Thenation.com. Di Mohammed El-Kurd (*). (Da InvictaPalestina.org). Il sole non era ancora sorto il 21 gennaio, quando 30 soldati israeliani hanno arrestato il dodicenne Ammar nella sua casa, nel deserto del Negev. Il suo presunto crimine: protestare contro la recente spinta verso un piano di rimboschimento finanziato dal governo – o “greenwashing”, come molti lo definiscono – che porterebbe allo sradicamento di migliaia di alberi beduini Palestinesi, per sostituirli con alberi di pino.
Ammar è stato rilasciato dopo alcune ore di detenzione e messo agli arresti domiciliari anche se, come hanno detto i suoi genitori, era a casa durante la protesta. Al Jazeera ha riportato che il ragazzino non ha detto una parola da quando è tornato a casa.
La storia di Ammar è soltanto una fra le tante vicende che si sono susseguite nelle ultime settimane. Secondo Adalah, un centro legale con sede a Haifa che lavora per proteggere i diritti dei Palestinesi, 150 Beduini Palestinesi (di cui circa il 40 per cento sono minorenni) sono stati arrestati con l’accusa di aver provocato “disordini” durante le proteste contro la loro espulsione dall’area. Il programma è guidato dal Fondo Nazionale Ebraico (JNF), un’organizzazione parastatale, e rappresenta soltanto l’ultimo capitolo dello sforzo coloniale per “far fiorire il deserto”, che dura ormai da decenni. Un deputato israeliano ha promesso che gli Israeliani avrebbero “esercitato la [loro] sovranità sul Negev.
Benché i Beduini Palestinesi abbiano coltivato e abitato le loro terre sin da prima della Nakba, i successivi governi israeliani si sono adoperati per espellerli e “trasferirli”, revocando nel frattempo i loro diritti sulla terra. I Beduini posseggono gli atti di proprietà delle loro terre ma, tutt’oggi, le autorità israeliane si rifiutano di riconoscerli, affermando invece che gli sforzi di rimboschimento si stanno svolgendo su terreni “di proprietà statale”, in questo caso di proprietà del Fondo Nazionale Ebraico. Sul sito web dell’organizzazione, si legge che il Fondo è “il custode della terra di Israele, per conto dei suoi proprietari – Ebrei ovunque essi siano” – un ruolo che l’ha portato a piantare 86 delle sue foreste sulle rovine dei villaggi distrutti dai Sionisti.
Benché’ il Fondo Nazionale Ebraico abbia sempre sfrattato i Palestinesi dalle loro terre, ciò che rende questo momento particolarmente degno di nota, dicono gli osservatori, sono sia lo spirito di protesta dei Beduini, che il livello di violenza inflitto su di loro. Nelle ultime settimane, ci sono state numerose segnalazioni di manifestanti, residenti, bambini, e almeno un giornalista, picchiati e maltrattati dalle forze israeliane nel Negev. In un caso, i soldati israeliani hanno utilizzato sui manifestanti gas lacrimogeni, lanciandoli da droni precedentemente utilizzati solo nella Cisgiordania occupata, e nella Striscia di Gaza sotto assedio, sfatando il mito secondo cui i Palestinesi che posseggono un passaporto israeliano sono in qualche modo tutelati dalla violenza coniale del regime.
“Il livello di violenza utilizzato per reprimere le proteste [nel Negev] ha dimostrato in pratica che i Palestinesi, indipendentemente dal loro passaporto, devono affrontare una valanga di forze di sicurezza israeliane”, ha scritto l’attivista Riya Al’Sanah su The Independent.
La violenza non si è fermata alla repressione delle proteste. Piuttosto, è continuata sotto forma di incursioni nelle case e detenzioni come quella inflitta su Ammar- una repressione che alcuni hanno descritto come una “guerra di logoramento”, volta a intimidire i Palestinesi e soffocare la loro resistenza all’espansione coloniale.
Questa guerra di logoramento, nelle ultime settimane, si è concentrata sul Negev, ma molti vedono un collegamento tra questo momento e la brutale repressione dei manifestanti durante la scorsa estate, sia durante che dopo quella che è diventata nota come la “Rivolta dell’Unità”. Si tratta di due momenti che sono l’uno la continuazione dell’altro.
