Libano: i limiti della forza.

Cari amici,
    qui di seguito vi mando i primi cinque dei sei articoli che compariranno sul prossimo numero del mensile svizzero "Galatea" (settembre 2006) nella mia rubrica di politica estera, "Quadrante". Oltre agli articoli di "Quadrante" (i primi quattro sulla guerra in Libano, l’ultimo sulla situazione a Gaza), vi mando un articolo più lungo, che comparirà sempre su "Galatea", dove ripercorro per sommi capi la storia di Hizballah.
    Chi volesse riprodurli o farli circolare presso altre liste è libero di farlo, indicandone la fonte ("Galatea", settembre 2006).
    Buona lettura.
    Michelguglielmo Torri
 

QUADRANTE 2006.09

di Michelguglielmo Torri 

 

1. Libano: i limiti della forza

 

Il fine dichiarato di Israele, nel momento in cui, il 12 luglio, ha dato il via all’attacco al Libano, era quello di liberare due suoi soldati, catturati da Hizballah. In realtà, nei giorni successivi, questo obiettivo è di fatto scomparso sia dalla retorica israeliana, sia dal discorso politico in Occidente, venendo sostituita da quelli di annientare o, quanto meno, di indebolire Hizballah in maniera decisiva, e, soprattutto, di sradicarlo dal Sud del Libano.

Che questi ultimi fossero stati fin dall’inizio i veri obiettivi di Israele è stato subito rivelato sia dall’ampiezza delle operazioni militari, sia dalla rapidità della loro esecuzione, sia dalla retorica della lotta al terrorismo, adottata dalla dirigenza israeliana. Le rivelazioni del «San Francisco Chronicle» del 21 luglio, secondo le quali «un alto ufficiale israeliano» avrebbe presentato a diplomatici USA e di altre nazioni (l’Inghilterra?) i piani per il «disarmo» e per la «rimozione», cioè per lo sradicamento violento, di Hizballah dal Libano meridionale, oltre un anno prima della cattura dei due soldati israeliani, non hanno quindi fatto altro che confermare qualcosa che era già di per sé evidente. D’altra parte, che Israele avesse ricevuto precise garanzie di appoggio da parte degli USA è diventato chiaro quando George W. Bush, dopo l’inizio dell’attacco israeliano, ha sostenuto che il cessate il fuoco era un obiettivo auspicabile, ma che il suo raggiungimento avrebbe potuto essere ottenuto solo dopo che Israele avesse conseguito l’obiettivo di distruggere i «terroristi» di Hizballah.

L’ampiezza dell’iniziativa militare israeliana e l’appoggio ad essa data da Bush illustrano anche un altro aspetto dell’intera questione. La guerra non è stata, come sostenuto da alcuni commentatori, un’iniziativa di Hizballah, presa su indicazione di Teheran con il fine di far fallire o, quanto meno, di rallentare l’azione diplomatica intrapresa dalla comunità internazionale contro l’Iran per il suo programma nucleare. Al contrario, la guerra è stata un’iniziativa pianificata con largo anticipo da Israele e – di nuovo con largo anticipo – approvata dagli USA. Se, quindi, la guerra dei 33 giorni è stata (o è stata anche) una «guerra per procura», essa è stata intrapresa non da Hizballah a favore di Teheran, bensì dal governo Olmert a beneficio di Washington (o, per meglio dire, anche a beneficio di Washington). Washington, insomma, voleva lanciare un «avvertimento» inequivocabile a Teheran, distruggendo quello che considera il più stretto alleato e la longa manus dell’Iran in Medio Oriente.

Le cose, però, non sono andate come pianificato a Washington ed a Gerusalemme: il 14 agosto, al momento dell’entrata in vigore della tregua mediata dall’ONU, Israele non aveva raggiungimento né l’obiettivo pretestuoso della guerra, la liberazione dei due soldati catturati, né quelli reali: la distruzione militare di Hizballah – o, quanto meno, un suo decisivo indebolimento – e il suo sradicamento dal Libano meridionale. Nonostante perdite numeriche decisamente superiori a quelle israeliane, il «partito di Dio» ha preservato il controllo di una larga parte del territorio libanese attaccato dalle truppe israeliane, ha inflitto a queste ultime danni significativi e, infine, ha mantenuto intatta la propria capacità di colpire con i propri razzi Israele. Razzi che, vale la pena di sottolinearlo, sono armi vere, con una capacità distruttiva che, per quanto incomparabilmente inferiore a quella delle armi israeliane, è reale e, in ogni caso, enormemente superiore a quella dei razzi giocattolo Qassam usati dai palestinesi.

