Medio Oriente: la fine dell’era dominata dall’Occidente

palestinian_land_loss.jpg_1718483346PIC. No, non è stata soltanto “un’altra conferenza di pace sul Medio Oriente”, come un cronista del Jerusalem Post ha cercato di descrivere, la Conferenza di Pace tenutasi a Parigi il 15 gennaio scorso, alla quale hanno partecipato i più alti rappresentati di 70 paesi. Se lo fosse stata, infatti, solo “un’altra conferenza di pace”, anche i rappresentanti del governo israeliano e dell’Autorità Palestinese (ANP) vi avrebbero preso parte.

Si è trattato, invece, di un avvenimento decisivo che probabilmente non dimenticheremo: la ricorderemo come la conferenza che ha ufficialmente messo fine, dopo 25 anni, alla pantomima del processo di pace.

Infatti, se la Conferenza di Madrid dell’ottobre del 1991 fu il vibrante inizio dei colloqui di pace tra Israele ed i suoi vicini arabi – compresi i Palestinesi – quella di Parigi del gennaio 2017 rappresenta la triste fine dei colloqui.

Non appena iniziarono i colloqui di Madrid, le energie positive e le aspettative che li accompagnavano cominciarono subito a svanire. Ancor prima che i colloqui iniziassero, Israele aveva già stabilito delle trappole politiche ed innalzato degli ostacoli. Ad esempio, il rifiuto di trattare direttamente col gruppo di negoziatori palestinesi guidato dal compianto Haidar Abdul-Shafi (poiché, per quanto riguardava gli israeliani, i Palestinesi non esistevano), ed inoltre si lamentarono del fatto che il negoziatore, Saeb Erekat, indossava il foulard tradizionale palestinese (kefiyah).

Sono trascorsi 25 anni da quel primo incontro. Da allora, molti componenti della delegazione palestinese originaria sono scomparsi; altri sono invecchiati parlando di pace, ma senza riuscire a vederla. L’allora giovane Erekat è divenuto il “capo negoziatore” dell’Autorità Palestinese, ma di nuovo senza aver niente di cui parlare.

Cosa è rimasto effettivamente da negoziare, dal momento che Israele ha raddoppiato le sue colonie illegali in Cisgiordania e a Gerusalemme Est? Quando il numero di coloni ebrei è passato da un trascurabile 250.000 (nel 1993) ad oltre 600.000? Quando la rapidità con la quale si sono persi terreni palestinesi è aumentata come non mai in precedenza, dopo la guerra e l’occupazione del 1967? Quando Gaza è stata messa sotto chiave da oltre 10 anni, e sta soffrendo a causa delle guerre, dell’acqua contaminata e della malnutrizione?

Tuttavia, gli americani hanno continuato. Avevano bisogno del processo di pace. E’ un investimento americano, prima di tutto, perché la reputazione americana e la loro leadership dipendono dai negoziati.

“Noi siamo un tutt’uno con Israele”, ha dichiarato il professor John Mearsheimer, co-autore del libro “Israeli Lobby”, durante una recente intervista. “Come agisce e come si sviluppa Israele conta moltissimo per la reputazione dell’America”.

“Questo è il motivo per cui il presidente Obama – e il presidente George W. Bush prima di lui, e il presidente Clinton ancora prima – ha fatto di tutto per promuovere la soluzione dei due stati”.

E più precisamente. Hanno continuato ed hanno fallito, ed hanno nuovamente fallito ed ancora fallito fino a quando la soluzione dei due stati (che non è mai stata cercata seriamente, tanto per cominciare) è divenuta una questione remota e, col tempo, impossibile.

Il centro politico di Israele si è velocemente spostato verso destra guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu, gli USA hanno mantenuto le proprie posizioni, come se ignorassero il fatto che “la realtà sul terreno” aveva cambiato il panorama politico in modo quasi irriconoscibile.

L’ex-presidente Barack Obama ha cominciato la propria carriera con quella che alcuni considerano come una seria spinta verso un ritorno ai colloqui, che erano stati interrotti o bloccati durante l’amministrazione di George W. Bush. Egli aveva inviato il senatore George Mitchell, le cui capacità di negoziatore nel 2010 e 2011 non riuscirono a smuovere Israele dalla sua posizione ostinata a proposito dell’espansione delle colonie, e, ancora, ha inviato il suo segretario di stato, John Kerry, che provò senza successo a ridar vita ai colloqui tra il 2013 e il 2014.