A partire dallo scorso maggio, le comunità palestinesi sono diventate i teatri in cui forze israeliane pesantemente armate hanno messo in atto lo spettacolo di “ripristinare la deterrenza, e incrementare la governance”. Alcuni funzionari israeliani, sbalorditi del fatto che anche i Palestinesi con passaporto israeliano avevano preso parte a quelle proteste anticoloniali che si sono tenute su tutto il territorio, si sono pubblicamente vantati della loro intenzione di “regolare i conti” per quelle proteste, cercando di placare il pubblico israeliano in preda al panico, provato dallo sconvolgente cambiamento di rotta nell’opinione pubblica mondiale.
Più di sei mesi dopo, la maggior parte del mondo ha dimenticato questo momento. Ma rimane un periodo degno di nota per i Palestinesi che vivono all’interno dei Territori del 1948, un periodo che dimostra non solo un rinnovato impegno a resistere, ma anche una nuova prolungata repressione su tale resistenza.
“Il processo è la punizione”.
“Sto filmando, non è permesso? Spara – è tutto registrato”. Queste sono state le ultime parole di Ibrahim Souri prima di essere sparato al volto dalle forze israeliane, mentre le riprendeva dal balcone di casa sua a Jaffa, il 12 maggio 2021. Secondo Amnesty International, è stato colpito da un penetratore a energia cinetica da 40 mm, e ha subito fratture alle ossa facciali. Souri è stato sparato durante gli intensi giorni della rivolta iniziata all’inizio di maggio, quando le autorità israeliane hanno messo in atto quello che le organizzazioni per i diritti umani hanno descritto come “un catalogo di violazioni”.
Questa forza eccessiva era tuttavia solo un preludio a quella che sarebbe diventata una campagna di molestie ancora più sostenuta. A partire dalla fine di maggio, migliaia di poliziotti, guardie di frontiera, e ufficiali di riserva, hanno intrapreso una campagna di arresti di massa, denominata “Operazione Legge e Ordine”, durante la quale hanno arrestato più di 2.100 persone, di cui la stragrande maggioranza (circa il 90%) erano Palestinesi con passaporto israeliano, o residenti a Gerusalemme Est.
Le storie di questo periodo sono strazianti, e lontane dall’essere solo un ricordo di vecchia data. Un esempio: a maggio, le autorità israeliane hanno arrestato tre Palestinesi con passaporto israeliano, accusandoli di aver picchiato e tentato di uccidere un soldato israeliano. Dopo lunghi interrogatori da parte dello Shin Bet, durante i quali sono stati impiegati “gravi metodi di tortura” – a detta dell’avvocato dei tre imputati- questi hanno confessato di aver preso parte al pestaggio. Ma poi hanno ritrattato le loro confessioni. Tuttavia, l’accusa israeliana ha ritirato le accuse mosse contro di loro solo all’inizio di novembre, quasi sei mesi dopo il loro arresto. La ragione? Le riprese video hanno dimostrato che non avevano nulla a che fare con l’incidente.
Ma essere rilasciati senza accusa non significa che l’arresto, l’interrogatorio, o il processo non siano essi stessi intrinsecamente punitivi. Durante un’intervista telefonica, Rabea Eghbariah, avvocata del Centro Legale Adalah e dottoranda alla Harvard Law School, ha insistito sul fatto che “il processo stesso è da considerarsi la punizione”.
“Anche quando questi processi si concludono senza accusa, l’imputato, così come la comunità in generale, sono ancora terrorizzati ed esausti a causa dei costi fisici, psicologici e finanziari del processo”, ha spiegato.
In un comunicato stampa, il Ministero della Pubblica Sicurezza israeliano ha indicato che gli obiettivi dei suoi arresti sono i “rivoltosi, delinquenti e chiunque sia coinvolto in attività illegali”. Benché la maggior parte delle persone sia stata arrestata per reati come “insulto o aggressione verso un agente di polizia”, o “partecipazione a un raduno illegale”, e poi rilasciata, diverse centinaia di persone hanno dovuto rispondere alle accuse, molte delle quali mosse ai sensi di un’ampia legge “antiterrorismo”. Questa legge sostituisce e amplia la legislazione coloniale britannica contro i dissidenti, e consente alle autorità di indulgere in pratiche che sarebbero illegali “in circostanze normali”. Queste includono l’imposizione di pene prolungate o raddoppiate, periodi prolungati senza poter contattare un avvocato, e detenzione a tempo indeterminato senza processo.
