Le cripte di Shatila, dimora della Nakba

Al-Manar. Di Somayya ‘Ali.

Campo di Shatila, 15 maggio 1948: questa data sembra presente perfino nei loro lineamenti. Si possono incontrare nei campi della diaspora, il luogo in cui vivono dopo molti anni di attesa di ciò che è stato loro presentato come il ritorno, e che col tempo è diventato il loro sogno silenzioso, che continua a sostenerne la sopravvivenza in quegli stretti vicoli.

Quando parli loro della Nakba (catastrofe), hai l’impressione di parlare con dei corpi immaginari, come se essi fossero stati trattenuti nella loro patria, in Palestina, insieme agli aranci e agli ulivi  ancora profondamente radicati nel terreno, come la memoria. Il loro immaginario è rimasto ancorato lì, in una dimensione senza tempo, desideroso di veder tornare il popolo della diaspora per trasformare un momento di noia in uno scatto di fanciullo.

L’inizio… Quando l’”Esercito della salvezza” ordinò di andarsene

Nel campo di rifugiati palestinesi di Shatila, nella capitale libanese, Beirut, non c’è nulla che ricordi la Palestina. Camminiamo attraverso i vicoli, poco luminosi anche quando il sole splende, data la fitta sovrapposizione delle abitazioni costruite a caso. Siamo diretti verso la casa di Abu Ahmad Ibadi, della generazione della Nakba, ma raggiungerla è difficile anche per i residenti del campo che ci accompagnano, tanto simili, disordinati e miseri sono i vicoli. Sulla porta della sua casa “temporanea”, come Abu Ahmad la definisce, egli ci accoglie con un sorriso che si spalanca attraverso le pieghe dei suoi 80 anni. Ci sediamo nel suo posto preferito, ci viene servito il caffè, e forte come il suo aroma ci appare il patrimonio palestinese. Abu Ahmad prende la carta d’identità e legge ad alta voce: “Sono Muhammad Ibadi, degli arabi di ar-Ramle, nel distretto di Haifa. Sono nato nel 1934”.

Dopo di che l’anziano ospite salta 60 anni indietro: “Lasciai Akko, in Palestina, dopo che la mia famiglia vi si stabilì in fuga da Haifa, occupata dai sionisti all’inizio della Nakba. Avevo 13 anni e raggiunsi Beirut per proseguire gli studi”. Abu Ahmad si interrompe un istante, a raccogliere il filo della memoria. “Quando eravamo ad Akko, precisamente in piazza Naji, il cosiddetto ‘Esercito della salvezza’ (Esercito arabo di liberazione, colluso con gli ebrei contro i palestinesi) formato dalle armate dei paesi vicini, entrò in città. Le truppe gridavano: ‘Oh fratelli palestinesi! Emigrate per due settimane’. Dissero proprio così: ‘Emigrate per due settimane.’ Noi emigrammo per decenni e il ritorno in patria divenne un sogno”.

L’uomo, continuando a raccontare gli avvenimenti collegati alla Nakba, aggiunge: “In seguito all’occupazione di Akko, i miei genitori fuggirono a Majd al-Kroum, da dove poi scapparono a piedi quando i gruppi armati dell’Irgun e dell’Haganah vi fecero irruzione. I miei genitori lasciarono la Palestina a piedi nudi. Vi lasciarono tutto, anche la speranza.” A questo punto Abu Ahmad si interrompe e ci accompagna all’ingresso di casa. “Non voglio morire come un rifugiato. Voglio essere sepolto in Palestina, non altrove. Ma non ho fiducia nella Primavera araba. Di quali cambiamenti si parla! La Palestina è il grande assente nella coscienza araba”.

Non lontano dalla casa di Abu Ahmad, abita Ahmad Abu Naaj, un altro palestinese della generazione della Nakba. Quando egli ci parla del suo paese, As-Saffouri, nella provincia di Nazareth, l’infanzia appare con un baluginio sul suo volto. “Gli ulivi e i melograni sono molto diffusi, laggiù. Avevo sei anni ma ricordo ancora i boati dei bombardamenti aerei che colpivano il mio paese: e ricordo ancora come eravamo dispersi nelle fattorie, senza cibo per giorni, prima di arrivare a Bint Jbeil, nel sud del Libano”. Durante una camminata per il campo, Ahmad ci racconta  che lui e la sua famiglia sono solo dei residenti, in Libano. “A ogni membro della mia famiglia è stata offerta la nazionalità libanese, ma nessuno ha accettato. Siamo stati costretti a venire qui, dopo essere stati rassicurati che avremmo fatto ritorno alle nostre case, tempo un mese o due. Rifiutiamo categoricamente l’insediamento, il tawtin, chiediamo solo il rispetto dei diritti umani: la nostra nakba è ancora in corso”.

Dalla Palestina verso la diaspora: sognare per sopravvivere

Pochi istanti dopo aver camminato lungo i vicoli simili a tunnel, raggiungiamo i “Sogni di un rifugiato”, centro in cui si trasmettono ai bambini del campo le conoscenze relative al patrimonio del proprio paese. Vi si raccolgono i resti della Palestina attraverso le storie dei nonni, con la mediazione di Jalal ‘Abdulhadi, 20enne impiegato presso il centro. Jalal conosce Akko attraverso i racconti di suo nonno, che la lasciò durante la Nakba. Egli ritiene che la sua generazione viva una Nakba ben diversa da quella storica. “Abbiamo smarrito il senso di appartenenza. Nelle nostre menti c’è una presunta nazione che non conosciamo. Abbiamo perso la nostra identità, siamo solo dei rifugiati che vivono nel caos e nella miseria”, egli sostiene.

Sobhi Afifi, responsabile del centro, si rifiuta di arrendersi alla realtà del rifugiato. “Lavoriamo al fine di sostituire la giornata della Nakba con la giornata del Ritorno in Palestina. Non è così complicato, ma dobbiamo iniziare da noi stessi per porre fine alla divisione in fazioni e riunire e riconquistare la nostra terra”, ci spiega. Sobhi, diplomato in contabilità e gestione aziendale, è disoccupato perché è un rifugiato. La sua nakba è questa, ma egli non vuole arrendersi. “C’è una speranza che sboccia dal mio paese, Yagour, nella provincia di Haifa, il luogo degli agrumeti in cui il martire ‘Izz ad-Din al-Qassam è sepolto. Io non mi sento senza dimora”, aggiunge.

Ciò che fu preso con la forza sarà riconquistato con la forza: la fine della Nakba.

Sono trascorse due ore da quando siamo entrati nel campo di Shatila. Uscendo, da lontano ci appare come una macchia staccata da ciò che lo circonda. E’ come se la Nakba si fosse stabilita lì perché i fatti hanno superato la forza del tempo. Ahmad Abu Naaj, critico rispetto alla realtà palestinese, racconta: “Ciò che fu preso con la forza sarà riconquistato con la forza, disse una volta ‘Abd an-Nasser. Solo questo potrà restaurare la Palestina”. Egli è critico riguardo alla realtà palestinese, che si è dimostrata incapace di “dimostrare l’unità necessaria a produrre una forte e organizzata azione di resistenza, capace di costringere l’occupante ad arrendersi, anziché continuare ad arrenderci noi palestinesi. Dopo la Nakba di maggio viviamo ancora tante catastrofi”.

Traduzione per InfoPal a cura di Stefano Di Felice