Le fortune perdute dei mercanti della Palestina dell’era ottomana

346829CMa’anI palazzi in pietra rosa nascosti nella moderna geografia urbana di Gerusalemme –circondati da un muro di cemento armato di 8 metri ridipinto dagli insediamenti israeliani- contengono una ricca storia non raccontata del fenomenale successo globale: i mercanti-pionieri della città del 19° secolo.

Nella relativa fluidità geografica dell’Impero Ottomano, molto prima della creazione dello Stato d’Israele e della successiva occupazione militare, una classe mercantile emerse dalla storica città palestinese che avrebbe trasportato l’immagine della Terra Santa al resto del mondo con oggetti devozionali prodotti dall’artigianato locale.

“Si potrebbero trovare oggetti betlemiti nelle Filippine, in Australia, in Sudan, in Russia, in Ucraina, e in tutte le Americhe”, ha riferito a Ma’an Jacob Norris, un docente di Storia Medio Oriente presso l’Università del Sussex.

“Era come un marchio che poteva essere riconosciuto in tutto il mondo”.

L’avvento del treno a vapore, le ferrovie, le nuove tecnologie di comunicazione dalla metà alla fine del 19° secolo, hanno costituito  un momento critico nella crescente interconnessione del mondo, e i  mercanti di Betlemme hanno sfruttato al meglio un’epoca che avrebbe poi gettato le basi del consumismo di massa.

A partire dal 1850, i commercianti hanno iniziato rompendo il tradizionale metodo di vendere oggetti devozionali attraverso l’ordine francescano – che avrebbe mandato i prodotti a Gerusalemme, dove sarebbero stati spediti via San Giovanni d’Acri – spostando i loro occhi sui mercati globali recentemente accessibili.

Norris, la cui ricerca si concentra sulla migrazione palestinese e la sua connessione con la storia globale, afferma che l’impresa costituiva un incredibile successo.

“I negozi santi di Betlemme e i bazar della Terra Santa sono stati ritrovati a Manila, Kiev, e Città del Messico. E’ stato un marchio replicato in tutto il mondo”.

I prodotti stessi – quelli di base erano crocifissi, rosari, candeliere e scatole – erano stati prodotti a Betlemme per secoli, ma la città aveva anche la reputazione di essere un centro artigianale, utilizzando forme locali di intaglio e materie prime originali, come la madreperla.

“Al livello più alto di tale produzione si riconoscono delle squisite opere d’arte, alcune tra le più sorprendenti che vennero fuori dal Mediterraneo orientale tra il 18° e il 19° secolo”.

Gli oggetti artigianali prodotti nel tardo 19° secolo sono ormai dei pezzi da collezione – il cui prezzo all’asta arriva fino a $ 30.000  – e modelli intricati delle chiese della Palestina adornano dimore storiche e musei in tutta l’Europa e il Nord America, come il Palazzo Pitti a Firenze e il British Museum, continua Norris.

“Si potrebbe dire che stavano commercializzando lo status di Terra Santa, ed in qualche modo, tutto il 19° secolo si incentra sulla commercializzazione della vita”.

Mercantilismo spirituale

Questa classe emergente, che Norris chiama i “nouveau riche” della Palestina di fine 19° e 20° secolo, ha avuto un profondo impatto sulle dinamiche sociali locali e le relazioni di potere.

Le élite più antiche, in particolare quelle dalle grandi città della Palestina, hanno a lungo dominato la nobiltà terriera attraverso i loro privilegi economici, sociali e politici.

“All’improvviso sono apparsi questi nuovi parvenu di Betlemme che tornavano e costruivano questi sontuosi palazzi nella città”, dice Norris.

Un esempio degno di nota è il palazzo Jacir a Betlemme, ora un hotel, che è stato costruito dal commerciante Suleiman Jacir nel 1910 dopo l’accumulare di una fortuna in ornamenti di perle.

A sostenere il grande successo economico dei mercanti sui mercati esteri è stata una spiritualità profonda, poiché gli oggetti possedevano un vero e proprio valore religioso per entrambi, sia per  gli acquirenti che per i venditori.

«Sono dei commercianti brillanti, ma allo stesso tempo nella loro vita privata sono persone profondamente religiose con una fede nella magia e nella spiritualità”.