“A chi si denuncia?”.
Per i Palestinesi, l’obiettivo di questi arresti era chiaro. La Rivolta dell’Unità “ha rappresentato un promemoria del fatto che il popolo palestinese non ha smarrito la via”, ha affermato Fayrouz Sharqawi, direttrice di Grassroots alQuds, un’organizzazione che si occupa di mappare le politiche di sfollamento che colpiscono le comunità palestinesi. “Ora [le autorità israeliane] ci stanno costringendo a pagarne il prezzo”.
Infatti, una volta in carcere, coloro che erano stati arrestati sono stati posti dinanzi a un nuovo orrore. Tutti e quattro gli avvocati con cui ho parlato hanno parlato di metodi di intimidazione e tortura – privazione forzata del sonno, percosse, minacce di morte, detenuti legati e bendati- per estorcere confessioni.
Questa violenta repressione è stata forse meglio illustrata in una denuncia legale formale e una relazione presentati da Adalah al procuratore generale israeliano e ai presidenti del Dipartimento Investigativo della Polizia. La relazione contiene dichiarazioni sottoscritte da detenuti Palestinesi, che descrivono come le forze israeliane abbiano trasformato una stazione di polizia situata nella città palestinese settentrionale di Nazareth in una “stanza delle torture”, dove il sangue dei detenuti picchiati “copriva il pavimento”.
“[Gli] agenti di polizia hanno condotto i detenuti in una stanza situata sul lato sinistro del corridoio d’ingresso della stazione di polizia, costringendoli poi a sedersi per terra ammanettati, e ad abbassare la testa verso il pavimento, e hanno cominciato a percuoterli su tutte le parti del corpo, usando calci e spranghe, o sbattendo la loro testa contro muri, porte, e altro ancora. Gli agenti hanno ferito i detenuti, li hanno terrorizzati, e chi ha osato alzare la testa ha rischiato altre percosse da parte degli agenti”.
L’avvocato Soheir Assad ha trascorso gran parte della Rivolta dell’Unità facendo volontariato in varie stazioni di polizia israeliane, e ha assistito in prima persona alle aggressioni ai danni dei detenuti. “Immaginate un giovane uomo o una donna che ha passato quasi un mese senza poter parlare con un avvocato, senza cibo, né sonno, a subire torture”, ha detto, descrivendo la serrata procedura investigativa, che quasi sempre porta a confessioni sotto patteggiamento.
Le denunce di tortura non si limitavano solo alla violenza fisica. Adalah riporta che Jehan Abu Romy, la madre di un detenuto di 18 anni, ha detto alla stampa che suo figlio era “terrorizzato” dopo che gli interrogatori gli avevano detto che sua madre era morta in un incidente d’auto, e “che doveva firmare una confessione se voleva partecipare [al suo] funerale”.
La legge israeliana sostiene che le confessioni estorte con la tortura o con l’inganno non sono valide. Eppure, ciò non impedisce di utilizzare sia la tortura che l’inganno. Al contrario, si ritiene che l’impiego di metodi di tortura all’interno delle carceri israeliane sia altamente sottostimato, perché rimasto storicamente impunito.
La tortura era legale secondo la legge israeliana fino al 1999. Sebbene ora sia tecnicamente illegale, ci sono tantissime scappatoie legali che ne consentono l’uso. Nel 2018, la Corte Suprema israeliana ha stabilito che le linee guida dell’Agenzia per la Sicurezza israeliana sull’uso di “mezzi speciali” e “mezzi psicologici di interrogatorio” (cioè la tortura) sono legittime in circostanze di “bomba a orologeria”. Eghbariah ha affermato che “mentre prima la Corte Suprema si era limitata ad ignorare le prove di episodi di tortura ai danni dei detenuti Palestinesi, con la sentenza [del 2018], ha addirittura autorizzato una burocratizzazione della stessa”. L’Agenzia di sicurezza israeliana (meglio conosciuta come Shin Bet) definisce questi atti di tortura come “interrogatori necessari”.