Finora gli israeliani hanno sempre basato la propria politica estera in Medio Oriente sulla propria capacità di eliminare militarmente qualsiasi avversario in qualsiasi momento, non appena lo avessero deciso. Già in passato, si era trattato di una politica che aveva avuto successo nella grande maggioranza dei casi, ma non in tutti i casi. Ora, la guerra dei 33 giorni è una dimostrazione evidente della sempre maggiore inaffidabilità di tale politica. Forse la dirigenza israeliana e quella americana dovrebbero incominciare a riflettere sul fatto che, a differenza di quanto sembrano pensare, la politica è qualcosa di diverso dall’imposizione unilaterale della propria volontà mediante l’uso della violenza.

 

 

2. Olp 1982, Hizballah 2006

 

Un modo per comprendere le dimensioni dello scacco militare subito da Israele durante la guerra dei 33 giorni in Libano è quello di paragonarla alla guerra del 1982. Allora come oggi, l’obiettivo di Israele era la distruzione di un non stato: allora l’Olp, oggi Hizballah. Nel 1982, le forze armate israeliane iniziarono le proprie operazioni con un attacco aereo contro Beirut nel pomeriggio del 4 giugno. Il 6 giugno incominciò l’offensiva terrestre e, il 14, l’esercito israeliano, dopo avere completamente smantellato l’apparato difensivo dell’Olp nel sud del Libano e dopo aver «ripulito» i dintorni di Beirut e una parte della valle della Bekaa dai siriani (che, da quel momento, cessarono di giocare un qualsiasi ruolo attivo nella guerra), accerchiarono Beirut Ovest, intrappolandovi gran parte delle forze palestinesi superstiti. Il 2 luglio, la dirigenza dell’Olp giudicò la guerra perduta. Lo stesso giorno, Arafat, alla disperata ricerca di una via d’uscita diplomatica, presentò al primo ministro libanese dell’epoca, Shafiq al-Wazzan, un documento che impegnava l’Olp a ritirarsi da Beirut. A quel punto, gli israeliani avevano vinto la loro guerra contro l’Olp, anche se, per una serie di ragioni, questa si trascinò ancora per diverse settimane (l’evacuazione delle truppe palestinesi da Beirut incominciò la sera del 12 agosto). Come si vide poi, la guerra del 1982, aveva raggiunto quello che lo stesso Sharon, di fronte a Beirut assediata e parlando alla catena televisiva ABC, aveva enunciato essere il proprio obiettivo: distruggere l’Olp o, quanto meno, il suo apparato politico-militare in Libano.

Come nel 1982, nel 2006 le operazioni israeliane sono incominciate, il 12 luglio, con il bombardamento del Libano, a cui, il 20 luglio, è seguita l’invasione del Sud del paese. A differenza che nel 1982, però, l’esercito israeliano è avanzato lentamente e con difficoltà, subendo perdite inaspettatamente pesanti, tanto che, l’8 agosto, il governo israeliano ha di fatto rimosso dal comando della forza d’invasione il generale Udi Adam, sottoponendolo al controllo del generale Moshe Kaplinsky, personalmente delegato dal primo ministro Olmert. Contemporaneamente, il governo israeliano ha preso in considerazione la possibilità di mobilitare altre quattro divisioni. Il costo economico dell’operazione e, probabilmente, la consapevolezza che Hizballah teneva in riserva missili in grado di colpire Tel Aviv (con conseguenze politiche che sarebbero state disastrose per il governo Olmert) hanno infine indotto Israele ad accettare la tregua proposta dall’ONU, pur senza aver raggiunto nessuno dei propri obiettivi.

