CRS. Di Romana Rubeo. In quello che ormai sembra un appuntamento ricorrente, martedì 23 marzo i cittadini israeliani si sono recati alle urne, per la quarta volta in meno di due anni.
I risultati parlano, anche in questa occasione, di un sostanziale stallo. Il Likud del Primo Ministro Benjamin Netanyahu resta il primo partito, nonostante la recente scissione che ha portato alla nascita della formazione di Gideon Sa’ar; tuttavia, non supera i 30 seggi e si trova costretto a sfidare fragili equilibri, stipulando accordi che gli consentano di raggiungere i 61 seggi che assicurerebbero la maggioranza nel parlamento israeliano (Knesset).
L’ago della bilancia, mai come in questo caso, sembra essere il partito Yamina, di Naftali Bennett, già pupillo di Netanyahu ed ex ministro in vari governi tra il 2013 e il 2020. A sorpresa, poi, anche il Ra’am, formazione araba di stampo islamista guidata da Mansour Abbas, potrebbe rivestire un ruolo decisivo.
Conventio ad excludendum.
Le elezioni del 23 marzo sono seguite allo scioglimento anticipato delle camere, il 23 dicembre scorso. Quella che allora fu presentata come una crisi sulla legge di bilancio, era, in verità, l’espressione di profonde divergenze politiche. L’ultimo governo, infatti, era nato dalla “strana unione” di Netanyahu e del suo rivale Benny Gantz, ex Capo di Stato Maggiore dell’esercito, riconvertito a un centrismo meramente funzionale a riposizionarsi nel campo avversario.
Sotto la spinta delle pressanti raccomandazioni del Presidente Reuven Rivlin, si era tentata la strada di una pacificazione nazionale, con un accordo che garantisse una certa tenuta di governo al Paese, travolto, come tutto il pianeta, dalla crisi pandemica e già reduce da tre appuntamenti elettorali che non avevano determinato una maggioranza certa.
L’accordo tra Netanyahu e Gantz, poi, era stato motivato soprattutto dalla necessità di escludere la Lista Comune araba da una possibile coalizione di governo. Nel marzo 2020, infatti, i cittadini palestinesi che vivono all’interno dei confini della cosiddetta Linea Verde – cioè entro quello che oggi è lo Stato di Israele – avevano contribuito a far raggiungere un risultato storico alla Lista Comune, che si era aggiudicata ben 15 seggi e si era detta disponibile a una possibile coalizione con Gantz e il suo Kahol Lavan.
Nonostante una campagna elettorale giocata sulla contrapposizione netta al leader Netanyahu, alla sua corruzione e alla sua presunta incapacità di governo, l’ipotesi di accettare la disponibilità della Lista Comune araba fu considerata subito inaccettabile da Gantz, che aveva dunque preferito allearsi con il suo acerrimo avversario, sulla base di un accordo di alternanza nel ruolo di primo ministro.
Questa scelta, che pure condusse alla immediata dissoluzione del cartello elettorale di Gantz e oggi, a un sostanziale crollo percentuale – con il Kahol Lavan che scende da 33 a 8 seggi – era, comunque, l’unica accettabile in un quadro politico permeato da un’agenda sionista, e dunque, dalla necessità di praticare una conventio ad excludendum nei confronti delle forze di rappresentanza della parte araba del Paese.
La tattica di Netanyahu.
Quel governo, però, non è mai riuscito a esprimere solidità e stabilità, quanto mai necessarie in un Paese attraversato da una profonda crisi istituzionale, in cui ormai ogni appuntamento elettorale si trasforma in un vero e proprio referendum sulla persona di Netanyahu che, forte delle sue vittorie a metà, rinuncia a farsi da parte o anche solo a lasciare che si possa immaginare un futuro senza di lui.
La politica israeliana sembra ormai ridotta a una sterile contrapposizione tra un leader stanco e corrotto, sempre più arroccato su posizioni indifendibili, e un ampio campo di natura indefinita, incapace di elaborare una proposta unitaria.
