La vacca sacra del diritto a esistere di Israele.

La vacca sacra del diritto a esistere di Israele 

 di Gianluca Bifolchi 

In una recente conversazione privata sul carattere fondamentalmente filo-israeliano della copertura dei fatti del Medio Oriente da parte della grande stampa occidentale, mi sono trovato a sostenere la tesi che se il sistema dell’informazione nel suo complesso, e non solo in esperienze periferiche, riflettesse i principi di completezza ed obiettività che vengono insegnati nelle scuole di giornalismo — e di cui tutti i direttori di testata, nessuno escluso, menano gran vanto — la causa dei diritti nazionali del popolo palestinese sarebbe vinta in una settimana.

Riflettendo più tardi su questo soggetto mi sono accorto di quanto  fosse ingenua  la mia opinione, nonostate la verità del la sua premessa, e cioè la parzialità pro Israele della maggior parte dei  resoconti giornalistici occidentali, messa a nudo qualche anno fa, per la stampa anglosassone, da una ricerca dell’università di Glasgow.

Parlo di ingenuità non solo perché una stampa che si attenesse ai principi di completezza e obiettività non avrebbe alcuna funzione (se non residuale) in un sistema politico ed economico come quello occidentale, in cui la diversità dei punti di vista a cui viene permesso di emergere riflette solo interessi diversi di elite politico-finanziarie in concorrenza tra loro. Teorizzazioni di comodo come quella della “società aperta” servono solo ad offuscare la realtà di una ineguale distribuzione del potere e della richezza a cui corrisponde una ineguale capacità di controllare la comunicazione.

Ma per venire ad aspetti più inerenti al conflitto israelo-palestinese, nutro qualche dubbio sul fatto che la mera dimensione della cronaca, sia pure nella sua forma più nobile (dedotta dal reame onirico delle utopie politiche), possa di per sé produrre quei cambiamenti generali di opinione, e dunque di equilibrio politico, in grado di assicurare al popolo palestinese la realizzazione delle sue giuste aspirazioni nazionali.  Questo perché le unità sparse di informazione portate dalla cronaca  quotidiana finiscono per essere elaborate attraverso filtri legati alla percezione del contesto storico in cui gli eventi si producono. Chi controlla il contesto controlla anche il processo di assimilazione della notizia, e dunque il significato politico della stessa.

Da questo punto di vista l’impegno per un’informazione più corretta sul conflitto israelo-palestinese rischia di essere sterile, se non è accompagnato da una capacità di mettere in discussione la percezione del contesto storico del conflitto imposta dagli stessi blocchi di potere che favoriscono la distorsione del resoconto cronistico ad uso di un lettore occidentale manipolato.

Da questo punto di vista è imperativo condurre l’assalto critico più determinato ad uno dei caposaldi fondamentali del dibattito politico occidentale, e cioè il “diritto di Israele ad esistere nella sicurezza”. Nella formula si colgono due elementi: 1. Il diritto di Israele ad esistere; 2. il codicillo “nella sicurezza”.

Cominciamo dal primo, e precisiamo che se in questo discorso parleremo soprattutto delle posizioni della sinistra, sarà perché le conclusioni da trarsi si applicheranno in maniera tanto più ovvia alla destra.

In un recente dibattito organizzato dall’organizzazione filoisraliana KKL , coordinato dal direttore del GR3 Antonio Caprarica, e i cui oratori erano Piero Fassino e l’ambasciatore di Israele Elazar Cohen, il primo dei due, di fronte ad uditorio prevedibilmente partecipe, ricordava con orgoglio e commozione un manifesto della Federazione di Torino del PCI ritraente una nave carica di emigranti ebrei che si recavano in Palestina, e che era parte di una campagna di sottoscrizione organizzata nei primi del dopoguerra dai comunisti torinesi a favore delle organizzazioni sioniste che organizzavano l’emigrazione. Va infatti detto che in quegli anni la sinistra storica italiana, con poche o nessuna eccezione, sosteneva fervidamente il progetto sionista, secondo una posizione che si è mantenuta nei decenni e che di recente, almeno nei suoi aspetti  più ufficiali, non ha fatto che rafforzarsi. E’ vero che per una fase questa posizione è stata più marcatamente filo-palestinese. I documenti e gli storici seri datano il cambio di corso con la guerra dei sei giorni, nel 1967, e l’inizio dell’occupazione della West Bank, della Striscia di Gaza e dell’intera Gerusalemme. Altri grandi amici della sinistra, come Furio Colombo nel suo ultimo libro “La fine di Israele”, non si peritano di anticipare di diversi anni la data, risalendo agli ultimi anni di vita di Stalin e  alla sua isteria antisemita (trasmessasi, par di  capire, e sia pure in forme meno virulent, alla sinistra italiana). Ma anche negli anni del più stretto rapporto tra la sinistra storica italiana e l’OLP di Yasser Arafat, la premessa della giustezza  per progetto sionista e della partecipazione non solo morale alla fondazione dello stato di Israele non è mai stata messa in discussione.