Quali le ragioni della differente capacità di resistenza dell’Olp nel 1982 e di Hizballah oggi? Nel 1982, le relazioni fra i palestinesi e la popolazione del sud del Libano, in grande maggioranza sciita, erano ormai pessime. Gli sciiti giudicavano i palestinesi arroganti e le loro azioni contro Israele come responsabili delle continue e devastatrici rappresaglie israeliane. Lungi dal muoversi fra la popolazione civile come i proverbiali «pesci nell’acqua», i palestinesi nel 1982 erano diventati «pesci fuor d’acqua». Hizballah, invece, è un movimento profondamente radicato nella parte sciita della popolazione libanese (che è poi il gruppo etnico di maggioranza relativa in Libano) e, a dispetto di quanto sostenuto da molti organi di stampa occidentali, ha rapporti buoni o eccellenti con una parte considerevole delle altre forze politiche libanesi.

La seconda differenza fra l’Olp del 1982 e Hizballah del 2006 è che il primo, per far fronte agli eventi legati alla guerra civile libanese, incominciata nel 1975, aveva trasformato le proprie bande guerrigliere in forze di tipo regolare, dotandole perfino di alcuni distaccamenti corazzati. Efficienti contro gli irregolari della destra libanese e perfino contro le truppe dell’esercito siriano (intervenute contro l’Olp nel 1976), nel 1982 le forze palestinesi divennero il lento e facile bersaglio del tanto più potente esercito israeliano. Hizballah, viceversa, non ha mai abbandonato la strategia della guerriglia e, in questa prospettiva, si è dotata di armi leggere, facilmente spostabili e relativamente potenti, come i lanciarazzi anticarro RPG-29, di costruzione russa. In questo modo, circa 3.000 combattenti hanno compiuto il miracolo di fermare un esercito dai 15.000 ai 30.000 uomini, abbondantemente provvisto di potenti carri armati Merkava e appoggiato dall’aviazione e dalla marina.

 

 

3. «Rapiti» israeliani e desaparecidos arabi

 

Sia l’ultima fase delle violenze israeliane contro Gaza, sia la guerra dei 33 giorni contro il Libano hanno avuto come apparente motivo scatenante il «rapimento», cioè la cattura, di militari israeliani, da parte di militanti palestinesi nel primo caso e di combattenti di Hizballah nel secondo. Come è stato spiegato al mondo da molte voci autorevoli, compresa quella del presidente degli USA, Israele non poteva certamente piegarsi a simili arroganti e scellerate azioni terroristiche e, indubbiamente, «aveva tutto il diritto di difendersi». Queste autorevoli voci – e gli innumerevoli organi di stampa e canali televisivi che vi hanno fatto da cassa di risonanza – non hanno però ritenuto opportuno soffermarsi sul fatto che Israele ha, da anni, l’abitudine di catturare o di far catturare cittadini arabi, che poi scompaiono nelle sue prigioni. Si tratta di un’attività che ha avuto il suo epicentro soprattutto in Libano, a partire dalla prima invasione israeliana (nel 1978), e in cui hanno spesso avuto un ruolo importante le milizie libanesi di destra, legate ad Israele.

Di molti di questi desaparecidos si sono perse le tracce, ma, recentemente, secondo il giornale libanese «al-Safir», le autorità libanesi hanno compilato una lista di 67 persone rapite da Israele o dai suoi alleati in Libano e poi identificate, in base a fotografie od a testimonianze dirette, come in mano agli israeliani. Questi 67 nomi, riportati da «al-Safir», non rappresenterebbero però che la punta dell’iceberg. Secondo Daoud Kuttab, un intellettuale palestinese che insegna all’Università al-Quds di Gerusalemme, nelle carceri israeliani vi sarebbero oggi «300 libanesi e 10.000 palestinesi, di cui tutti i componenti del primo e molti del secondo gruppo senza accuse né processo» («New Strait Times», 16 agosto, p. 23). Ma questo non è tutto: sempre secondo Kuttab, Israele terrebbe nelle proprie prigioni 30 giordani, cittadini cioè di uno dei paesi arabi con cui lo stato ebraico ha un regolare trattato di pace.

A quanto pare, quindi, rapire e detenere senza processo cittadini arabi è, per Israele, perfettamente legittimo, tanto che non vale neppure la pena di segnalare il fatto né, tanto meno, di commentarlo; viceversa, catturare soldati israeliani è, da parte degli arabi, un intollerabile atto di terrorismo a cui, giustamente, si può e si deve rispondere con un uso massiccio ed indiscriminato della forza.

