Lo sconcertante silenzio degli egiziani sulla distruzione di Rafah

rafah_border_trucks_jazeeeraMemo. Il Governatore del Sinai del Nord, Abdel-Fattah Harhoor, ha annunciato che le autorità egiziane intendono radere completamente al suolo la città di Rafah, che sorge al confine tra l’Egitto e la Striscia di Gaza: una dichiarazione accolta da un assordante silenzio, ad eccezione di qualche isolata voce di condanna. Secondo fonti molto attendibili, 100 case su un totale di 1.220 sono state già evacuate giovedì scorso, nell’ambito della seconda fase di un’operazione che mira a istituire una zona cuscinetto lungo la Striscia di Gaza.

Un’operazione in più fasi

Nelle dichiarazioni rilasciate ad Arabi21, gli attivisti hanno dato molte chiavi di lettura in merito all’assordante silenzio egiziano sulla situazione a Rafah e nel Sinai. Il regime che si è insediato in seguito al colpo di stato non ha annunciato sin dall’inizio la manifesta intenzione di distruggere Rafah: l’operazione è stata condotta gradualmente, a partire dall’ottobre del 2014. Tutto è iniziato dall’annuncio della creazione di una zona cuscinetto sul confine, ampia 500 metri, decisione messa in pratica nel giro di poche ore. Le case sono state bombardate e gli abitanti del Sinai costretti ad abbandonarle. In seguito, si è deciso di raddoppiare l’ampiezza della zona cuscinetto fino a un chilometro. E infine, tre giorni fa è arrivato l’annuncio da parte del Governatore del Sinai: la città di Rafah dovrà essere completamente rasa al suolo, come ci spiega l’attivista Asmaa Al-Sayyid.

I media e le accuse contro Gaza

La giornalista Samya Mahmoud ha dichiarato che “i media hanno avuto un ruolo determinante: hanno infatti spianato la strada a questo genere di misure, associando ripetutamente il Sinai a una roccaforte di terroristi e integralisti takfiri. Secondo il suo parere, i media hanno strumentalizzato l’attacco contro i soldati per far ricadere la responsabilità su Gaza e spronare il regime a evacuare la zona di confine con la Striscia.

Hajar Faafat ha aggiunto: “Non è tutto. Durante questo periodo, i media hanno continuato a negare l’autenticità dei video e delle foto che riportavano la sofferenza e le violazioni subite della popolazione della Rafah egiziana”.

Ali Ghanim, invece, ci tiene a recitare dei versi per illustrare la portata della catastrofe vissuta dalla popolazione del versante egiziano della città di Rafah:

“Una volta nel nostro Paese c’era un villaggio di nome Rafah, patria della bellezza e della tranquillità, dono dell’Onnipotente Allah, poi è venuto l’oppressore che ha calpestato anche la sua stessa religione. Ha distrutto le case della città, spento le sue luci e ucciso la sua gente, l’ha rasa al suolo per compiacere i sionisti. Eppure i suoi seguaci abbiano come cani rabbiosi, continuando a giustificare le sue azioni.

Una preda facile per i Sionisti

Ibrahim Al-Husayni ha detto: “Ormai è evidente: a beneficiare della Rivoluzione egiziana è soltanto l’entità sionista, di certo non i musulmani”.

Shaymaa Said ha invece dichiarato: “In realtà, la distruzione di Rafah serve solo a distruggere la resistenza palestinese a Gaza e ad offrirla in pasto ai Sionisti. Questa è la dimostrazione del fatto che Al-Sisi e i capi del suo esercito sono eterodiretti. Ma la resistenza di Gaza ha dimostrato di non essere affatto una facile preda, quanto una spina nel fianco dei Sionisti e dei suoi mandatari, che verranno distrutti, con l’aiuto di Dio”.

Adesso Israele è al sicuro?

Molti attivisti hanno condiviso questo tweet del professore di Scienze Politiche Seif Abdel-Fattah: “Le autorità egiziane raderanno al suolo Rafah per istituire una zona cuscinetto con Israele. Quindi adesso Israele è al sicuro? È questa la sicurezza nazionale egiziana?”

Gli attivisti hanno condiviso anche le dichiarazioni rilasciate dall’attore egiziano Khalid Abu Al-Naja in un’intervista all’Huffington Post: “In genere non parlo mai di politica, ma solo di persone che subiscono ingiustizie. Di fronte a questo, non riesco a tacere. Ho iniziato l’intervista ricordando le famiglie egiziane che sono state cacciate dalle loro case sul confine. Ecco, credo che sia un’enorme ingiustizia. Non è possibile, non si dovrebbe poter fare. Lo dico anche se non sono un esperto di politica, non conosco neanche la differenza tra Marx e chiunque altro”.

Tutte le carte in regola

Gli attivisti dei social network hanno condiviso anche lo stato di Hatim Azzam, ex leader del partito Al-Wasat, che ha così affrontato la questione della popolazione del Sinai: “In questo modo, il regime nato dal colpo di stato militare sta cercando di riallacciare i rapporti con Israele, fornendo tutte le credenziali possibili all’entità occupante sionista e alle potenze che la sostengono, prima fra tutte gli Stati Uniti. Lo scopo è quello di garantirsi il supporto di queste potenze per rimanere al potere”.

Nel suo comunicato, Hatim Azzam ha anche evidenziato come la distruzione di Rafah sia un totale disastro, specialmente dopo il via libera al terzo governatorato, detto del “Sinai centrale”. A suo avviso, questo è un tentativo di isolare il Governatorato del Nord, abbandonando al loro destino le città più importanti e strategiche, come Rafah, per poi disinteressarsi completamente del territorio settentrionale.

L’attivista del Sinai, Misaad Abu Fajr, ex membro del Comitato dei Cinquanta saggi che ha modificato la costituzione, ha affermato che la deportazione degli abitanti del Sinai equivale a una dichiarazione di guerra contro le tre tribù principali, ovvero (da sud a nord): Trabin, Swarkah e Ismailat.

In precedenza, aveva scritto sulla sua pagina Facebook: “Non crediate che questa decisione sia scevra da conseguenze, come avvenuto in passato. Se adesso dovete attraversare una regione colpita dal terrorismo per entrare al Cairo, presto vi troverete a passare per una zona di guerra. Non potete far finta di ignorare che il prezzo da pagare sarà ben più alto”.

Traduzione di Romana Rubeo