Le celebrazioni di Balfour: il colonialismo e la sua propaganda sono ancora presenti

Memo. Di Ben White. Il centesimo anniversario della Dichiarazione Balfour significa molte cose, ma non dovrebbe passare senza far notare come, nel 2017, gli amici di Israele giustifichino ancora il progetto sionista con lo stesso lessico del colonialismo, esattamente come facevano 100 anni fa.

A fine ottobre si è tenuto un dibattito in Parlamento sul “Centenario della Dichiarazione Balfour” aperto da Matthew Offord, Deputato Parlamentare Conservatore per Hendon.

Durante la discussione, il collega, il deputato Jonathan Djanogly (Huntingdon), ha espresso stupore per lo Stato di Israele, “nato dal deserto”; Offord ha replicato, con entusiasmo, dicendo che i traguardi scientifici raggiunti da Israele stanno infatti “avvenendo in un posto che, non molto tempo fa, era semplicemente un deserto, come dice il mio amico onorevole”.

(Onore alla deputata Joanna Cherry, che ha criticato i commenti di Offord: “Il popolo palestinese costituiva quasi il 90% della popolazione in Palestina nel 1917. La terra non era, come ha detto l’On. di Hendon, deserta. Era fatta di città e villaggi…”).

Una lunga tradizione descrive la Palestina come “vuota”, tradizione portata avanti tanto in Parlamento quanto in qualunque altro posto (forse anche di più). I sionisti hanno “trasformato il deserto in frutteti”, ha affermato Lord Mitchell in un dibatto nel 2014; hanno “fatto sbocciare il deserto”, ha ribadito la Baronessa Deech nel 2015.

Tali chiarimenti non sarebbero risultati fuori posto un secolo fa, nei primi anni dell’occupazione britannica. Nel 1922 Wiston Churchill aveva detto al Parlamento che “chiunque avrebbe visitato la Palestina recentemente avrebbe visto come parti di deserto sono state trasformate in giardini”.

Aveva poi aggiunto: “Lasciati a loro stessi, gli arabi palestinesi non avrebbero fatto alcun passo efficace, nemmeno in 100 anni, verso l’irrigazione e l’elettrificazione della Palestina, ma piuttosto sarebbero stati contenti di stabilirsi…nelle pianure assolate”.

Il 25 gennaio 1937 avvenne la seconda lettura dello “Empire Settlement Bill”, avente come oggetto il sostegno all’immigrazione verso i “domini” britannici – Canada, Australia, Sudafrica e altri.

Il dibattito è una deviazione doverosa in e di per se stesso: un deputato ha sottolineato l’urgenza di una “ripresa dell’immigrazione verso l’Australia”, i cui coloni “sanno che…tra loro e noi ci sono i milioni di abitanti dell’Asia”.

Ha continuato dicendo: “Hanno adottato una politica di ‘Australia Bianca’ poiché si rendono conto che se aprissero le porte all’immigrazione di colore… sarebbero completamente sommersi. Hanno riconosciuto che la politica della ‘Australia Bianca’ è l’unica alternativa all’estinzione razziale”.

Ma torniamo alla Palestina che, come suggerisce un deputato, è stato un esempio che vale la pena ricordare.

“Era un paese totalmente spopolato – ha affermato -. In ogni caso, vi erano alcuni ebrei, ma in seguito alla Dichiarazione Balfour che la rese la nuova casa per gli ebrei, negli ultimi anni la Palestina ha prosperato”.

Il preciso significato del famoso slogan “una terra senza un popolo per un popolo senza una terra” può essere dimenticato. L’attivista sionista Israel Zangwill, per esempio, aveva riconosciuto che era “letteralmente inesatto” descrivere la “Palestina come un paese senza un popolo”.

Tuttavia, aveva proseguito, farlo è stato “essenzialmente corretto, dal momento che non c’è un popolo arabo che viva in simbiosi intima con il paese, che utilizzi le sue risorse e che lo etichetti con un’impronta caratteristica: c’è, al massimo, un accampamento arabo”.

Queste linee di pensiero erano comuni sia tra i sionisti che tra gli ufficiali britannici. Aaron David Gordon, co-fondatore di Hapoel Hatzair (“Il giovane lavoratore”) nel 1918 scrisse:

“La nostra terra, che nei tempi andati ‘abbondava di latte e miele’ è diventata più povera, desolata e abbandonata di qualsiasi altro paese civilizzato, ed è quasi inabitabile. Ciò in qualche modo conferma il nostro diritto alla terra, un suggerimento che la terra ci aspetta”.

Edward Said inserì tali pensieri nel contesto dell’insediamento coloniale europeo. “Tra le presunte distinzioni giuridiche tra popoli civilizzati e non”, scrisse “c’era un’attitudine verso la terra, quasi una dossologia, che teoricamente era sconosciuta alle popolazioni non civilizzate”.

“Un uomo civilizzato, si credeva, poteva coltivare la terra poiché significava qualcosa per lui; su di lei, di conseguenza, sviluppava arti e mestieri utili, creava, otteneva, costruiva. Per un popolo non civilizzato, la terra era o coltivata male (i.e. in maniera non efficiente per gli standard occidentali) o lasciata a marcire.

Da questo “cordone di pensieri”, continuava Said, “a intere società native che vivevano sui territori americani, africani e asiatici per secoli è stato negato il diritto di vivere su quella terra”.

La testimonianza fornita da Churchil nel 1937 alla Commissione Peel riunisce tutti questi pensieri in modo istruttivo. Il sionismo era una forza per il bene, disse, dal momento che la Palestina “non sarà mai coltivata dagli arabi”.

Continuava: “Non ammiro, per esempio, il grande torto che fu fatto agli indiani pellerossa d’America o ai neri d’Australia. Non ammetto che sia stato fatto loro un torto, ma il fatto che una razza più forte…arrivò e prese il loro posto”.

In un’intervista recente, l’attuale Conte di Balfour ci ha fornito un’espressione piuttosto esplicita della visione mondiale coloniale che ha dato forma alla dichiarazione dei suoi antenati, e le sue giustificazioni contemporanee.

“Dovete guardare la Palestina com’era”, ha detto a un giornalista israeliano. “Un deserto, una palude infestata dalle zanzare. I palestinesi si prendevano cura delle loro capre e pecore”.

Dopo un breve e goffo riconoscimento che “c’è stata ovviamente un po’ di resistenza da parte dei palestinesi indigeni”, il Conte è tornato su un campo più confortevole: “Ma a guardarla bene, era fondamentalmente una grande terra disabitata”.

Per i palestinesi, le celebrazioni di Matthew Offord e del Conte Balfour sono un promemoria – non che ce ne sia bisogno – di come, per citare la famosa frase di William Faulkner, il passato coloniale non è passato.

Traduzione di Giovanna Niro