In realtà, il caso specifico che ha giustificato l’aggressione israeliana contro il Libano non è legato ad un contenzioso che riguarda tutti i prigionieri libanesi in Israele, bensì solo tre di essi. Nell’ottobre del 2000, Hizballah  rapì un uomo d’affari israeliano in Libano, ritenuto una spia. Seguì una lunga trattativa che, nel gennaio 2004, attraverso la mediazione tedesca, portò allo scambio fra da un lato il prigioniero di Hizballah  e i resti di tre caduti israeliani e, dall’altro, centinaia di prigionieri libanesi e palestinesi. In quell’occasione, però, i militari israeliani (sfidando, a quanto pare, un ordine della stessa Corte Suprema di Israele) si rifiutarono di consegnare tre dei prigionieri di cui era stata promessa la liberazione. Fra questi vi era il libanese di origine palestinese che, dai dati ufficiali, risulta essere quello detenuto da più lungo tempo nelle carceri israeliane, Samir al-Qantar. Al-Qantar, allora un sedicenne affiliato al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, nel 1979, durante un’incursione in Israele, si era reso responsabile dell’uccisione non solo di due poliziotti israeliani, ma anche di un civile e di una bambina di quattro anni. A quest’ultima, secondo testimoni presenti, al-Qantar aveva spaccato il cranio con il calcio del proprio fucile.

La mancata liberazione di al-Qantar e di altri due detenuti, quando il leader politico di Hizballah, Sayyid Hasan Nasrallah ne aveva già pubblicamente annunciato il rilascio, è all’origine della decisione di tentare la cattura di uno o più militari israeliani, per giungere ad un nuovo scambio. A quanto pare, Nasrallah aveva posto come termine ultimo dell’operazione il 2006 e, secondo quanto da lui sostenuto in un’intervista rilasciata il 20 luglio ad «al-Jazeera», aveva messo al corrente delle sue intenzioni alcuni dei principali leader politici libanesi. Di qui, dopo un precedente tentativo fallito, l’attacco al convoglio israeliano e la cattura dei due soldati.

 

 

4. Il mostro di Alien e il Libano

 

Il 28 luglio scorso, Benjamin Netanyahu, l’ex primo ministro israeliano e attuale leader dell’opposizione, è stato intervistato dalla catena televisiva canadese CTV sulla guerra in Libano. Netanyahu, in questo pienamente solidale con il governo Olmert, ha spiegato le ragioni d’Israele facendo riferimento alla serie di film di horror fantascientifico «Alien», interpretati da Sigourney Weaver. Come ricorderanno gli spettatori dei film, il feroce e ripugnante mostro alieno, dopo essere stato depositato sotto forma di uovo in un corpo ospite, si sviluppa fino a che, nelle parole dello stesso Netanyahu, «esce sfondando il petto dell’ospite, attacca la persona vicina all’ospite e, nel farlo, uccide l’ospite.» La conclusione di Netanyahu è stata: «Se vogliamo avere un futuro di pace e buoni vicini, un futuro di tranquillità, allora questo alien  deve essere eliminato.»

Il primo elemento che colpisce nella metafora di Netanyahu è la deumanizzazione del nemico: gli Hizballah non sono esseri umani, sono mostri alieni; con loro non si può trattare, bisogna sterminarli. Il secondo elemento è il ruolo riservato al Libano: come Netanyahu e gli spettatori dei film sanno, una volta che la madre-mostro ha depositato le sue uova, per l’ospite non c’è via di scampo: sarà ucciso dal mostro nascituro o da chi vuole eliminarlo. Da questo punto di vista – e questo è il terzo elemento che colpisce -, la tirata finale di Netanyahu sul «futuro di pace» e sui «buoni vicini» non è che un esercizio di ipocrisia e di disinformazione: secondo la metafora stessa, infatti, il «buon vicino» è in ogni caso destinato ad essere eliminato e, per lui, il «futuro di pace» non può essere che la pace del cimitero.