E’ ora di dire chiaramente che i sensi di colpa delle elite politico culturali europee, il sentimento di sincera condoglianza per la tragedia della Shoah, e la partecipazione attiva dell’ebraismo europeo alla Resistenza al nazifascismo, non sarebbero mai stati sufficienti a far maturare nella sinistra una posizione di cooperazione ad un progetto smaccatamente coloniale come quello sionista, e quale in effetti ci fu, se non facendo leva sull’opportunismo di Stalin e del suo precipitoso riconoscimento dello stato ebraico (oltreché della sua assistenza militare durante la guerra del 1948), in combinazione ad un fondamentale eurocentrismo che, ad onta del  conclamato internazionalismo della sinistra, imponeva una percezione assai debole dei diritti di autoderminazione delle popolazioni extraeuropee. Non giudico con eccessiva severità questo limite, dato che l’universo mentale degli Italiani di allora era molto più parrocchiale di oggi. A noi può sembrare normale scambiarsi online messaggi in tempo reale con un amico palestinese o israeliano, ma allora l’immaginario mediorientale degli Italiani oscillava tra rappresentazioni esotiche e film come quello in cui Totò nel deserto si fa rubare i soldi da un gelataio che si rivela essere un miraggio (“Un miraggio sì, ma un miraggio ladro!”). Ci si può stupire se persino agli occhi di un movimento operaio così avanzato e ben organizzato
come quello italiano il progetto sionista potesse essere così profondamente frainteso, ed essere scambiato per qualcosa di “progressista”?

Ma oggi che la nostra percezione del mondo si è espansa e che la nascita dello stato di Israele è uscita dalla dimensione della lotta politica per entrare in quella dell’esame storiografico dei doumenti, nessuno può mettere in dubbio che il successo del sionismo ha le sue radici nella combinazione di un nazionalismo ebraico aggressivo, e delle politiche coloniali delle potenze europee tese a spartirsi i resti del decaduto impero ottomano. Da questo punto di vista va definitivamante denunciata la mistificazione storica che assimila il sionismo alle epopee patriottiche dell’ottocento, come quella italiana, greca, polacca, ungherese… cronologia alla mano il sionismo appartiene alla fase successiva, quella in cui i nazionalismi europei vincenti acquisivano un tratto decisamente aggressivo ed attuavano politiche estere inprontate al principio di potenza. I primi sionisti avevano molte più affinità con l’ex garibaldino Francesco Crispi e il suo avventurismo coloniale, che non con  protagonisti  della lotta per l’indipendenza nazionale contro il dominio austriaco.

Su queste basi, affermare il “diritto di Israele a esistere”, significa riconoscere il fatto compiuto — compiuto con la forza delle armi — come fonte di diritto internazionale, per un evento prodottosi quando le appena nate Nazioni Unite si davano uno Statuto che negava recisamente tale principio, e in cui in Asia e in Africa si compiva un immane processo di decolonizzazione che i manuali di storia in uso presso le nostre scuole presentano sotto una luce elogiativa, come la direzione in cui il mondo deve procedere.

La non accettazione di tale diritto, che ritroviamo nella posizione di quasi tutto il mondo arabo, non implica affatto il programma di annichilimento di Israele appena le condizioni saranno propizie, come la propaganda filo-israeliana vuole far credere. Con l’eccezione di minoranze salafite che agitano il vessillo della distruzione di Israele per ragioni demagogiche, non c’è nessuno nel Medio Oriente che non creda che Israele è lì per restare, e che la sua presenza è una costante per ogni futura evoluzione degli equilibri regionali. Ciò include anche l’Iran, Hezbollah e Hamas, come sa ogni onesto osservatore dei fatti mediorientali. Il mancato riconoscimento di Israele significa il rifiuto di accettare la composizione del conflitto con i Palestinesi sulla base della mendace narrativa sionista, perché ciò restringerebbe la posta in gioco negoziale fino ad escludere qualunque soluzione ragionevolmente equa per la parte araba. In questo senso, lo stallo diplomatico del mancato risconoscimento di Israele non ha niente di diverso dai rapporti tra Cina Popolare e Taiwan, il cui mancato rinoscimento reciproco non esclude un modus vivendi incruento, in attesa di circostanze più favorevole alla normalizzazione dei rapporti. In questo senso la posizione araba è quantomai appropriata, ad onta degli sforzi occidentali di comprare singoli governi, come è accaduto con l’Egitto e la Giordania (quelli che al momento erano in vendita).