Proprio per superare questo stallo, Netanyahu aveva cercato di solidificare i rapporti con la frangia più estremista dell’elettorato, legata agli ambienti religiosi ultraortodossi e a quelli ultranazionalisti, con una particolare attenzione agli abitanti degli insediamenti coloniali illegali. Negli anni, l’asse intorno a cui si poggia la centralità del Likud si è spostato ulteriormente a destra, tanto che il premier ha siglato delle alleanze pre-elettorali con lo Shas di Aryeh Deri, fortemente rappresentativo degli ebrei ultraortodossi; con lo Yahadut HaTora HaMeuhedet (Giudaismo Unito nella Torah) di Moshe Gafni e Yaakov Litzman; e con il Sionismo Religioso, cartello elettorale di estrema destra ultranazionalista.
Contemporaneamente, però, il premier israeliano ha cercato di esplorare una strada finora non battuta: quella del “dialogo” con la parte araba del Paese. Proprio in considerazione del fatto che, alle elezioni del marzo 2020, la Lista Comune araba aveva riportato un successo strepitoso costringendo, di fatto, gli schieramenti sionisti a fondare una coalizione piuttosto innaturale, Netanyahu ha agito con grande lucidità tattica, cercando di dissolvere l’unitarietà del cartello elettorale e intrattenendo un dialogo con la componente islamista di Ra’am, guidata da Mansour Abbas.
Probabilmente, l’intento del premier era spaccare il voto arabo a tal punto da determinare una totale assenza di rappresentanti all’interno della Knesset. Non è stato scontato, infatti, il superamento della soglia di sbarramento da parte delle due fazioni. Ma il conteggio finale assegna 6 seggi alla Lista Comune araba e 4 al Ra’am, e pone dunque un ulteriore problema per il Likud.
Mansour Abbas, che al momento è ovviamente cauto nel rilasciare dichiarazioni e che sostiene l’assoluta indipendenza del suo partito, lascia però la strada aperta persino a una coalizione con il Likud e con l’estrema destra, in nome di un’idea che vede l’ingresso nell’area di governo, a tutti i costi, come un modo per risolvere i numerosi problemi che affliggono le comunità arabe in Israele.
Per Abbas, dunque, il vizio di origine non risiederebbe in quel sistema di apartheid praticato sistematicamente dai vari governi di Tel Aviv, e che influisce pesantemente anche sulla popolazione palestinese all’interno della cosiddetta Linea Verde, come denunciato di recente da un illuminante rapporto dell’organizzazione israeliana per i diritti umani, B’tselem. Il vizio d’origine sarebbe, a suo avviso, da ricercarsi nel passato immobilismo dei rappresentanti arabi, che lui si sente disposto a superare.
Conciliare l’inconciliabile.
L’eventuale disponibilità di Abbas a partecipare a un governo di estrema destra a guida Likud, però, si scontrerebbe inevitabilmente con il deciso diniego da parte degli alleati di Netanyahu a procedere in questa direzione. Questi movimenti di estrema destra, ultranazionalisti, e talora apertamente razzisti, non sembrano ben disposti ad accettare un governo in cui la componente araba possa rivestire un qualsiasi ruolo.
Bezalel Smotrich, leader del Sionismo Religioso e già membro del parlamento israeliano nelle precedenti legislature, nel 2018 appoggiava apertamente la segregazione razziale, sostenendo che sua moglie non avrebbe mai partorito accanto a una donna araba.
Itamar Ben-Gvir, leader del partito Otzma Yehudit, che ha corso nella stessa formazione di Smotrich, dichiara che il suo “eroe” è Baruch Goldstein, l’estremista ebraico che massacrò 29 palestinesi a Hebron (Al-Khalil) nel 1994. Il suo partito si rifà apertamente alle posizioni del Rabbino Meir Kahane, che vedeva la violenza e la ritorsione nei confronti degli arabi come degli imperativi morali e religiosi per le persone di religione ebraica.
D’altro canto, la presenza in parlamento di queste frange estremiste non è che il riflesso di una società fondata sulla segregazione razziale, in cui gli episodi di violenza da parte dei coloni sono ormai una amara routine per i palestinesi e i giovani più religiosi ritengono che i cittadini arabi vadano espulsi dal Paese.
Dal canto suo, Abbas dovrebbe giustificare alla comunità di appartenenza la vicinanza con questi movimenti estremisti e, presumibilmente, non potrebbe spingersi più in là di un appoggio esterno a un governo di estrema destra come quello che si potrebbe configurare.