Le vittime palestinesi di tortura spesso rifiutano di sporgere denuncia perché non hanno fiducia nel sistema. I numeri confermano che non hanno tutti i torti. Secondo un recente rapporto del Comitato Pubblico contro la tortura in Israele, dal 2001 sono state presentate oltre 1.300 denunce di tortura all’Ispettore per i reclami degli imputati, ma queste hanno portato solo a due indagini e nessun atto d’accusa. Inoltre, il tempo medio di elaborazione di un reclamo è di quattro anni e mezzo.
Delle migliaia di persone arrestate nell’ambito dell’operazione Legge e Ordine, solo poco più di 150 sono state incriminate. Viene da chiedersi quante di queste accuse siano state rese possibili solo grazie all’uso di torture. (Nella Cisgiordania occupata, il tasso di condanna dei Palestinesi processati presso i tribunali militari israeliani è del 99,7%).
Una nuova speranza.
Secondo Fayrouz Sharqawi, l’obiettivo dell’Operazione Legge e Ordine era ovvio: “È terrorizzare esplicitamente le persone… dissuaderle”, ha detto, osservando che tutti i tentativi israeliani di “addomesticare” i palestinesi con “politiche morbide” sono falliti.
Eppure, questa repressione ha ottenuto un altro risultato. Abbiamo assistito a una rinascita degli sforzi di mutuo soccorso e dei Comitati Popolari, specialmente all’interno delle comunità più duramente colpite dalla violenta repressione del regime israeliano contro il dissenso anticoloniale.
Le comunità più colpite dalle “procedure legali repressive, lunghe e costose” sono state le più povere della Palestina, secondo Hala Marshood, organizzatrice di progetti per la comunità, e ricercatrice presso ‘Who Profits’, un’organizzazione di ricerca indipendente, impegnata a smascherare il coinvolgimento del settore privato internazionale negli affari economici israeliani legati all’ occupazione. “Non è una coincidenza che siano state prese di mira le classi povere. È infatti più semplice screditarle come criminali, con lunghe liste di accuse”, ha spiegato Marshood.
Un esempio di questi sforzi di mutuo soccorso è il Dignity & Hope Detainees Fund (Fondo per la Dignità e la Speranza dei Detenuti), istituito da Baladna, l’Associazione dei Giovani Arabi in Israele, con sede ad Haifa, in collaborazione con avvocati volontari. Il Fondo ha l’obiettivo di aiutare le famiglie dei detenuti incriminati che vivono nei Territori del 1948.
Per Marshood, membro del Comitato Consultivo del Fondo, il Fondo è un esempio concreto di solidarietà sociale e politica, che ha l’obiettivo di “centrare la questione dei detenuti”.
“Il popolo palestinese sa di essere un popolo colonizzato, che ha a che fare con la stessa occupazione, e con la stessa colonizzazione”, ha detto Sharqawi. Le sue parole riflettono un cambiamento più ampio nella società palestinese, mentre la gente, dal “fiume al mare”, diventa sempre più unificata nella sua percezione della vita sotto il dominio coloniale.
Che fossero a Ramallah, Haifa o Sheikh Jarrah, la scorsa estate, a seguito delle proteste globali contro l’espropriazione a Sheikh Jarrah, i Palestinesi si trovavano dall’altra parte di quegli stessi proiettili di gomma e gas lacrimogeni. “La fiamma accesa in quei giorni non si è spenta”, ha scritto l’attivista Riya Al’Sanah, “nemmeno nel Negev, una regione che Israele ha cercato in tutti i modi di disconnettere politicamente dalla più ampia mobilitazione palestinese”.
La punizione e la repressione collettive, intese a rafforzare la frammentazione nazionale in cui i Palestinesi si trovano a combattere per le loro terre su fronti isolati, hanno invece riaffermato che i Palestinesi, indipendentemente dallo status legale, soffrono e continueranno a lottare contro la stessa violenza coloniale.
Mohammed El-Kurd (Copertina) è il corrispondente dalla Palestina per The Nation. Scrive principalmente sull’espropriazione a Gerusalemme, e sulla colonizzazione in Palestina. Il suo libro d’esordio è un volume di poesie, Rifqa (Haymarket Books).
Traduzione di Rossella Tisci per Invictapalestina.org.