L’omicidio come politica dello Stato israeliano

Palestine Chronicle. Di Jeremy Salt.

“Se i nostri sogni per il sionismo non devono finire nel fumo delle pistole degli assassini e il nostro lavoro per il suo futuro non dev’essere atto a produrre solo una nuova serie di delinquenti degni della Germania nazista, molte persone come me dovranno riconsiderare la posizione che, in passato, hanno mantenuto per tanto tempo”.

 – Winston Churchill, novembre 1944, dal suo discorso alla Camera dei Comuni sull’assassinio da parte di due membri dell’organizzazione terroristica sionista Lehi del ministro residente del Regno Unito Lord Moyne in Medio Oriente.

Tra i crimini di Israele contro l’Iran negli ultimi dieci anni si annoverano il sabotaggio delle centrifughe del programma di sviluppo nucleare utilizzando il virus Stuxnet, l’uccisione tramite attacco missilistico dei membri della sua milizia in Siria, il sabotaggio della centrale nucleare di Natanz nel luglio di quest’anno e l’omicidio, negli ultimi anni, di cinque dei suoi principali scienziati nucleari. L’uccisione più recente, avvenuta negli ultimi giorni, è quella dello scienziato Mohsen Fakhrizadeh.

Tutti questi attacchi sarebbero stati effettuati con almeno l’approvazione del governo degli Stati Uniti, se non con un certo coinvolgimento attivo sia degli Stati Uniti che dell’organizzazione terroristica iraniana da loro controllata, il MEK (Mujahedin e-Khalq). Al contrario, Israele sarebbe stato strettamente coinvolto nell’assassinio da parte degli Stati Uniti di Qasim Suleimani in Iraq nel gennaio di quest’anno.

Questi omicidi saranno anche operazioni di stato, ma non differiscono per sfacciataggine, illegalità e brutalità dai colpi organizzati dalle bande mafiose. Mohsen Fakhrizadeh, un illustre fisico, è stato apparentemente prelevato dalla sua auto durante l’attacco, trascinato in mezzo alla strada e ucciso. Un crimine tanto atroce che persino le voci solitamente ostili all’Iran (incluso il New York Times e l’ex direttore della CIA John Brennan) sono rimaste inorridite.

Ciascuno di questi attacchi sarebbe sufficiente a costituire il casus belli per una guerra. È un gioco a cui si può giocare in due: con questi attacchi, Israele sta virtualmente invitando all’assassinio dei suoi stessi leader politici e comandanti militari o dei suoi alti rappresentanti all’estero. Allo stesso modo, il fatto che non contrattacchi, non significa necessariamente che l’Iran non abbia la capacità di organizzare simili ritorsioni. A parte la criminalità e le violazioni del diritto internazionale rappresentate da tali azioni, l’Iran non risponderà mai in un momento scelto da Israele.

Tuttavia, il governo è messo sotto pressione del suo stesso popolo per l’affronto di un devastante contraccolpo, non necessariamente contro singoli individui, contro le infrastrutture israeliane come il porto di Haifa. Ciascuna di queste provocazioni spinge l’Iran più vicino al limite, proprio come voleva Israele.  Il ripetuto rifiuto da parte del governo di rispondere agli attacchi viene percepito in Iran come un segno di debolezza, poiché più Israele la fa franca, più in là si spingerà in futuro.

Allo stesso tempo, anche se Israele è responsabile, una rappresaglia iraniana innescherebbe una risposta militare su larga scala da parte di Israele e una guerra di violenza inaudita che nessuno sano di mente vorrebbe combattere. Ulteriore segno del vuoto morale che li contraddistingue è che Netanyahu e molti dei fanatici che lo seguono vogliono una guerra del genere e sono pronti a sganciare bombe su reattori nucleari attivi per raggiungere i loro obiettivi.

L’opinione generale sembra essere che Israele abbia fatto tutto questo per impedire a Biden di firmare nuovamente l’accordo nucleare del Piano d’azione globale congiunto (JCPOA) dal quale Trump ha ritirato gli Stati Uniti nel 2018. Potrebbe essere così, ma Netanyahu potrebbe anche aver calcolato che quest’ultimo atto barbarico avrebbe costituito la scintilla che avrebbe acceso la guerra che desiderava da anni. Entrambe le cose l’avrebbero soddisfatto.

I paralleli nella storia non mancano. Per quanto riguarda i tentativi di Israele di far scoppiare una guerra aperta con l’Iran, un parallelo sarebbe la manovra israeliana per trascinare in guerra il presidente egiziano Gamal Abd al Nasser nel 1967. Questa non era una guerra “preventiva”, ma un’altra guerra decisa a tavolino. Infatti, prima della guerra del 1967 ci fu quella del 1948, fatta scoppiare dai sionisti perché era l’unico modo che avevano di conquistare la Palestina, o almeno la maggior parte di essa. L’obiettivo di quella del 1967 era, invece, distruggere le forze armate egiziane, per poi annientare la leadership mondiale di Nasser nel mondo arabo e successivamente occupare il resto della Palestina.