In effetti, tutti gli elementi che caratterizzano l’intervista di Netanyahu sono ben presenti nel modus operandi degli israeliani durante la guerra dei 33 giorni. Gli israeliani hanno massicciamente bombardato città, strade, ferrovie e ponti. Nel far questo, Israele ha ucciso soprattutto civili, inclusi quattro osservatori ONU, molte donne e molti bambini (secondo la testimonianza del primo ministro libanese, circa un terzo dei morti è formato da bambini al di sotto dei 12 anni).

Lo stato d’Israele ha giustificato le sue azioni sostenendo che le perdite di civili si dovevano a Hizballah, che dei civili si faceva scudo, e che, in ogni caso, i militari israeliani avevano preavvertito i civili libanesi delle loro imminenti incursioni con volantini o chiamate telefoniche. L’accusa contro Hizballah è non solo palesemente falsa, ma, in ogni caso, non applicabile né alle aree del paese bombardate da Israele dove Hizballah non è presente, né al caso clamoroso (anche se presto dimenticato) dell’assassinio dei quattro osservatori ONU. A parte questo, i «preavvisi» israeliani – che, a norma del diritto internazionale, non giustificano il bombardamento di obiettivi civili – sono spesso arrivati a persone che non avevano un luogo dove rifugiarsi, o che non potevano muoversi a causa dell’interruzione delle vie di comunicazione o che, in diversi casi, quando sono fuggiti, sono stati intercettati, spesso con esiti letali, dall’aviazione israeliana.

Accanto al massacro di civili vi è poi stata la sistematica distruzione materiale del Libano. Ad essere colpiti non sono stati solo ponti e strade, cioè obiettivi che possono essere considerati militari, ma anche industrie che producevano mobili, prodotti farmaceutici, tessili, carta o che imbottigliavano latte. Già prima della sospensione delle ostilità, il 95% dell’industria libanese aveva cessato di funzionare.

Infine, per quanto i dati siano ancora provvisori, vale la pena di ricordare che al momento della tregua, i caduti israeliani risultavano essere 118 militari e 43 civili, mentre i caduti libanesi risultavano essere 195 combattenti (di cui 15 appartenenti a due milizie alleate di Hizballah) e 954 civili. In altre parole la proporzione di civili rispetto al totale dei caduti era dell’83% per i libanesi e del 27% per gli israeliani.

I dati, lo abbiamo detto, sono provvisori. Ma è difficile che, una volta che quelli definitivi divengano disponibili, le proporzioni fra caduti civili e militari varino in maniera decisiva. Il che vuol dire che i «terroristi» di Hizballah hanno ucciso prevalentemente dei militari, mentre i militari israeliani, famosi per la «purezza delle armi», hanno ucciso prevalentemente dei civili. Il che la dice lunga su chi, oggi, in Medio Oriente, siano i veri terroristi.

 

 

5. Nel frattempo, a Gaza…

 

Una delle conseguenze della guerra israeliana in Libano è stata quella di far dimenticare ai media e all’opinione pubblica internazionale gli avvenimenti, di poco meno tragici, in corso nella Striscia di Gaza. Il 27 giugno, infatti, le Forze Armate israeliane avevano dato inizio ad un’operazione militare su vasta scala, articolata in una serie di attacchi terrestri e aerei, con il fine dichiarato di liberare un soldato israeliano catturato da militanti palestinesi. Da allora la campagna contro Gaza, dal poetico nome di «operazione pioggia d’estate», è continuata senza interruzione, provocando massicce perdite umane e devastando letteralmente le già rudimentali e insufficienti infrastrutture dell’area. Nell’indifferenza delle cancellerie occidentali, solo le Nazioni Unite hanno di tanto in tanto espresso le proprie preoccupazioni in proposito.

Un bilancio di quanto sta avvenendo a Gaza è stato fatto il 9 agosto dal Palestinian Monitoring Group. Il PMG è un’organizzazione senza fini di lucro, registrata presso le Nazioni Unite, che raccoglie i suoi dati sia presso i Ministeri dell’ANP, sia attraverso indagini in loco condotte dai membri dell’organizzazione. Secondo il rapporto in questione, fra il 27 giugno (data di inizio dell’operazione «pioggia d’estate») e l’8 agosto, le Forze Armate israeliane hanno portato a termine 768 attacchi contro la Striscia di Gaza, impiegando fra l’altro aerei F-16 ed elicotteri da combattimento e sparando oltre 3.500 proiettili d’artiglieria. Contro una popolazione che è di fatto disarmata (i palestinesi di Gaza dispongono solo di armi leggere e dei razzi giocattolo Qassam), il 9 agosto «pioggia d’estate» aveva già portato alla morte di 170 palestinesi. Sintomaticamente, fra questi solo 15 risultavano essere militanti di gruppi armati. Altri 14 erano membri delle forze di sicurezza dell’ANP e tutti gli altri, 138 su 170, erano civili.