Come parte della sua ricerca, Norris ha letto i diari dei mercanti di Betlemme e ha parlato con i loro parenti ancora in vita in città.

La storia di uno dei commercianti di maggior successo, Jubreal Dabdoub – che ha fatto fortuna nelle Filippine e Parigi – si distingue come una rappresentazione del momento spirituale che sta dietro le loro fortune.

Nel 1909, secondo la storia, Dabdoub era stato dichiarato morto, vittima di tifo, quando una suora palestinese, Maria Alfonsina Ghattas – che è stata beatificata dal Vaticano all’inizio di quest’anno – lo riportò in vita.

Il racconto del miracolo, che è ben noto tra le generazioni più vecchie di Betlemme, ricorda che mentre giaceva morto circondato dai parenti in lutto e da un sacerdote, la Ghattas immerse un rosario nell’acqua santa e cominciò a pregare, ed è lì che il commerciante è tornato in vita.

“La cosa più interessante di tutta la storia è il potere del rosario che lo riporta in vita. Questo è un uomo che ha fatto fortuna vendendo rosari che hanno questo significato spirituale profondo”, dice Norris.

La globalizzazione in senso inverso

Questa era commerciale d’oro, che ha portato una ricchezza enorme alla città di Betlemme, sembra quasi inimmaginabile oggi, malgrado la naturale posizione della città come centro commerciale e turistico per la sua importanza storica e religiosa.

Il costante declino del collegamento della Palestina con il mondo risale al governo britannico, in particolare alla metà degli anni ‘20, quando le autorità del Mandato Britannico, come gli altri Stati coloniali europei, hanno introdotto leggi restrittive sulla cittadinanza e hanno cercato di monitorare e controllare la popolazione indigena.

“Ci si sposta in una località post-prima guerra mondiale: se in precedenza l’Impero Ottomano, con tutti i suoi difetti, era uno spazio relativamente aperto, il dominio francese e britannico scolpisce la regione con l’imposizione di nuovi confini e nuove tecnologie che controllano le frontiere”.

La Gran Bretagna cercò di controllare le frontiere, e il risultato per i palestinesi che erano emigrati – in particolare i cristiani di Betlemme e Beit Jala – fu il loro restare bloccati nella Mahjar, ossia nella diaspora.

Nel 1920, degli oltre 9.000 betlemiti che fecero domanda di cittadinanza per poter tornare alle loro case in Palestina, solo 100 furono accettati dalle autorità coloniali britanniche, dice Norris.

“Questo processo diviene sempre più evidente se si procede verso la guerra del 1948 e, ovviamente, verso la divisione della Palestina storica in ciò che diventa Israele e quindi la Cisgiordania e Gaza”.

Gli Accordi di Oslo del 1993 hanno ulteriormente suddiviso Palestina nei cantoni più piccoli delle aree A, B, e C, rappresentando il culmine di un processo storico di scomparsa fisica della Palestina e delle successive restrizioni di movimento per la sua popolazione.

“Esiste un assioma secondo cui, con il procedere della storia, il mondo diverrà sempre più globalizzato, ma nel caso di certo Betlemme, la globalizzazione ha raggiunto il suo picco intorno al volgere del 19/20° secolo”, dice Norris.

Per Betlemme, il successo dei commercianti dell’era ottomana è un esempio lampante di come il processo di globalizzazione è stato eseguito in senso inverso. La città è tagliata fuori dalla sua gemella Gerusalemme dal muro di separazione ed è accessibile solo attraverso un posto di blocco che richiede un permesso rilasciato dal governo israeliano.

Insediamenti unicamente ebraici punteggiano la campagna circostante, limitando l’espansione della città e assorbendo terreni agricoli, e ai rifugiati palestinesi della Nakba del 1948 rimangono solo tre campi densamente popolati nella città.

“Il vostro bis, bis, bis nonno si muoveva nei mesi, dentro e fuori la città, tra America Latina, Asia orientale, Betlemme, e in altre parti dell’impero ottomano”, dice Norris.

“Oggi è molto più di una ardua scelta. O rimani e metti in pratica la sumud (fermezza), soffrendo tutte le difficoltà che questa comporta, o emigri e vivi nella diaspora. L’una o l’altra cosa, non entrambe”.

Traduzione di Domenica Zavaglia