Le proteste “democratiche” di Israele difendono un sistema di apartheid

The Electronic Intifada. Di Amjad Alqasis. Centinaia di migliaia di israeliani manifestano da mesi contro le riforme giudiziarie proposte dal loro governo.

Eppure le loro proteste non menzionano il trattamento disumano dei palestinesi, l’espansione degli insediamenti o il fatto che vivono in uno stato di apartheid. Gli israeliani protestano per paura di perdere il proprio status politico e i propri privilegi.

L’incongruenza della situazione è la chiave per comprendere la natura dell’ideologia sionista dello stato israeliano. I manifestanti temono di perdere i loro diritti democratici, eppure mantengono il silenzio sulla continua repressione dei palestinesi da parte dello Stato.

Nel mezzo di queste proteste l’esercito israeliano continua ad attaccare i quartieri palestinesi e i campi profughi e gruppi di coloni israeliani bruciano case e negozi nei villaggi palestinesi, gridando morte agli arabi, come a Huwwara o a Turmus Aya.

Ma i manifestanti israeliani non sono indignati da questi incidenti; non li menzionano nemmeno. I manifestanti non riconoscono il paradosso del loro raduno e difendono i propri principi democratici mentre il loro Stato occupa e colonizza la Palestina.

Questa non è una sorpresa. Anzi, è la base stessa dello Stato di Israele.

Trasferimento forzato della popolazione.

Il movimento sionista è stato brutale fin dall’inizio poiché ha cercato di colonizzare la massima quantità di terra con un numero minimo di abitanti indigeni palestinesi.

Ha raggiunto questo obiettivo attraverso il trasferimento forzato della popolazione: un crimine contro l’umanità che è sempre stato un principio del sionismo politico. Yosef Weitz, direttore del Dipartimento per gli insediamenti fondiari del Fondo nazionale ebraico, scrisse nel 1940 che “non c’è altro modo che trasferire gli arabi (palestinesi) da qui ai paesi vicini, trasferirli tutti”. Uno dei primi pensatori sionisti, Israel Zangwill, affermò nel 1916: “Se desideriamo dare un paese a un popolo senza paese, è una totale follia permettere che sia il paese di due popoli”.

Nonostante questi principi fondanti, il movimento sionista e il governo israeliano hanno cercato di apparire moderni e democratici. Ma l’obiettivo è sempre stato quello di creare un Paese esclusivamente per il popolo ebraico.

A tal fine centinaia di migliaia di persone furono sfollate con la forza tra il 1948 e il 1967, e lo stato ha successivamente applicato una strategia che Badil, un gruppo per i diritti dei palestinesi, definisce “trasferimento silenzioso”. Silenzioso nel senso che Israele evita in gran parte l’attenzione internazionale sfollando le persone su base settimanale creando situazioni di vita insostenibili per i palestinesi.

Ciò si riscontra nella Gerusalemme Est occupata, dove la maggior parte delle richieste palestinesi di permessi di costruzione vengono respinte dalle autorità israeliane.

La popolazione palestinese di Gerusalemme ha dovuto espandersi in aree non destinate alla residenza palestinese dallo Stato di Israele. Costringendo i palestinesi a costruire senza adeguati permessi di costruzione, il sistema di pianificazione territoriale a zone di Israele pone le case palestinesi sotto la costante minaccia di demolizione.

La politica israeliana di trasferimento silenzioso è incarnata in ogni aspetto dello Stato: governance e applicazione dei diritti di residenza, regolamentazione delle risorse naturali e applicazione della giustizia. Israele usa il suo potere per discriminare i palestinesi e, in definitiva, per sfollare la popolazione indigena non ebraica dalla Palestina storica.

“Legalizzazione” dello spostamento.

Lo sfollamento dei palestinesi continua ogni giorno, ma non è sempre silenzioso.

La versione più aggressiva della politica di sfollamento di Israele si vede nella discussione aperta dei politici sull’occupazione dei luoghi santi. Lo scorso maggio il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha dichiarato che Israele è “responsabile” di Haram al-Sharif.

Questo è stato solo uno dei tanti casi in cui i politici israeliani hanno sostenuto o incitato alla violenza contro i palestinesi.

Il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich, poi, ha dichiarato a marzo: “Penso che il villaggio di Huwwara debba essere cancellato”. E i funzionari statali hanno discusso a lungo sulla deportazione di gran parte della popolazione palestinese nel Sinai in Egitto.

Sembra che la creazione dello Stato di Israele non sia ancora completa poiché Israele adotta leggi per limitare ulteriormente le libertà pubbliche e demonizzare la resistenza palestinese come terrorismo.

La Legge sullo Stato-Nazione del 2018, ad esempio, ha codificato pratiche israeliane di lunga data. Vi si afferma apertamente che il diritto di “esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele spetta esclusivamente al popolo ebraico”.

La legge ha reso visibile al mondo lo squilibrio fondamentale tra l’essere sia uno stato democratico che uno stato ebraico. In sostanza, la legge dichiara che se c’è scontro tra il carattere ebraico e quello democratico dello Stato, l’ebraicità precede quest’ultimo.

Una restrizione così grave sui principi democratici è in diretta contraddizione con il mantra decennale di Israele unica democrazia in Medio Oriente.

La legge era un modo per i leader israeliani di dimostrare il loro impegno verso la causa sionista. La legge sui comitati di ammissione del 2011 è un altro esempio di legge utilizzata per imporre l’apartheid israeliano. La legge consente ai villaggi del Naqab di respingere i residenti palestinesi sulla base del fatto che sono “inadatti” alle città ebraiche.

Un emendamento del 2023 a tale legge ne ha ampliato la portata per consentire a più villaggi di discriminare i palestinesi, dimostrando ulteriormente che Israele non è interessato a nascondere le sue politiche segregazioniste.

Tutte le istituzioni israeliane, inclusa la più alta corte israeliana, perseguono l’obiettivo di colonizzare la Palestina. La spina dorsale del sistema che i manifestanti israeliani stanno difendendo è un sistema di apartheid che sta diventando sempre più evidente.

Amjad Alqasis è un ricercatore legale e membro della rete NAS per il sostegno alla difesa del Badil Resource Center per la residenza palestinese e i diritti dei rifugiati.

Traduzione per InfoPal di Stefano Di Felice