Il secondo elemento da mettere in discussione è l’apparente truismo secondo cui, se Israele ha diritto ad esistere, ha anche diritto a farlo “nella sicurezza”. Si citano spesso sondaggi secondo cui la maggioranza degli Israeliani “sono per la pace”. Dato che, rimpallato sui nostri organi di stampa, vorrebbe suggerire che se la pace non c’è è colpa di quegli altri, che “non sono per la pace”. Ma si sorvola sempre sulle interessanti caratterizzazioni, spesso riportate in queste ricerche demoscopiche, che gli Israeliani assegnano al concetto di pace. L’Israeliano medio, interrogato su cosa intende per “pace”, dirà malinconicamente che è il modo in cui si vive a Roma, a Parigi, a Brouxelles, o a Londra; una felice condizione di assenza di tensioni per la possibilità di un’aggressione esterna, che il tragico e sfortunato destino della storia mediorientale nega a lui.

In altre parole l’anelito di pace dell’Israeliano medio deriva dagli elementi di incompiutezza del progetto coloniale sionista che, ammirevole per tutti gli altri aspetti, non è ancora riuscito a piegare definitivamente l’ostilità delle popolazioni indigene, che tutt’ora non si lasciano chiudere nelle riserve indiane come un Navaho qualsiasi nell’Arizona di oggi. Sarebbe molto meglio se l’Israeliano medio mettesse da parte i sospiri e si interrogasse molto seriamente su cosa è disposto a dare in cambio della pace, e sulle ottime ragioni che hanno avuto fino ad oggi i Palestinesi a dire no a  tutte le offerte che sono state fatte loro.

Ma l’apparente truismo del diritto di Israele alla sicurezza diventa politicamente insidioso quando viene fatto proprio — con appena un pizzico di ipocrisia in più — dalle elite politiche e intellettuali europee (teniamo fuori dal discorso gli USA, dove entrano in ballo numerosi altri fattori non presenti sullo scenario europeo). Il fatto che appaia lapalissiano che un Israeliano ha diritto di vivere “come si vive a Roma”, fa si che ogni singolo razzo Qassam che cade su Sderot fornisca il pretesto per l’ufficialità politico mediatica europea di lavarsi le mani di una situazione strutturalmente ingiusta per i Palestinesi, giustificando invece la successiva rappresaglia israeliana e chiudendo gli occhi sulle libertà che Israele strutturalmente si prende con il diritto internazionale e le Convenzioni di Ginevra sugli obblighi delle potenze occupanti sulle popolazioni controllate. Tutto ciò in nome della sicurezza.

Ma Israele non ha affatto diritto alla sicurezza. Ha tutt’al più il diritto di vivere in una regione pacificata dopo aver rinunciato a quegli atteggiamenti che rendono impossibile questa realizzazione.

I discutibili retaggi culturali della sinistra storica italiana vanno respinti con forza. Lavorare per un Medio Oriente in cui gli Ebrei di Israele possano sentirsi a casa loro, liberi dall’ansietà di chi, pur potendo contare su una schiacciante superiorità militare, non può  evitare di sentirsi sotto assedio, non implica affatto l’accettazione di una visione delle cose che spingeva gli operai comunisti di Torino a fare le collette per finanziare l’emigrazione degli Ebrei in Palestina. Il realismo politico di considerare la presenza ebraica in Palestina come un dato definitivo ed irreversibile non significa affatto riconoscere “il diritto di Israele ad esistere nella sicurezza”, perché nella tavola dei diritti, quelli di Israele non godono di nessun diritto di primogenitura. Parlo di “presenza ebraica in Palestina” per quel tanto di riguardo che si deve ai temi del dibattito sulla soluzione a due stati o a un solo stato, certo importante, ma anche assai aderente ai gusti di astratto formalismo degli occidentali, amanti del suono della propria voce e riluttanti a fare lo sforzo di vedere le cose con gli occhi di chi vive
là.

Quello che è certo è che prima di parlare dei diritti di Israele, va stabilito che l’unica pace possibile è quella in cui i parametri della soddisfazione esistenziale e dell’autorealizzazione, per gli Ebrei e per gli Arabi, come popoli e come individui, sono assolutamente gli stessi. Senza il sostanziale riconoscimento della comune umanità dei due, Israele non ha diritto a un bel niente.

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