Una parte considerevole delle vittime (anche se la proporzione è inferiore a quella in Libano) è rappresentata dai bambini: 26 nel periodo dall’8 luglio all’8 agosto. In effetti, secondo il rapporto del PMG, il mese di luglio – in cui sono stati uccisi 151 palestinesi – è stato il più sanguinoso per la Striscia di Gaza a partire dall’ottobre 2004 (quando i morti erano stati 166).

Esattamente come in Libano, alle uccisioni, prevalentemente di civili, si è accompagnata la sistematica distruzione di infrastrutture pubbliche e di proprietà private. Ad essere colpiti sono stati gli impianti idraulici, elettrici e telefonici, nonché le scuole e i ministeri. Sono anche stati presi di mira abitazioni, automobili, serre e terreni agricoli.

Praticamente la prima azione di questo tipo, in occasione dell’avvio dell’operazione «pioggia d’estate», è consistita nella distruzione della centrale che forniva a Gaza il 70% del suo fabbisogno elettrico. A metà agosto, secondo informazioni date da Freda Guttman (una ebrea canadese contraria all’occupazione, che attualmente si trova nei territori occupati), gli abitanti di Gaza ricevevano energia elettrica per sole 6-8 ore al giorno e, nella maggior parte delle zone urbane, acqua corrente per solo 2 o 3 ore.

In questa situazione, l’ANP ha aperto una trattativa con l’Egitto, in modo da ottenere i necessari rifornimenti di energia da quella fonte. Le linee guida dell’accordo per estendere la rete elettrica egiziana a Rafah e di lì nel Nord della Striscia erano state finalizzate già nel mese di luglio, mentre i fondi necessari all’operazione erano stati garantiti dalla Islamic Development Bank. Ma Israele – che, contrariamente all’accordo mediato dal segretario di stato americano Condoleezza Rice nel novembre 2005, continua a controllare tutte le vie d’accesso alla Striscia di Gaza – ha impedito l’attuazione del progetto.

Nel frattempo, secondo un rapporto rilasciato dalle Nazioni Unite il 7 agosto, la capacità di funzionamento dell’impianto di depurazione dell’acqua, situato nella parte settentrionale della Striscia, aveva raggiunto un «punto critico». Vi era quindi il pericolo che le acque delle fogne traboccassero in aree popolate (il che non è difficile, visto che la Striscia è la seconda area più popolata del mondo, dopo Hong Kong), dando origine a malattie infettive. Il medesimo rapporto metteva in luce come il 70% della popolazione fosse in grado di far fronte alle proprie necessità alimentari solo grazie all’assistenza da parte di Ong e di istituti internazionali.

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Hizballah e i destini del Libano

Terrorismo islamico o nazionalismo libanese?

 

di Michelguglielmo Torri

 

La maggior parte dei media occidentali presenta Hizballah, il «partito di Dio» libanese, come un’organizzazione terroristica teleguidata dalla Siria e dall’Iran. Si tratta di una visione totalmente falsa, costruita dagli USA e da Israele per giustificare le loro politiche in Medio Oriente. In un momento in cui l’Italia si appresta a giocare un ruolo importante nella politica libanese, diviene imperativo cercare di rendersi conto di che cosa effettivamente sia e di che cosa effettivamente rappresenti il «partito di Dio».