Ad ogni modo, i 4 seggi di Ra’am non bastano ad assicurare a Netanyahu una maggioranza stabile, quindi il premier sarà costretto a fare i conti con il suo ex pupillo, Naftali Bennett, e con il suo partito, Yamina.
L’ago della bilancia.
Sebbene i 7 seggi di Yamina non garantirebbero la maggioranza assoluta a un governo a guida Netanyahu – che, senza gli arabi di Ra’am, si fermerebbe comunque a 59 seggi – aumenterebbero però la possibilità, per il premier uscente, di essere incaricato dal Presidente Rivlin per un mandato esplorativo, soprattutto vista la natura assolutamente disomogenea del campo avversario.
È evidente, però, che Bennett aspiri da anni a diventare il futuro leader del Paese e che tutta la sua carriera politica sia stata orientata verso questo fine. Il politico quarantanovenne, nazionalista e religioso, non si è ancora sbilanciato, dichiarando che “agirà guidato da un solo principio: il bene di Israele.” Di sicuro, è consapevole di essere determinante in questa fase, tanto che la stampa israeliana non risparmia titoli forti in merito alla “scelta storica” che è chiamato a compiere o al “dilemma” di fronte a cui si troverebbe.
Negli ultimi anni, Bennett ha cercato di smussare alcuni angoli della sua narrazione, passando da esponente religioso dell’estrema destra a colui che non “usa gli strumenti dell’odio”. Dalle dichiarazioni del 2015, in cui si diceva fermo oppositore della possibile costituzione di uno stato palestinese, perché Israele “era circondato da folli” (ovvero dagli arabi), sembra ora farsi interprete di un campo più largo che, potenzialmente, potrebbe abbracciare parte dei movimenti religiosi, ma potrebbe anche attirare i transfughi del Likud, rappresentati dai 6 seggi del Tikva Hadasha (Nuova Speranza) di Gideon Sa’ar, i centristi del Kahol Lavan di Gantz e quelli di Yesh Atid di Yair Lapid – rispettivamente con 8 e 17 seggi.
La formazione di un governo che escluda Netanyahu è ovviamente anche il sogno di Avigdor Lieberman, già preso dalle trattative per la formazione di un possibile governo alternativo che potrebbe avere il solo scopo di approvare una legislazione che impedisca a un parlamentare sottoposto a processo di candidarsi al ruolo di premier, provando così a mettere fine alla carriera politica di Netanyahu.
Dalle pagine di Haaretz, Noah Landau fa appello a Bennett affinché opponga il gran rifiuto a Netanyahu, e faccia “virare il Paese verso un governo sano” e non verso “l’estrema destra”. È sicuramente singolare che si invochi, per questo compito, proprio colui che, nel 2013, dichiarò: “Ho ucciso molti arabi in vita mia e non vedo dove sia il problema”.
Il Chiaroscuro.
All’indomani delle elezioni, il Primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese ha espresso la sua preoccupazione per la presenza nella Knesset di forze apertamente ultranazionaliste e razziste, perché questo, a suo dire, impedirebbe qualsiasi forma di dialogo. L’amara verità, tuttavia, è che il dibattito interno alla politica israeliana non contempla neanche la possibilità di mettere in discussione l’apartheid, l’occupazione o il mancato rispetto del diritto internazionale.
In un quadro sempre più schiacciato su posizioni di estrema destra e di suprematismo ebraico, la stragrande maggioranza delle forze politiche ha solo un punto essenziale nella sua agenda, oltre alla tenuta o alla rimozione di Netanyahu: difendersi dalla presunta “minaccia esistenziale” rappresentata dalla popolazione araba palestinese.
Questo risultato elettorale non è che il frutto di quella cultura politica che, istituzionalizzando i germi della segregazione e della apartheid, non ha rinvigorito il Paese, ma lo ha, invece, spinto verso una crisi profondissima, una sorta di “chiaroscuro” tra un “vecchio mondo che sta morendo” e un “nuovo che tarda a comparire”.
Romana Rubeo è una giornalista italiana, caporedattrice del The Palestine Chronicle. I suoi articoli sono apparsi in varie pubblicazioni online e riviste accademiche. Laureata in Lingue e Letterature Straniere, è specializzata in traduzioni giornalistiche e audiovisive.