L'ONU e il conflitto israelo-palestinese.

 
L’ONU e il conflitto israelo-palestinese
Di Terry Rempel, 7 Aprile 2007
 
"Fatti noti notori" e "Fatti ignoti ignorati"
 
Presentando il suo ultimo rapporto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel Dicembre 2006, il segretario generale uscente Kofi Annan lamentò che la "più grande ironia" nell’irrisolto conflitto israelo-palestinese era che non c’era "nessun dubbio serio sul progetto complessivo di una sistemazione finale". L’unica cosa necessaria era una "nuova ed urgente spinta per la pace".
 
La semplice asserzione è diventata una specie di ‘articolo di fede’ tra veterani della diplomazia e analisti politici. L’ex Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld potrebbe definire questa asserzione un ‘fatto noto notorio’ o qualcosa che noi sappiamo di sapere. Il riassunto di Annan sul profilo di una sistemazione finale, comunque, è qualcosa di più specifico della Road Map, riferendosi specificamente ad una soluzione per i rifugiati "coerente col carattere degli stati nella regione".
 
Annan non è stato il primo ad applicare questa interpretazione delle disposizioni della Road map sui rifugiati. La sua posizione è vicina a quella espressa dal presidente USA George W. Bush nell’Aprile 2004 in una lettera di rassicurazioni ad Ariel Sharon, nella quale veniva affermato che "una concordata, giusta, equa e realistica cornice per una soluzione della questione dei rifugiati… dovrà essere trovata nello stabilimento di uno stato palestinese, e nella sistemazione in esso dei rifugiati, piuttosto che in Israele".
 
Lo scorso Dicembre il Primo Ministro italiano Romano Prodi, in base a quanto è stato riportato, avrebbe anch’egli appoggiato questa interpretazione (il primo leader europeo a farlo pubblicamente), sebbene la tv israeliana Channel 10 successivamente abbia trasmesso un filmato che mostrava il primo ministro Ehud Olmert che ‘consigliava’ a Prodi cosa dire. Nello stesso mese, successivamente, il Congresso USA passava il Palestinian Anti-Terrorism Act che formalizzava le sanzioni americane sull’Autorità Palestinese, ed invitava il governo a guida Hamas a riconoscere Israele come ‘Stato Ebraico’.
 
Chiunque avesse ascoltato il ministro degli esteri Tzipi Livni in questi giorni non potrebbe evitare di cogliere lo stesso messaggio. Un futuro stato palestinese, dice Livni, è "la risposta per i rifugiati palestinesi — dovunque essi siano", e se i Palestinesi non "concordassero su ciò, il mondo dovrebbe dirlo al posto loro". Naturalmente, le dichiarazioni della Livni non sorprendono. La vecchia opinione israeliana che la soluzione per i rifugiati palestinesi stia fuori dalle frontiere (ancora da stabilire) di Israele non è un segreto di stato.
 
Ma le osservazioni di Annan sollevano un’altra serie di temi, soprattutto perché il Quartetto ed altri cercano di far ripartire un processo politico per risolvere il conflitto. La loro asserzione che "il profilo complessivo di una soluzione finale" è noto e basato su uno "scambio" tra diritti individuali e collettivi, in altre parole che la ‘pace’, come realizzazione dei diritti collettivi (statualità), ed i diritti individuali (i rifugiati) sono inconciliabili.
 
E’ veramente così che le Nazioni Unite intendono il conflitto e la sua soluzione? Questo breve articolo esamina alcuni dei momenti di passaggio del processo con cui le Nazioni Unite hanno trattato la "Questione della Palestina", con speciale attenzione alla questione dei rifugiati. Si conclude con alcune riflessioni su ciò che sappiamo, o forse, ciò che pensiamo di sapere sul conflitto e la sua soluzione.
 
Un depositario dei diritti
 
In assenza di un intervento del Consiglio di Sicurezza, l’Assemblea Generale è diventata un ‘depositario’ (nel senso migliore e peggiore della parola) della questione palestinese negli scorsi sei decenni. L’assemblea e i suoi organismi sussidiari, compreso il Consiglio (già Commissione) sui Diritti Umani, hanno riaffermato importanti principi legali, posto meccanismi per monitorare ed implementare quei principi, ed ha intrapreso azioni — politiche, umanitarie, e legali — quando il Consiglio di Sicurezza ha mancato di farlo.
 