Ebbe un successo sorprendente: tutta la Palestina finì sotto occupazione e l’esercito egiziano fu distrutto. La leadership panaraba di Nasser non fu distrutta, bensì gravemente indebolita dall’incapacità dell’Egitto di vedere la guerra arrivare e difendersi.

Proprio come Israele ha cercato di attirare l’Iran allo scoperto attraverso l’assassinio dei suoi scienziati e il sabotaggio delle sue centrali nucleari, così nell’anno prima della guerra del 1967 decise di portare Nasser allo scoperto attraverso provocazioni lungo la linea dell’armistizio siriano. Queste provocazioni presero la forma di incursioni con trattori corazzati nella ZDC, innescando bombardamenti da parte dell’esercito siriano e poi attacchi aerei da parte di Israele.

Sebbene Israele fosse determinato a distruggere qualsiasi governo nazionalista arabo e lo stesso nazionalismo arabo, l’obiettivo principale di queste provocazioni era Nasser. Era il più grande campione arabo e Israele voleva metterlo in una posizione dove avrebbe potuto attaccarlo. Sapeva che prima o avrebbe dovuto rispondere alle sue provocazioni sul fronte siriano intervenendo sul fronte egiziano.

Quando Israele abbatté sei aerei siriani, nell’aprile 1967, le acque iniziarono a muoversi. I politici israeliani parlarono di spingersi a un punto mai visto prima, di dare una lezione e persino di invadere la Siria e occupare Damasco 15 anni prima della sua invasione del Libano e dell’occupazione di Beirut.

Entro la seconda settimana di maggio, la guerra era considerata inevitabile. Nasser spostò truppe e carri armati nel Sinai e chiese il ritiro della Forza di emergenza delle Nazioni Unite (UNEF) dalla linea dell’armistizio. Sebbene Israele fosse l’aggressore della guerra del 1956, le forze dell’UNEF erano all’interno dell’Egitto perché Israele si rifiutava di accettarle dalla sua parte della linea dell’armistizio e, come al solito, ottenne ciò che voleva.

Il 22 maggio, Nasser chiuse lo Stretto di Tiran, il punto di ingresso al Golfo di Aqaba, ma senza bloccarlo effettivamente al trasporto israeliano. Sotto pressione, tuttavia, per resistere agli israeliani, aveva spostato l’ultimo pezzo sulla scacchiera che aveva preparato il terreno per la guerra.

Israele ripeté la retorica del 1948. Era di nuovo minacciato di sterminio e annientamento per mano di un “anello d’acciaio” arabo. In effetti, sapeva, e così sapeva anche la CIA, che avrebbe sconfitto facilmente qualsiasi esercito o combinazione di eserciti arabi.  Dato il panico deliberatamente scatenato tra la popolazione israeliana, i generali non vedevano l’ora di partire. Avevano promesso di essere sulle rive del Canale di Suez entro una settimana. Questa era un’opportunità che loro stessi avevano creato e che Israele non poteva permettersi di perdere. L’esercito avrebbe sferrato un colpo da KO: secondo Yigal Allon, “Non c’è il minimo dubbio sull’esito di questa guerra e su ciascuna delle sue fasi”.

E così è stato. Dalla parte araba, non c’è il minimo dubbio che Nasser non volesse la guerra. Le sue minacce erano quelle di un campione arabo e il suo pubblico era il mondo arabo, ma dietro le quinte cercava una via d’uscita dalla crisi in cui era stato incastrato. Una delegazione egiziana guidata dal vicepresidente Zakaria Muhi Al-Din sarebbe dovuta volare a Washington il 7 giugno per iniziare i colloqui per porre fine alla crisi il giorno successivo. Tuttavia, il 5 giugno, con l’opportunità per la guerra che stava per sfuggirgli, Israele ha attaccato.

C’è simmetria in tutte queste guerre: Israele interpreta il ruolo della vittima anche mentre si prepara ad attaccare.  Nel 1948, Chaim Weizmann parlò di sterminio assicurando agli americani dietro le quinte che gli eserciti arabi non contavano nulla. L’arroganza israeliana fu frenata nella prima settimana della guerra del 1973, con l’umiliazione per mano di Hezbollah, che poi avvenne nel 2000 e nel 2006. Tuttavia, se c’è una curva di apprendimento, Israele non la vede. Un esempio di ciò che molto tempo fa il senatore statunitense J. William Fulbright chiamava “l’arroganza del potere”.

