Libia. Democrazia, violenza, instabilità

ASI – Federico Cenci. Sono passati diciotto mesi dall’inizio dei primi vagiti della rivolta che ha deposto il regime di Gheddafi. La nuova Libia, in mezzo a tante trasformazioni, mantiene un aspetto in comune con il suo passato, il colore verde. Non si tratta, tuttavia, del verde dell’Islam che tingeva interamente la vecchia bandiera della Jamahiriya, bensì è il verde livido delle piaghe prodotte da un’ascesa di violenze che non sembrano arrestarsi, anzi accrescono.

In questi giorni il Consiglio nazionale di transizione ha garantito che trasferirà i poteri all’Assemblea nazionale uscita dalle elezioni di luglio. Un passaggio cruciale della svolta democratica e filo-occidentale libica, che vedrà nel “moderato” Mahmoud Jibril, ex primo ministro dei cosiddetti ribelli durante la guerra, l’uomo designato a formare un nuovo governo d’unità nazionale. Sebbene l’ampio appoggio occidentale, il compito che spetta a Jibril appare piuttosto arduo, governare un Paese segnato dalle divisioni tribali e infestato da gruppi armati che allignano nel disordine che loro stessi generano è un’impresa disagevole. L’autobomba esplosa nel centro di Tripoli (il primo attentato di questo tipo nella capitale dalla caduta del raìs), come altri episodi terroristici che costantemente insanguinano la Libia, testimonia che la transizione verso la democrazia resta una chimera. Al di là dell’alta affluenza e dell’esito del voto di luglio, nel Paese nordafricano sono in tanti i reticenti alla “svolta democratica”, caldeggiata da alcuni media occidentali durante la fase della “guerra umanitaria”. In Cirenaica, regione in cui si trovano i più ricchi giacimenti di petrolio, esiste una determinata e folta componente che ha partecipato alla guerra contro il regime di Gheddafi con un fine ben preciso: affrancarsi dal dominio della Tripolitania. C’è chi assicura che tale componente non rinuncerà a questa ambizione d’affrancamento (mesi fa la Cirenaica si è proclamata autonoma), pronta a non deporre mitra e bazooka fin quando non avrà conquistato ciò che desidera.

C’è un’altra fazione che non esulta all’idea di una Libia “moderata” e laica governata da Jibril, anch’essa nella guerra ha giocato un ruolo decisivo, al Qaeda. Il capo del Consiglio di transizione Mustafa Abdul Jalil ha affermato di recente che il Qatar “ha speso più di due miliardi di dollari per finanziare la rivoluzione libica”. Al piccolo ma ricchissimo Stato del Golfo Persico si aggiunge la vicina Arabia Saudita, altra generosa dispensatrice di petroldollari ai terroristi di al Qaeda impegnati in Libia. Un copione che ora si sta ripetendo in Siria, dove i “ribelli” trovano in quegli stessi emiri che in casa proprio reprimono duramente ogni anelito di contestazione i loro maggiori finanziatori. La strategia dei Paesi del Golfo Persico, del resto, converge con quella che il quotidiano britannico Guardian ha definito la “nuova agenda americana in Africa”. Entrambi gli attori, sia i conservatori despoti del Golfo Persico che gli “sceriffi democratici” statunitensi, auspicano un futuro di depotenziamento politico dei Paesi interessati dalla “primavera araba”. Uno scenario che consentirebbe di esporre questi Paesi, una volta passati da una condizione di sovranità nazionale a quella di debolezza e fratture interne, all’influenza geopolitica di questa goffa alleanza tra fanatici sunniti e liberali americani. Un’alleanza fondata sul dio denaro, sullo scambio tra energia araba e assetti militari a stelle e strisce, che passa necessariamente attraverso instabilità e violenze.

La Libia, parte di questo scacchiere geopolitico in cui le pedine mosse da Washington e dagli Stati del Golfo Persico creano scompiglio e minacciano di seminare terrore anche oltreconfine, è l’esempio tangibile di come un seggio elettorale non sia sufficiente a coprire le reali, esecrande aspirazioni egemoniche di potenze senza scrupoli.