Le Deliberazioni dell’Assemblea hanno originariamento appoggiato la sostanziale complementarietà del diritto collettivo (l’auto-determinazione) e dei diritti individuali (il diritto al ritorno dei rifugiati, di restituzione e compensazione) in Israele/Palestina. Mentre questo dibattito riguarda spesso l’era post-1948, esso può essere retrodatato al 1947, quando le Nazioni Unite ‘ereditarono’ la questione della Palestina dai Britannici.
 
Il Piano di partizione del 1947 fu il primo tentativo dell’Assemblea Generale di affrontare le rivendicazioni dei Palestinesi e del movimento sionista sullo stesso territorio. Mentre la raccomandazione a ‘mettere da parte’ le rivendicazioni della maggioranza della Palestina (per un solo stato democratico) fu vivacemente disputata, l’Assemblea la fece propria solo fornendo completa protezione per i diritti individuali di tutti gli abitanti della nazione. La disposizioni relative alla cittadinanza e alla proprietà affermavano essenzialmente il diritto degli abitanti della Palestina a non essere deportati o espropriati delle loro proprietà. In effetti, l’Assemblea stava dicendo che il riconoscimento del diritto collettivo all’auto-determinazione (la statualità) di ogni comunità attraverso la partizione non poteva essere usata per restringere arbitrariamente o violare i diritti dei singoli Arabi ed Ebrei.
 
La stessa formula può essere ritrovata nella importante presa di posizione da parte dell’Assemblea Generale sulla questione palestinese di trent’anni più tardi. In un piano proposto nel 1976, l’Assemblea invitava alla creazione di uno stato palestinese nella West Bank e nella Striscia di Gaza, e prevedeva un ritorno a scaglioni dei rifugiati, prima verso i Territori Occupati Palestinesi, e successivamente con il ritorno dei profughi del 1948 nei loro luoghi di origine in Israele. Ciò veniva approvato nella Dichiarazione di Ginevra sulla Palestina del 1983, e nel Programma di Azione per la Realizzazione dei Diritti Palestinesi. L’entrata in vigore della Convenzione sull’Eliminazione di Tutte le Forme di Discriminazione (CERD) e la Dichiarazione Internazionale dei Diritti rafforzarono ulteriormente questo approcci
o, sebbene ci sarebbero voluti altri due decenni (tre nel caso del CERD) prima che gli organismi delle Nazioni Unite che monitorano l’implementazione di questi strumenti emettessero sostanziali giudizi sulla questione dei profughi palestinesi.
 
Il ‘Decisore decide’
 
Ma se l’Assemblea Generale ed i suoi organismi sussidiari sono i depositari per la questione della Palestina, compreso i diritti dei profughi, il Consiglio di Sicurezza è spesso stato, nelle parole di George W. Bush, il ‘decisore’. Ed è il ‘decisore’ che ha deciso l’agenda di costruzione della pace. Ciò ha avuto luogo attraverso un duplice processo che riguardava (1) il bloccare iniziative ‘indesiderate’ (28 veti, tutti espressi dagli Stati Uniti, dal 1973, quando il Consiglio considerò per la prima volta la questione dei diritti dei Palestinesi, e (2) la definizione dei ‘principi di pace’ che oggi forniscono la cornice della sistemazione finale, cioè le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza 242 (1967), 338 (1973), 1397 (2002); e 1515 (2003).
 
A differenza dell’Assemblea Generale, il Consiglio ha generalmente promosso i diritti collettivi ‘a spese’ dei diritti individuali. In tre separate occasioni — due volte nel 1976 ed ancora nel 1980 — gli Stati Uniti hanno posto il veto a proposte di risoluzione (insieme al Piano di Pace del 1976 dell’Assemblea Generale) che riaffermava i diritti dei profughi palestinesi a tornare alle loro case, ed il diritto del popolo palestinese all’auto-determinazione. La Risoluzione 237 del Giugno 1967 riafferma il principio del ritorno ma solo in relazione a quei profughi scacciati dalla guerra del 1967 ma che provenivano dai Territori Occupati, l’unità di autodeterminazione per un futuro stato palestinese. La Risoluzione 242 del Novembre 1967 invita ad una ‘giusta composizione’ della questione dei profughi; non discute il diritto di autodeterminazione. Ci vorrà un altro decennio e mezzo prima che il Consiglio di Sicurezza approverà i diritti di autodeterminazione dei palestinesi attraverso una soluzione a due stati, sebbene il termine ‘autodeterminazione’ non è usato nella risoluzione 1397.
 
