Le testimonianze dei soldati israeliani: nel conflitto di Gaza si sparava per uccidere

329811CBetlemme-Ma’anLunedì, la pubblicazione delle testimonianze di oltre 60 soldati israeliani e ufficiali coinvolti nel conflitto della scorsa estate nella Striscia di Gaza ha destato una profonda preoccupazione in merito all’effettivo rispetto da parte dell’esercito israeliano dei principi fondamentali del diritto umanitario internazionale.

Le dichiarazioni, raccolte dall’organizzazione di vigilanza sull’esercito israeliano Breaking the Silence, riferiscono di aree abitate da civili colpite in modo indiscriminato, di ordini di considerare chiunque si trovasse nella Striscia di Gaza una «minaccia» e di abitazioni bombardate per vendetta e non per fini militari.

Numerosi soldati hanno raccontato di aver ricevuto l’ordine di «sparare per uccidere» chiunque avvistassero, mentre ad altri veniva ordinato di sparare da terra e dall’alto per «segnalare la presenza» di attività militari in una determinata zona.

«Dalle testimonianze dei soldati e degli ufficiali emerge il quadro preoccupante di una politica volta a far fuoco in modo indiscriminato e che ha causato la morte di civili innocenti. Da queste dichiarazioni capiamo che le regole di ingaggio delle Forze di difesa israeliane non rispettano affatto i principi etici e questa inosservanza proviene dai vertici del comando e non è il semplice risultato di incidenti marginali» ha affermato Yuli Novak, direttore di Breaking the Silence.

Lo scorso mese, una ONG con sede a Londra ha riportato che l’esercito israeliano, durante il conflitto nella Striscia di Gaza, ha lanciato 19.000 colpi d’artiglieria altamente esplosivi. Rispetto all’operazione Piombo Fuso, l’uso di artiglieria esplosiva ha registrato un aumento del 533%, con una media di 680 proiettili d’artiglieria per ogni giorno di combattimento.

Oltre alla frequenza e alla quantità, si registra anche la totale assenza di aree di sicurezza volte a limitare i danni dei proiettili d’artiglieria e, secondo alcune testimonianze, è chiaro che esplosivi mortali sono stati utilizzati per vendetta.

In occasione della morte di un loro comandante, un sergente maggiore del Corpo corazzato israeliano avrebbe ordinato ai suoi soldati di «sparare come si fa ai funerali, ma con colpi d’artiglieria e puntando alle case».

«Non era [sparare] in aria. Si trattava semplicemente di scegliere [dove sparare]» ha affermato il soldato nell’intervista. «Il comandante del mezzo corazzato disse “Scegliete la casa più lontana, farete il danno maggiore”. Era una sorta di vendetta».

Secondo il rapporto, le attività militari non dovevano svolgersi nelle aree in cui si registrava la presenza di civili. Tuttavia, le testimonianze dimostrano che, durante il conflitto dei cinquanta giorni, ai soldati israeliani sono state fornite informazioni fuorvianti che li hanno condotti in aree in cui si trovavano civili innocenti e a volte anche intere famiglie.

Inoltre, veniva loro ordinato di considerare i civili sul campo come «sentinelle» dei gruppi militanti palestinesi e di ucciderli immediatamente, anche senza alcuna prova che li stessero aiutando.

«Tutto [nella Striscia di Gaza] costituisce una minaccia, l’area deve essere “epurata”, svuotata dalle persone, e, a meno che non vediamo qualcuno sventolare una bandiera bianca urlando “Mi arrendo”, dobbiamo considerarlo una minaccia e siamo autorizzati ad aprire il fuoco» ha dichiarato un sergente maggiore in servizio nell’area di Deir al-Balah.

«Sparare a qualcuno nella Striscia di Gaza va bene, non è un grosso problema» 

La mancata distinzione tra civili e combattenti è stata un argomento ricorrente nelle testimonianze dei soldati. Secondo Breaking the Silence,  le modalità con cui i soldati israeliani venivano istruiti per operare durante il conflitto creano un «quadro sconcertante».

«Il principio era: se scorgi qualcosa, spara. Ci dicevano: “Qui non ci aspettiamo di trovare civili.  Se scorgi qualcuno, spara”. Non dovevamo chiederci se costituisse o meno una minaccia, e per me tutto questo ha un senso. Sparare a qualcuno nella Striscia di Gaza va bene, non è un grosso problema. Prima di tutto perché è la Striscia di Gaza e, secondo, perché la guerra è così» ha raccontato un soldato di un’unità di fanteria nella zona settentrionale della Striscia.

Un sergente maggiore in servizio nel Nord della Striscia di Gaza durante il conflitto, ha riferito che il presupposto operativo del loro comandante era che chiunque si trovasse nelle aree di intervento dell’esercito israeliano non dovesse essere considerato un civile.

«Tutto quello che vedete nei paraggi, tutto entro una distanza ragionevole, diciamo tra 0 e 200 metri, è morto sul colpo.  Non serve autorizzazione. Ogni luogo che avete conquistato, tutto quello che avete  “sterilizzato”, tutto quello che si trova in un raggio da 0 a 200, 300 metri, lo consideriamo un’area “epurata”».

Il direttore di Breaking the Silence, Yuli Novak, ha affermato che il gruppo di intervistati ha richiesto l’istituzione di un comitato investigativo esterno per esaminare la politica delle regole di ingaggio adottate durante l’operazione militare e le «norme e i valori» che ne stanno alla base.

Le sconvolgenti testimonianze forniscono ulteriori prove a sostegno delle accuse contro Israele per aver commesso crimini di guerra durante le operazioni militari nella Striscia di Gaza. Accuse che lo scorso anno sono state mosse anche da Amnesty International e da altri gruppi per la difesa dei diritti.

In dicembre, proprio un rapporto di Amnesty International dimostrava che la distruzione di quattro palazzine negli ultimi quattro giorni del conflitto era stata «eseguita  deliberatamente e senza alcuna giustificazione militare».

Mesi prima, Human Rights Watch aveva dichiarato che, dall’esame di tre casi, era emerso che Israele aveva causato «la morte accidentale di numerosi civili, violando le leggi di guerra».

Si tratta di due diversi bombardamenti che hanno colpito due scuole dell’ONU nella zona settentrionale di Gaza, il 24 e il 30 luglio, e di un attacco con un missile guidato contro un’altra scuola dell’ONU a Sud, nella città di Rafah, avvenuto il 3 agosto.

«Due dei tre attacchi esaminati da Human Rights Watch… non sembravano avere un obiettivo militare e sono stati quantomeno illegittimi e indiscriminati. Il terzo attacco, a Rafah, è stato illegittimo e sproporzionato, se non indiscriminato».

«Attacchi illegali condotti intenzionalmente, cioè deliberatamente o incautamente, costituiscono un crimine di guerra».

Il conflitto della scorsa estate tra le forze israeliane e i gruppi militanti palestinesi ha causato la morte di 2.200 Palestinesi, la maggior parte civili, e di 73 Israeliani, 66 dei quali sono soldati uccisi negli scontri.

(Didascalia foto: Un bambino in un obitorio di Gaza ucciso da un attacco aereo nel luglio 2014. AFP/Mahmud Hams)

Traduzione di Silvia Durisotti