Hizballah  è sì un partito religioso, ma, cosa più significativa, è soprattutto un partito nazionalista. Hizballah, inoltre, rappresenta politicamente non solo la maggioranza degli sciiti libanesi, ma anche una parte cospicua degli strati sociali più poveri del Libano, indipendentemente dalla loro affiliazione religiosa. Infine, Hizballah ha non solo un ampio seguito popolare, ma è tutt’altro che un partito isolato rispetto alle altre forze politiche libanesi. Fra i più stretti alleati del «partito di Dio» vi sono il Partito comunista libanese, cioè una formazione laica, e il partito guidato dall’uomo politico cristiano maronita Michel Aoun (in questo momento, forse il più acerrimo avversario libanese dell’influenza siriana in Libano). Già questi due ultimi elementi dovrebbero metterci in guardia contro le formule preconfezionate usate in Occidente.

Il Libano è, come Israele, una democrazia a base etnica (dove, cioè, i cittadini hanno diritti e doveri diversi a seconda dell’appartenenza etnico-religiosa). A differenza che in Israele, in Libano nessuna etnia è completamente esclusa dalla fruizione di almeno una parte del potere. Fin dal cosiddetto «patto nazionale» del 1943, però, una gran parte di questo potere è andata ai cristiani maroniti e ai musulmani sunniti, cioè alle due comunità più ricche del paese, con una forte classe media. Gli sciiti, concentrati nel Sud e nella valle della Bekaa, sono invece la più povera fra le maggiori comunità libanesi, per lungo tempo priva di peso politico.

Negli anni 70, alla rapida crescita demografica della comunità sciita (che, intorno a quel periodo divenne la prima del Libano, sorpassando quella maronita) si accompagnò il suo risveglio politico. Questo trovò espressione in un nuovo partito, il «Movimento dei diseredati», a cui, in occasione dell’inizio della guerra civile (nel 1975), venne affiancata una milizia: Amal. Quest’ultimo nome venne poi adottato anche per il partito.

Per quanto inizialmente favorevole ai palestinesi, Amal finì per scontrarsi con l’Olp, ritenuto responsabile delle continue rappresaglie di cui Israele faceva oggetto la popolazione civile del Libano meridionale. Di conseguenza, quando Israele invase il Libano nel giugno 1982, da parte degli sciiti vi fu una benevola neutralità. Nel giro di pochi mesi, tuttavia, l’arroganza e la brutalità degli israeliani nei confronti di tutti gli arabi, sciiti compresi, la sistematica distruzione delle infrastrutture e dei terreni agricoli, il saccheggio o lo sfruttamento delle risorse economiche del Libano occupato trasformarono l’iniziale benevolenza in ostilità.

Tale ostilità si estese anche agli americani e ai francesi che, insieme agli italiani (e ad un minuscolo contingente britannico), erano stati mandati come forza di interposizione, dopo l’assedio israeliano di Beirut. Americani e francesi vennero infatti presto percepiti – e con ottime ragioni – non come impegnati in un’onesta mediazione fra israeliani e libanesi e fra le varie fazioni in cui erano allora divisi i libanesi (la guerra civile era tutt’altro che terminata), ma come una sorta di guardia pretoriana al servizio della destra libanese e degli interessi israeliani.

A quel punto, si era nel 1983, Amal fece tuttavia la scelta di non intervenire contro Israele e di collaborare con gli americani. Questo, se comportò notevoli vantaggi personali per il suo leader, Nabih Berri (che divenne presidente del Parlamento libanese, carica che ancor oggi ricopre), determinò anche il crollo del seguito di Amal.

I transfughi del partito di Nabih Berri trovarono un punto di riferimento in alcuni religiosi sciiti – che, per quanto autonomi rispetto ad Amal, erano stati politicamente attivi fin dagli anni 70 – e nel loro seguito politico. Il più eminente fra questi religiosi era, allora come oggi, Sayyid Muhammad Husain Fadlallah. Ma l’effettiva guida politica e organizzativa del partito che nacque dall’unione fra i transfughi di Amal e il gruppo ispirato da Fadlallah, partito che prese il nome di Hizballah, fu esercitata da altri: fino al 1992 (quando venne assassinato dagli israeliani insieme alla moglie e al figlio di 5 anni), da Sayyid ‘Abbas al-Musawi; successivamente da colui che ne è ancora oggi alla guida: Sayyid Hasan Nasrallah.