La Risoluzione 242 ha anche spostato la sostanza del processo di pace in Israele/Palestina da un’impostazione basata sui diritti ad una formula politica ("Territori in cambio di pace"). In contrasto con la chiarezza dell’approccio dell’Assemblea Generale al conflitto e alla questione dei profughi in particolare — ad esempio, i profughi hanno il diritto di tornare alle loro case, rientrare in possesso delle proprietà, e ricevere compensazioni per i danni — la cornice tracciata dal Consiglio di Sicurezza è caratterizzata da ‘ambigua creatività’ (ad esempio, cosa significa una ‘giusta composizione’ del problema dei rifugiati?) che si conforma ad un approccio politico. Ma mentre il Consiglio di Sicurezza non ha riaffermato i diritti dei rifugiati palestinesi, esso nan ha neppure (ancora) fatto sua l’idea di uno stato ebraico definito nei termini di Israele e alluso da Kofi Annan. Fare questo porrebbe il Consiglio in potenziale conflitto con i meccanismi delle Nazioni Unite relativi ai diritti umani.
 
A differenza dell’iniziativa dell’Assemblea Generale del 1976, stilata in cooperazione con i Palestinesi (22), La Risoluzione del Consiglio 242 fu adottata in assenza di una rappresentanza palestinese ed era essenzialmente imposta all’OLP come condizione per un coinvolgimento politico. Pertanto, mentre la RCS 242 ("Territori in cambio di pace") e la 1937 ("Due stati" — cioè, la seconda partizione), in particolare delineano l’"ampio profilo di una sistemazione finale", nella misura in cui propongono una condivisa visione del futuro — ad esempio, i i fatti noti notori — deve essere vista alla luce del fatto che il Consiglio di Sicurezza effettivamente "ha cambiato le priorità dellagenda articolate" dai Palestinesi. Inoltre, recenti sondaggi di opinione aiutano poco a decifrare l’appoggio popolare all’approccio del Consiglio, dal momento che essi vengono fatti solo tra i Palestinesi che vivono nei Territori Occupati.
 
Fatti ignoti ignorati?
 
E’ diventato un ‘articolo di fede’ quale sia la soluzione del conflitto, e sempre più si suggerisce che essa consiste in uno scambio tra diritti collettivi e diritti individuali, tale che i rifugiati non tornino alle loro case di origine in Israele. Le Nazioni Unite stesse sono divise sulla definizione del conflitto e sulla sua soluzione. L’Assemblea Generale e i suoi organismi sussidiari generalmente affermano la essenziale complementarità dei diritti individuali e collettivi. Il Consiglio di Sicurezza ha semplicemente aggirato l’Assemblea, promuovendo una soluzione che non offre un matrimonio, ma piuttosto un permanente divorzio del collettivo dall’individuale.
 
Dal momento che gli sforzi si indirizzano al rinnovamento dei contatti politici, potrebbe valer la pena di riesaminare se i "fatti noti notori" di Annan non siano di fatto "fatti ignoti ignorati" o, come Donald Rumsfeld spiega, qualcosa che noi non sappiamo di non sapere (ma che si presume dovremmo sapere). Le parti in causa, e non solo le elite, accettano davvero la composizione finale proposta dalla Road Map, come è stato chiarito dal Presidente Bush ed ora da Kofi Annan? Persino Annan sembra mostrare qualche dubbio, suggerendo che Israele ha bisogno di "capire" e "riconoscere" le "fondamentali obiezioni palestinesi… in particolare, che la nascita dello stato di Israele ha comportato l’espropriazione per centinaia di migliaia di famiglie palestinesi, e è stata seguita 19 anni dopo da un’occupazione militare che ha portato altre centinaia di migliaia di Palestinesi sotto il controllo israeliano".
 
Una via di uscita è la democratizzazione del processo di pace. Come Jarat Chopra e Tanja Hohe osservano in un recente articolo sui processi internazionali di pace e la governance globale: "Ciò che è realizzabile è una transizione di più lungo periodo nel quale si dia spazio a voci locali perché si esprimano e perché le comunità siano direttamente coinvolte nell‘evoluzione delle loro basi politiche e culturali, come parte di una graduale integrazione nell’apparato di uno stato nazionale. Questo significa dare tempo ad un paradigma indigeno di coesistere, o trasformarsi gradualmente durante la creazione di moderne istituzioni. Parte integrante del processo è la progettazione di meccanismi per una vera partecipazione popolare in organismi amministrativi a livello locale, che può anche garantire rappresentanza
verso l’alto per tutto il processo di costruzione del governo, così da assicurare la sua praticabilità sociale". 
Terry Rempel è un consulente di Badil ed un professore associato persso l’Università di Exeter nel Regno Unito. Attualmente sta lavorando sulla partecipazione dei rifugiati nella preparazione di accordi di pace.
 
Traduzione Gianluca Bifolchi

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