Le condizioni nelle carceri israeliane uccideranno i prigionieri palestinesi ancor prima del coronavirus

MEMO. I prigionieri palestinesi si trovano oggi intrappolati a combattere su due fronti: da una parte contro la pandemia del coronavirus, e dall’altra contro le terrificanti condizioni delle carceri di Israele; stanno morendo cercando di sopravvivere. 

Fino ad ora, quattro prigionieri palestinesi sono risultati positivi al coronavirus, ma si prevede che il loro numero possa aumentare notevolmente. Un altro detenuto è risultato positivo al virus alcuni giorni dopo essere ritornato in libertà. 

Nelle carceri israeliani sono presenti circa 5.000 prigionieri politici palestinesi, secondo l’organizzazione per i diritti dei prigionieri Addameer. 

Oltre 700 prigionieri nelle carceri di Israele, donne e uomini, necessitano di assistenza sanitaria importante – 17 dei quali sono in condizioni critiche nell’ospedale penitenziario di Ramla che manca di adeguati standard di assistenza medica. 

La maggior parte di loro si trova accalcata in spazi ristretti, nei quali non si riesce a praticare nessuna forma di distanziamento sociale. Vengono lasciati senza le necessarie dotazioni di pulizia e cure mediche che garantiscono la loro sicurezza anche da un contagio meno letale di quello che è il coronavirus, potenzialmente fatale. 

Numerose associazioni hanno messo in guardia sul fatto che sarebbe sufficiente una sola persona infetta per diffondere il virus tra tutta la popolazione carceraria, provocando una tragedia immane. 

Nonostante le richieste di rilascio dei prigionieri per poter salvare delle vite, le autorità israeliane non se ne vogliono assumere la responsabilità e placano le preoccupazioni internazionali dicendo di proteggere i prigionieri palestinesi. 

Al contrario, Israele sta utilizzando il pretesto del coronavirus per incrementare il suo abuso sui detenuti palestinesi imponendo restrizioni ancora piú dure nei loro confronti. Il Servizio Penitenziario Israeliano (SPI) ha limitato le visite dei prigionieri ammalati e feriti presso le cliniche mediche ed ha annullato tutti i loro controlli nonostante molti soffrano per i sintomi del virus. 

Ha anche vietato le comunicazioni dirette tra i rappresentanti legali ed i prigionieri palestinesi, permettendo di contattare i loro clienti soltanto al telefono, non mettendoli in grado di poter valutare accuratamente la salute e la sicurezza dei detenuti. 

Sono stati riferiti casi di detenuti a cui è stato negato l’accesso ai prodotti di pulizia e a cui è stato detto di usare i calzini al posto delle mascherine per il volto. Ciò si aggiunge alle mense delle carceri che hanno smesso di fornire 140 prodotti, comprese le forniture necessarie per la pulizia. 

Il direttore del Centro Studi sui Prigionieri, Raafat Hamdouna, ha riferito che la politica israeliana di negligenza medica si compone di quattro elementi: carenza intenzionale di visite mediche periodiche, mancanza di medicinali adeguati, mancanza di test di laboratorio e il differimento di interventi chirurgici urgenti. 

Ha inoltre aggiunto che le autorità israeliane impediscono l’invio di medicinali ai prigionieri da parte del Ministero della Sanità Palestinese. 

Mentre cresce l’allarme per il pericolo che rappresenta il virus per i carcerati, molti hanno dimenticato le torture e le mancanze di cure mediche che hanno ucciso i detenuti palestinesi fin dal 1967. 

Da allora, almeno 222 prigionieri palestinesi sono deceduti nelle carceri israeliane; ed almeno 65 a causa della carenza di assistenza medica, secondo il Gruppo dei Prigionieri Palestinesi. 

Alla fine dell’anno scorso, il prigioniero politico Sami Abu Diak è morto di cancro allo stadio terminale ed è stato vittima di insufficienza renale e polmonare mentre si trovava in detenzione. Le povere ed inumane condizioni carcerarie e la deliberata negligenza medica hanno causato la diffusione del tumore nel corpo del trentaseienne. 

Abu Diak ha subito varie operazioni chirurgiche ed ha avuto una serie di complicazioni, tuttavia le autorità di occupazione israeliane si sono rifiutate di rimetterlo in libertà per motivi umanitari. 

Coloro che sopravvivono durante i, spesso, decenni di detenzione, vivono le loro vite con malattie protratte nel tempo che li accompagnano per sempre. Si tratta di un lento omicidio. 

Precauzioni per proteggere le vite dei prigionieri non sono mai state prese per anticipare la diffusione della malattia altamente contagiosa. È davvero così scioccante che nulla sia cambiato? 

Nell’arco dei decenni i Palestinesi hanno perso la vita a causa della negligenza medica in carcere, mentre la Commissione per gli Affari dei Prigionieri ha spiegato che il 95 percento dei detenuti è soggetto a torture fin dal momento dell’arresto. 

Queste continuano durante gli interrogatori ed anche dopo che i prigionieri vengono smistati nei luoghi di detenzione. 

Invece di accedere ai trattamenti ospedalieri, molti sono spesso tenuti in isolamento. 

Le diagnosi errate sono molto comuni, come ha sottolineato Ehteram Ghazawneh, coordinatore dell’unità di documentazione e ricerche di Addameer. Queste ritardano l’accesso dei carcerati ai trattamenti necessari che, in molti casi, provocano la morte, ha quindi spiegato. 

I detenuti hanno affermato di aver pianificato un’azione contro la situazione detentiva; ciò si concretizza spesso in scioperi della fame, che li lasciano indeboliti ed ancora più esposti alla malattia. 

L’assenza nel SPI di misure sanitarie che proteggano i detenuti palestinesi durante la pandemia globale rende ancora più palese che Israele intende trarre vantaggio dal virus mortale per liberarsi del suo problema palestinese. 

Mentre il mondo si preoccupa cercando di fronteggiare la diffusione rapidissima del letale coronavirus, i Palestinesi continuano a dover combattere per sopravvivere in una realtà che non soltanto ha lasciato i loro prigionieri all’occupazione, ma li ha anche lasciati più vulnerabili alle malattie che avrebbero potuto essere state curate, se solo si fosse trattato di israeliani.

Traduzione per InfoPal di Aisha Tiziana Bravi