Fino al 16 febbraio 1985, quando il «partito di Dio» annunciò la propria esistenza e il proprio programma con una «Lettera aperta agli oppressi del Libano e del mondo», il nuovo gruppo agì nella clandestinità, portando a compimento una serie di sanguinosi attentati contro americani e francesi e scatenando una vera e propria guerra di guerriglia contro gli israeliani. Al momento della pubblicazione della «Lettera agli oppressi», la forza multinazionale era già stata forzata ad abbandonare il Libano e, di lì a pochi mesi, anche le truppe israeliane sarebbero state costrette ad evacuare gran parte del territorio libanese, ritirandosi nella cosiddetta fascia di sicurezza. Quest’ultima, posta a nord del confine fra Libano e Israele e ininterrottamente occupata da Israele fin dal 1978, equivaleva a circa il 10% del territorio libanese.

Negli anni successivi, a causa della continuazione della lotta da parte di Hizballah, controllare la «fascia di sicurezza» si rivelò talmente oneroso che, sia pure obtorto collo, il governo israeliano si rassegnò all’evacuazione. Questa venne ultimata il 24 maggio 2000, in maniera tanto caotica da assomigliare più ad una fuga che ad una ritirata.

L’evacuazione lasciò però aperte tre questioni. La prima era quella delle Shebaa Farms, un’area di circa 27 km², che i libanesi – con il pieno accordo dei siriani – rivendicano come parte del proprio territorio nazionale, mentre l’ONU ritiene essere parte della Siria e, guarda caso, dell’area del Golan siriano occupato da Israele. La seconda questione riguardava la disposizione dei campi minati lasciati dagli israeliani in Libano, campi di cui il governo libanese ha continuato a richiedere le mappe ad Israele, senza ottenerle. La terza, infine, era relativa ai cittadini libanesi rapiti da Israele o dai suoi alleati libanesi e illegalmente detenuti nelle carceri israeliane.

Alla guerra contro Israele si accompagnò l’azione a favore degli strati più poveri della popolazione. Entrambe queste politiche contribuirono a trasformare Hizballah da semplice organizzazione militare in un partito politico di massa, con una complessa struttura organizzativa. Inoltre, il discorso politico articolato da Hizballah – in linea, del resto, con le tradizioni culturali dello sciismo libanese – si rivelò assai diverso e notevolmente più aperto di quello che, in Occidente, ci si aspetta da un partito islamico. Rivelatrici di questa apertura furono le critiche rivolte da Hizballah all’accordo di Tai‘if del 1989, accordo in base al quale si concluse la guerra civile libanese. Il «partito di Dio» stigmatizzò l’accordo perché esso riproponeva l’organizzazione a base etnico-religiosa che aveva caratterizzato il sistema politico libanese prima della guerra civile (sia pure ridimensionando il potere, precedentemente dominante, della comunità cristiana maronita). Secondo Hizballah, il nuovo sistema politico avrebbe dovuto prescindere da ogni riferimento etnico, assegnando uguali diritti e uguali doveri ai cittadini, indipendentemente dalla loro appartenenza etnico-religiosa.

In altre parole, il «partito di Dio» criticò l’accordo di Ta‘if perché non introduceva un sistema politico laico. Indubbiamente, questa è una posizione che può anche essere spiegata con il fatto che, in assenza di ripartizioni a priori su basi etnico-religiose, il «partito di Dio», la cui popolarità era in continua crescita, avrebbe potuto arrivare più facilmente a dominare la politica libanese. Anche così, però, è chiaro che Hizballah dimostrava una straordinaria apertura ideologica.

La decisione di partecipare alle elezioni che, a partire dal 1992, si sono tenute in Libano – decisione fortemente voluta dall’attuale leader politico di Hizballah, Sayyid Hasan Fazallah – non è stata che la conclusione logica di un processo di crescita e di trasformazione in corso da tempo.

In una situazione in cui lo stato libanese continua, però, ad apparire debole a livello militare, latitante a livello politico e sociale e, infine, circondato da nemici, il «partito di Dio» ha scelto di mantenere in efficienza quello stesso apparato militare che ha portato alla liberazione della parte meridionale del paese. Si tratta di un’anomalia, ma di un’anomalia ben spiegabile dagli attuali equilibri politici e militari in Medio Oriente e dalla presenza, sul confine meridionale, di un vicino arrogante e minaccioso.

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