“Lascerò la mia cella”


Al Hadaf. “Lascerò la mia cella”: un commovente messaggio del prigioniero Karim Younes, pochi giorni prima del suo rilascio.

Il prigioniero Karim Younes ha scritto una toccante lettera dalla sua prigione ad Hadarim, poche ore prima del suo rilascio, dopo aver trascorso 40 anni in prigionia.

È previsto che il prigioniero Karim Yunis venga rilasciato il 5 gennaio: fu arrestato il 6 gennaio 1983, prima che un tribunale sionista lo condannasse a morte, e la sua pena fosse ridotta all’ergastolo, che fu fissato a 40 anni.

Quello che segue è il testo del messaggio, così come trasmesso dall’avvocato Ghaid Qassem, al termine della sua visita questa domenica sera.

“Lascerò la mia cella, fra qualche giorno, e il terrore mi assale all’avvicinarsi di un mondo diverso dal mio, ed ecco che mi avvicino a un momento in cui dovrò attraversare le mie vecchie ferite, e i miei vecchi ricordi, un momento in cui posso sorridere di fronte alla mia vecchia immagine, senza provare rimorso, o lasciando andare, senza dover dimostrare l’ovvio che ho vissuto per quarant’anni, per dimostrare che posso adattarmi al mio nuovo specchio, e tornare a cantare con la mia gente ovunque l’inno del mio paese, l’inno dei fedayn… l’inno del ritorno e della liberazione.

“Ecco che sto per lasciare la mia cella oscura, nella quale ho imparato a non aver paura del buio, e nella quale ho imparato a non sentirmi alienato o solo, perché tra i miei fratelli, la fratellanza della costrizione e della sofferenza, la fratellanza dell’essere uniti da un giuramento e da un patto.   

“Esco dalla mia cella, e ho sempre desiderato uscirne, strappandomi la libertà, accompagnato dai fratelli di cammino, e dai compagni di lotta, immaginando un’accoglienza che esprima vittoria e grande conquista, ma mi ritrovo a non volerlo. Cercando di evitare il dolore della separazione, e la sofferenza dei momenti di addio ai fratelli ho pensato di completare la mia vita con loro, e sono decisamente coerente. La mia vita è come le montagne, e ogni volta che sento avvicinarsi l’ora dell’uscita, mi sento deluso e impotente, soprattutto quando guardo negli occhi alcuni di loro, dentro da più di trent’anni.

“Lascerò la mia cella e me ne andrò, ma la mia anima rimarrà con coloro che si aggrappano alle braci, che mantengono la fiamma della lotta palestinese integra, con coloro che non hanno e non saranno spezzati, ma gli anni della loro vita scivolano davanti a loro e dietro di loro, e ancora aspirano a vedere il sole della libertà come il resto della loro vita, prima che il loro desiderio di vivere diventi vacillante e in declino. Lascerò la mia cella, e i pensieri improvvisamente si affollano, danzano sulla soglia della mia mente e confondono la mia mente, quindi mi chiedo insolitamente perplesso per quanto tempo un prigioniero può portare il suo cadavere sulla schiena e continuare la sua vita mentre la morte gli cammina a fianco, e come questa sofferenza e questa morte lenta rimangano il suo destino per un periodo infinito, in un futuro sconosciuto, su un orizzonte bloccato. La speranza perduta e l’ansia aumentano da ciò che vediamo in termini di compiacenza e indifferenza, di fronte all’oppressione delle bande che possiedono uno stato, diventato brutale, ed approfittano del fallimento del mondo, incombendo su un popolo indifeso, la cui vita viene divorata ogni giorno senza che si renda conto che le sue ferite potrebbero non guarire, mentre tramonta la speranza di una vita tranquilla e stabile: eppure rimane solo il guizzo di un fiammifero ed è in grado di continuare. 

“Lascerò la mia cella, consapevole che la nostra nave è colpita da onde internazionali, da tutte le parti, tempeste regionali da est e da ovest, terremoti locali e vulcani aggressivi che stanno per inghiottirla, mentre si allontana dalla riva. Il suo capitano cercò di ancorarsi più di un quarto di secolo fa.

“Lascerò la mia cella, sottolineando che eravamo e siamo tuttora orgogliosi del nostro popolo, ovunque si trovi in patria e nella diaspora, che ha abbracciato noi e la nostra causa in tutti questi anni,  rimanendoci fedele,  sempre rinnovando la speranza e la ferma certezza nella giustizia della nostra causa, la sincerità della nostra appartenenza, la fattibilità e l’essenza della nostra lotta.

“Lascerò la mia cella, levando il cappello per una generazione che senza dubbio non è come la mia generazione, una generazione di giovani uomini e donne attivisti che hanno preso il comando della scena negli ultimi anni, una generazione che chiaramente è più forte, più audace, più coraggiosa e più meritevole di portare la bandiera. E chi è desiderosa di attuare i disegni del nostro popolo disperso e senza casa, perseguendo il suo diritto al ritorno e all’autodeterminazione, così benedetta, è questa generazione nascente, nonostante  le condizioni pressanti.

“Lascerò la mia cella, fra pochi giorni, e il terrore mi assale all’avvicinarsi di un mondo diverso dal mio, ed ecco che si avvicina il momento in cui devo da solo  attraversare le mie vecchie ferite, e i miei vecchi ricordi, un momento in cui posso sorridere alla mia vecchia immagine, senza provare rimorso o senso di  abbandono. Senza dover dimostrare l’ovvio che ho vissuto per quarant’anni, per trovare una mia nuova immagine, per tornare a cantare con la mia gente ovunque l’inno del mio paese, l’inno dei fedayn…..l’inno del ritorno e della liberazione.


Traduzione Fares, Grasso