Il palestinese Masharawi vince il premio del pubblico al Festival del Cinema Africano

A cura di Parallelo Palestina. Il palestinese Masharawi vince il premio del pubblico al Festival del Cinema Africano

Letters from Al Yarmouk, Palestina, 2014

di Rashid Masharawi, Niraz Saeed

Mukhayyam al-Yarmouk, ossia il campo profughi non riconosciuto ufficialmente al-Yarmouk, creato nel 1957 quando la zona ancora non era parte della città, è un distretto della città di Damasco popolato da Palestinesi. Nel 2002, vi erano iscritti 112.550 abitanti, un numero che si è sensibilmente assotigliato quando, nel corso della guerra civile siriana iniziata nel 2011, la zona si è trasformata in campo di battaglia tra i ribelli siriani e il Fronte per la liberazione della Palestina.

Il panorama che si offre nelle prime immagini del film è desolante: palazzi distrutti, cumuli di macerie e polvere nell’aria, persone che fissano il vuoto come in attesa di qualcosa. Il campo oggi è uno dei tanti teatri di guerra, i suoi circa 20.000 abitanti vi sono rimasti intrappolati senza avere una via di fuga. L’acqua è un bene prezioso per la sua estrema rarità, il cibo – razionato – si limita a zuppe di spezie, alla lunga nocive alla salute, le malattie si diffondono senza che sia possibile opporre loro resistenza alcuna.

Rashid Masharawi, che è nato in un capo per rifugiati a Gaza e che sente la situazione come familiare, decide di testimoniare le poco note condizioni della zona da Ramallah, dove abita e lavora, dopo essere entrato in contatto con Lamis Al Khatib, una ex abitante del campo, oggi in Germania in attesa di asilo. È lei a parlargli di Niraz Saeed, il suo ragazzo che non vede da un anno, intrappolato anch’esso nell’area.
Lui, ventitreenne fotografo, cattura immagini ma non sa cosa farne. Nemmeno Masharawi, che però resta in contatto con lui da febbraio a novembre 2014, raccogliendo materiale fotografico e video senza ancora sapere esattamente come usarlo.
Niraz si trasforma in coregista, scendendo per le strade con il suo computer portatile e filmando attraverso di esso la vita quotidiana nell’area. Sono queste le immagini che, alternate alle conversazioni via Skype tra i due autori, compongono il documentario, che conosce anche un ulteriore apice di dramma quando il fratello di Niraz viene ucciso da un cecchino.
Quello che prima della guerra era un centro commerciale importante per il Paese, grazie al cibo e alle spezie che vi si potevano acquistare, è oggi il teatro di una gravissima crisi umanitaria di cui non si intravvede una possibile fine.
I dialoghi tra Rashid Masharawi e Niraz Saeed contestualizzano la situazione ma le immagini di quest’ultimo parlerebbero efficiente anche da sole. Alla fine, anche la poesia di un momento musicale, con un pianoforte in mezzo alla desolazione delle macerie, parla di una speranza che non può però tenere in vita le persone.

Letters From Al Yarmouk rappresenta, proprio per la sua forma oltre che per il suo contenuto, una testimonianza fondamentale su una situazione poco nota. È l’ulteriore frammento di un quadro che illustra un mondo che ha perso la ragione e non intende ritrovarla.

Roberto Rippa

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Il cinema è l’arma più forte e meno «fanatica» di resistenza. La cultura come potenza di fuoco, val più di una strage di «nemici» architettata dal kamikaze in estasi. Bomba atomica spirituale di immane potenza, oltretutto, nessun osservatore dell’Onu la scova né disinnesca. Ma lì dove non si mangia, a West Bank, Gaza e dintorni…dove non si può lavorare né circolare né commerciare, dove casa le requisiscono o le sbriciolano coi bulldozer, che senso ha proiettare film?