Obama ha forse capito, ad un certo punto, che gli sforzi erano inutili. All’inizio Netanyahu sembrava avere una maggiore influenza sul congresso americano rispetto allo stesso presidente. Non è un’esagerazione. Quando Netanyahu si scontrò con Obama a proposito dell’accordo nucleare con l’Iran, umiliò il presidente americano e fece un discorso davanti al congresso riunito nel marzo 2015, durante il quale castigò Obama ed il “cattivo accordo” raggiunto con l’Iran. Obama apparve allora abbandonato da tutti ed irrilevante, visto che i rappresentanti del popolo americano avevano applaudito lungamente il leader di un paese estero, che si vantò, sbraitò, e si permise di attribuire colpe ed elogi.

L’ultimo discorso nostalgico tenuto da Kerry alla fine di dicembre è stato un indizio di questo fallimento epico, la sintesi del quale è stata che tutto era finito. In ogni caso, sia Kerry che Obama non hanno nessun’altro a cui dare la colpa, se non loro stessi. La loro amministrazione aveva il peso politico ed il mandato popolare per fare pressione su Israele, ed i giusti poteri che potevano servire come base per qualcosa di più sostanziale. Ma hanno scelto di non agire.

Ed ora il presidente degli Stati Uniti è un magnate immobiliare, Donald Trump. Egli arriva con un programma inquietante che sembra identico a quello dell’attuale governo israeliano, composto da personaggi di destra ed ultra-nazionalisti.

“Ora siamo arrivati al punto in cui gli inviati da un paese all’altro potrebbero quasi scambiarsi i posti”, come ha scritto sul New Yorker il professore palestinese Rashid Khalidi.

“L’ambasciatore israeliano a Washington, Ron Dermer, che è cresciuto in Florida, potrebbe essere altrettanto facilmente l’ambasciatore americano in Israele, mentre l’ambasciatore designato in Israele da Donald Trump, David Friedman, che ha stretti legami col movimento dei coloni israeliani, sarebbe un buon ambasciatore a Washington per il governo pro-colonie di Benjamin Netanyahu”.

E questo è tutto, lo spettacolo è finito. L’era del processo di pace è alle nostre spalle, ed i primi segni indicano che anche i Palestinesi se ne rendono conto visto che stanno palesemente cercando delle alternative alle prepotenti amministrazioni USA.

In realtà, le amministrazioni guidate da George Bush, Bill Clinton, George W. Bush e Obama hanno tutte dato l’idea che la pace fosse a portata di mano, che Israele avrebbe accettato dei compromessi, che doveva essere esercitata pressione (soprattutto sui Palestinesi) per porre fine all’apparentemente “conflitto” paritario, che gli USA erano una parte neutrale, onesto mediatore imparziale, equo.

Agli israeliani non interessa giocare fino a quando il gioco non mette a repentaglio il loro programma di colonizzazione nei territori occupati; la leadership palestinese (per la maggior parte non eletta col voto) ha partecipato, cercando fondi e riconoscimento politico insignificante; ed il resto del mondo, comprese le Nazioni Unite, hanno guardato da lontano oppure hanno giocato il ruolo marginale a loro assegnato.

Ma adesso Israele non ha più bisogno di accettare le regole del gioco, semplicemente perchè i mediatori americani, essi stessi, non hanno più nessun interesse. Trump capisce che il suo paese non può più permettersi di controllare poliziescamente un mondo unipolare e non ha interesse ad accettare la sfida con un Israele regionalmente forte.

Nonostante Trump abbia iniziato la sua campagna presidenziale promettendo di mantenersi ad una distanza uguale da Palestinesi ed Israeliani, si è poi diretto verso un’unica direzione, estremamente allarmante – con la promessa di spostare l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme provocando, quindi, in questo modo, un’altra rivolta palestinese.

Sapendo che gli USA non sono più un alleato, i cosiddetti Palestinesi moderati sono ora alla ricerca di alternative. Il giorno dell’investitura di Trump, con una festa sontuosa senza precedenti considerata la più costosa nella storia americana, le fazioni palestinesi si sono incontrate non a Washington, a Londra o a Parigi, ma a Mosca.

La notizia di un accordo che vedrà l’ingresso sia di Hamas che della Jihad Islamica nella Palestine Liberation Origination ha ricevuto poca copertura mediatica, ma ciononostante, è stata la naturale conseguenza. Il momento (l’investitura di Trump) ed il luogo (Mosca) significano un reale cambio politico nel Medio Oriente.

Ma a cosa è servita la Conferenza di Parigi? Si è trattato dell’ultimo tentativo franco-europeo-americano di mostrare una certa importanza in una regione che è enormemente cambiata, in un processo che esisteva soltanto sulla carta, in un panorama politico che si è troppo complicato e diversificato per gente come Francois Hollande (un grande sostenitore di Israele, tanto per cominciare) perchè potesse avere un minimo di importanza.

No, non si è trattato soltanto di “un’altra conferenza di pace sul Medio Oriente”, ma la fine di un’era. L’era americana in Medio Oriente.

Traduzione di Aisha Tiziana Bravi