah in seguito alla vittoriosa resistenza contro gli Israeliani. Alla vigilia dell’assassinio, le trattative per la formazione del nuovo governo si erano però interrotte, tanto che il leader di Hizballah, Hassan Nasrallah, si stava preparando a mobilitare le piazze.

Subito dopo l’assassinio, molti politici libanesi non hanno avuto dubbi nell’indicare la Siria come mandante. Stranamente, però, il padre di Pierre, l’ex presidente Amin Gemayel, è apparso più cauto. «Non abbiamo ancora prove o ipotesi irrefutabili, ma molte dita sono puntate contro la Siria che, a parte tutto, ha un passato [di assassinii politici]», ha detto l’ex presidente. Un’affermazione quanto meno blanda, da parte di un padre a cui hanno appena ucciso il figlio e l’erede politico.

In effetti, a rendere quanto meno strana l’ipotesi di una responsabilità siriana è il contesto politico più ampio in cui l’assassinio si è svolto. Solo pochi giorni prima, Rami Kouri, un noto editorialista del quotidiano libanese Daily Star (cioè un giornale sostanzialmente filo-occidentale), aveva pubblicato un articolo provocatoriamente intitolato: «L’accattone americano non può fare lo schizzinoso in Medio Oriente».

L’articolo iniziava con le parole: «È difficile leggere un’analisi seria delle possibilità di fronte agli americani in Iraq senza imbattersi nell’idea che Washington debba aprire un dialogo con la Siria e l’Iran». Un dialogo, vale la pena di notare, a cui il presidente siriano Bashar al-Assad si diceva pronto fin dall’indomani della fine della guerra dei 33 giorni in Libano. E, naturalmente, nel periodo precedente l’assassinio di Pierre Gemayel stava diventando sempre più chiaro che, sia pure fra una serie di ripensamenti e di passi indietro, l’attuale amministrazione USA si preparava proprio ad ingoiare quell’amaro boccone, almeno per quanto riguardava la Siria. Dal canto suo, la Siria non si era dimostrata neghittosa nel tentare di aprire la strada al dialogo: il giorno stesso dell’assassinio, Damasco aveva ristabilito le piene relazioni diplomatiche con l’Iraq.

Insomma, l’ipotesi siriana è chiaramente assai debole e, come ha riconosciuto lo stesso quotidiano israeliano "Ha’aretz": «la pura logica politica e diplomatica rende difficile vedere Damasco dietro l’assassinio». Ma, se questo è vero, chi è il mandante del delitto? Cui prodest?

In pratica, le possibilità sono tre. La prima è che, effettivamente, i mandanti siano siriani, ma che si tratti di elementi che, in realtà, intendevano screditare Bashar al-Assad. La seconda, adombrata ad esempio dal PINR (Power and Interest News Report), è che i responsabili appartenegano alla stessa comunità maronita. Come ricorda il PINR, «mentre la famiglia di Gemayel è una delle più importanti nella fazione cristiano maronita, è anche una delle più controverse ed è impopolare in alcune aree della comunità cristiana.» Messo in termini meno diplomatici, la verità è che lo zio di Pierre, Bashir, si aprì la strada al potere negli anni 70 attraverso una sistematica e spietata politica di assassinii ai danni dei maggiorenti maroniti, in certi casi eliminandoli con l’intera famiglia. E, nella società libanese queste sono offese che non vengono né facilmente dimenticate, né facilmente perdonate.

Ma, ovviamente, c’è una terza possibilità. La politica di Israele è, almeno dagli inizi degli anni 50, quella di provocare la disintegrazione del Libano lungo linee etnico-religiose. Di nuovo, durante la recente guerra, uno degli obiettivi di Israele è chiaramente apparso quello di determinare una situazione in cui il resto della popolazione si rivoltasse contro Hizballah e gli sciiti. In quell’occasione, il tentativo israeliano ottenne risultati opposti a quelli perseguiti. Può darsi che ora Israele stia ancora cercando di ottenere il medesimo risultato, ma ricorrendo a strumenti più sosfisticati. Certamente anche per Israele vale quanto detto da Amin Gemayel a proposito della Siria: ha, dimostrabilmente, un passato di assassinii politici.

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