Eppure ha senso. L’autorità palestinese non diventerà mai autonomia palestinese, senza mettere la cultura (antitesi del nazionalismo fanatico) al posto di comando. Senza imporre la legittimità delle proprie immagini (delle proprie case, olio, acqua…) al mondo come mezzo e non fine dello sviluppo. Prima che confini, dogane, porti e aereoporti funzionino e che il commercio possa partire, infatti l’idea di una Palestina in 3D ce l’hanno data – altro che «arabi iconoclasti» – film «sconfinati», «opere aperte» dal punto di vista politico, sessuale, etico e religioso. Pareva Ida Lupino come sdegno femminista invece era La memoria fertile (1980) di Michel Khleifi, che poi fece Nozze in Galilea (’86) e Cantico delle pietre (’90), ma vive a Bruxelles. E tra New York e Parigi è attivo Elia Suleiman, il palestinese dal design più moderno, umorista nero come Hitchcock.
Su Masharawi:

A Rashid Masharawi, che mandò Haifa a Cannes nel `95, si deve nel `93 Curfew, il primo «lungo» girato in Palestina da un palestinese che vive lì. Ed è suo anche Ticket to Jerusalem. Una scandalosa commedia, e non un `macho’ pamphlet, sull’orrore palestinese. Racconta l’odissea di un proiezionista di mezza età, Jaber, che vive in un campo profughi presso Ramallah e che, dopo aver portato film in tutto i territori della West Bank, trascinandosi spesso il proiettore sulle spalle o in carriola (per il «no» dei soldati) si mette in testa che deve proiettare nel cuore stesso della vecchia Gerusalemme, a AlQods. E tutti lo trattano da folle, perfino il suo complice nel rintracciar le vecchie e rare lampade del 35millimetri. Tranne la moglie, Sana, infermiera della mezza luna rossa, che vede l’orrore sanguinante della guerra tutti i giorni sulle sue mani e preferirebbe in realtà la diserzione, tornare in Libano, rinunciare alla lotta. Ma Jaber ha una passione folle e un disegno così preciso, ascetico e trascinante in mente (Sana a un tratto pensa si tratti di una relazione clandestina) da convincere perfino una anziana donna terrorizzata dagli ebrei ortodossi che gli hanno occupato la casa con metodi coloniali a «rioccupare» il suo ex cortile, chiamare i vicini e imporre la proiezione del film, che è anche impudente.

Ticket to Jerusalem rovescia, spazialmente e concettualmente, la passeggiata sulla moschea («in alto» rispetto al Muro del pianto) del grasso amico dei razzisti di Pretoria. Masharawi risponde con una provocazione artistica non indolore. Infatti Sharon cercò di proibire proprio in quei tempi il film di Mohamed Bakri sullo scempio di Jenin e del suo prestigioso centro culturale (fondato da una comunista ebrea d’Israele) mentre i suoi animatori, definiti dai media «feroci killer di Hamas», sono chirurgicamente assassinati con una caccia che bin Laden se la sogna.

Sostituire ai sassi il lancio della propria memoria storica nel futuro, il cinema quale strumento di un processo storico rivolto alla giustizia.


Il compleanno di Laila è del 2008. Abu Laila è un funzionario ma per vivere fa il taxista. E’ un uomo qualsiasi, ordinario, preciso, diligente, quasi maniacale nei suoi rituali. Il giorno del compleanno della figlia le promette di festeggiarla al suo ritorno a casa. Nel corso della giornata si scontra con tutti i paradossi possibili della società palestinese: l’incapacità della politica di farsi carico dei problemi della gente, la polizia, il sistema giudiziario, gli attacchi israeliani. Mentre intorno a lui si scatena il finimondo, egli è determinato a trovare un regalo per la figlia e non demorde. Cerca a tutti i costi una normalità… Premi: MedFilm Festival, Roma 2008 (Premio Miglior Film); Festival di Cartagine 2008 (Tanit d’Argento e Premio Miglior Attore), Middle East International Film Festival 2008 (Best Artistic Contribution), Festival International du Film d’Amiens 2008 (Premio Amiens Métropole), Cairo International Film Festival (Premio Miglior Film Arabo e Miglior Sceneggiatura)