Israele applica sempre la stessa tattica su piccola e su larga scala: in Cisgiordania e Gaza uccide e massacra e poi, davanti a un’eventuale risposta palestinese, trova la sua motivazione logica per colpi più devastanti. In Cisgiordania, questo concetto di solito si trasforma in ampliamento o costruzione di nuovi insediamenti.

Dal punto di vista sionista, questo è stato un anno buono. A seguito dell’instaurazione di relazioni diplomatiche con Israele da parte degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein, i primi sono arrivati al punto di bloccare i visti d’ingresso ai cittadini di una decina di paesi musulmani e di consentire l’ingresso senza visto agli israeliani.  I colloqui in Arabia Saudita tra Netanyahu e Muhammad bin Salman, apparentemente organizzati all’insaputa del re, aprono la strada all’instaurazione di relazioni diplomatiche, anche se per il momento ciò non è previsto. MbS può dare a Israele quasi tutto ciò che vuole senza bisogno di venire allo scoperto e, in qualità di custode nominale dei due luoghi santi, una tale mossa farebbe infuriare i musulmani di tutto il mondo, con possibili conseguenze esplosive al momento dell’hajj.

I progressi strategici di Israele includono anche la relazione commerciale, militare e strategica che sta stabilendo nel Mediterraneo orientale con la Grecia e il governo greco di Cipro meridionale, che ha già consentito alle unità militari israeliane di addestrarsi sull’isola a causa della somiglianza topografica con il Libano meridionale. Sfruttando con successo le paure dell’Iran nel Golfo, Israele sconfigge la rivalità greca con la Turchia nel Mediterraneo orientale.

Capace di attaccare dal centro delle terre arabe centrali, ovvero la Palestina occupata, Israele si sta spostando costantemente verso una posizione che, alla fine, gli consentirà di minacciare gli stati arabi e l’Iran dalla periferia, dal golfo a sud-ovest e dall’angolo nord-orientale del Mediterraneo. Ha spalancato tutte queste porte e, sulla base della somma dei suoi comportamenti passati, continuerà a spingere fino a ottenere ciò che vuole.

L’assassinio di Mohsen Fakhrizadeh ha antecedenti che risalgono agli omicidi con fuochi d’artificio nei mercati palestinesi negli anni ’30, all’assassinio di Lord Moyne al Cairo il 6 novembre 1944, all’esplosione del King David Hotel nel 1946, all’assassinio del conte Folke Bernadotte nel 1948 e ai massacri e distruzioni che da allora hanno segnato la presenza sionista in Medio Oriente.

Non importa che il nemico sia uno stato, un’organizzazione o un individuo: deve essere distrutto. Il rifiuto permanente della “comunità” internazionale di punire Israele per uno qualsiasi di questi crimini non fa che incoraggiare lo stato sionista a spingersi ancora oltre.

Parlando alla Camera dei Comuni dopo l’omicidio di Lord Moyne, Churchill, un forte sostenitore del sionismo da sempre, ha sottolineato: “Se ci deve essere la speranza di un futuro pacifico e di successo per il sionismo, queste attività malvagie devono cessare e coloro che ne sono responsabili devono essere eradicati completamente”. Queste attività malvagie non sono mai cessate, i responsabili non sono mai stati eradicati completamente, il fumo delle pistole degli assassini ora aleggia su un’intera regione e il sionismo ha prodotto generazioni di criminali pienamente degni della Germania nazista.

Nessuno stato può sopportare all’infinito le provocazioni di Israele. Iran e Hezbollah stanno giocando una lunga partita se paragonata alla voglia implacabile che Netanyahu ha di soddisfazione immediata, ma ad un certo punto si farà chiaro un limite a ciò che possono sopportare. Poi ci sarà la guerra, probabilmente la guerra più devastante nella storia moderna del Medio Oriente. Cosa dirà allora la “comunità” internazionale? Sarà troppo tardi per pentirsi di non aver fatto nulla per fermare Israele prima.

– Jeremy Salt ha insegnato per molti anni all’Università di Melbourne, alla Bosporus University di Istanbul e alla Bilkent University di Ankara, specializzandosi in storia moderna del Medio Oriente. Tra le sue recenti pubblicazioni c’è il suo libro del 2008, The Unmaking of the Middle East. A History of Western Disorder in Arab Lands (University of California Press). Ha contribuito con questo articolo a The Palestine Chronicle.

(Foto: lo scienziato iraniano Mohsen Fakhrizadeh. Immagine: cortese concessione di Al-Mayadeen).

Traduzione per InfoPal di Stefania Solivardi