Memo: il cambio di strategia dei Fratelli Musulmani per ora potrebbe essere la cosa migliore

Memo. Di Daud Abdullah. Per molti osservatori, l’attuale crisi egiziana presenta un’evidente somiglianza con quella del 1954. Gli attori principali sono gli stessi, così come i problemi.

Anche allora ci fu una lotta politica feroce tra uno dei capi del colpo di stato, il Generale Maggiore Muhammad Naguib, e il suo commilitone nel Consiglio del Comando della Rivoluzione (Rcc), il Colonnello Gamal Abdel Nasser. La frattura raggiunse il culmine il 25 febbraio 1954, con l’annuncio dell’Rcc delle dimissioni di Naguib, che portò decine di migliaia di persone nelle strade del Cairo. Nella città non si era mai vista una cosa simile. Proprio come oggi, la richiesta del popolo era il ritorno incondizionato del presidente e del controllo parlamentare.

Una volta aperti gli argini della protesta, fu quasi impossibile richiuderli. Nemmeno la reintegrazione di Naguib e il suo personale appello dal balcone del Palazzo Abdin furono sufficienti a convincere gli infuriati manifestanti a ritornare alle loro case. Alla fine fu necessario un appello da parte di uno dei leader dei Fratelli Musulmani, Abdul Qadir Audah, per farli sgomberare dalla strada. Il suo evidente potere e la sua popolarità avevano inquietato i capi del colpo di stato, e questo gli costò la vita: poco dopo quegli eventi venne giustiziato. Il defunto Farid Abdul Khaliq, che visse quei giorni tumultuosi, scrisse che Audah non credette mai, nemmeno mentre camminava verso la forca, che sarebbe stato veramente ucciso.

Oggi nessuno sembra in grado o sembra volere porre fine alle proteste e ai sit-in che dal colpo di stato militare del 3 luglio si sono diffusi a macchia d’olio per tutto l’Egitto.

Per quanto gli attuali artefici del colpo di stato siano intenzionati ad accerchiare i capi dei Fratelli Musulmani come nel 1954, stanno trovando la cosa molto più ardua rispetto ai loro predecessori. I capi della Fratellanza sono molto meno accondiscendenti e molto più inflessibili. Il Generale Abdul Fattah Al-Sisi e le sue foglie di fico politiche civili, sembra, non si aspettavano questa risposta dal movimento.

Non sono solo i militari egiziani ad avere questa sensazione. I mediatori regionali del potere e gli attori internazionali sono stati abituati per decenni ad una Fratellanza docile e timida, che accettava la propria persecuzione con una sottomissione quasi totale.

Il movimento islamico ha, sembrerebbe, una nuova strategia, esemplificata nella posizione del vice della guida suprema, Khairat Al-Shater, che ha rifiutato di negoziare con la delegazione internazionale guidata dagli USA che cercava di incontrarlo nella sua cella di prigionia. Una simile caparbia adesione ai princìpi è stata mostrata dal Presidente Mohammed Morsi stesso, con il rifiuto del fatto compiuto della propria deposizione da parte dell’ufficiale dell’esercito che egli stesso aveva nominato quale suo Ministro della Difesa.

Diversi fattori hanno influenzato questo cambio di strategia. Oggi i Fratelli Musulmani hanno una legittimità politica e un mandato. Hanno vinto cinque elezioni dal rovesciamento del regime di Mubarak nel gennaio 2011. In queste circostanze, la Fratellanza sta difendendo la volontà popolare e la scelta della maggioranza degli egiziani, una cosa che gli oppositori non riescono a riconoscere e ad accettare.

Su un piano diverso, all’interno dell’organizzazione c’è una forte consapevolezza del fatto che in quest’occasione ogni compromesso avrebbe conseguenze disastrose non solo per loro, ma anche per i movimenti che hanno ispirato in tutta la regione. Si è già scatenata in molte nazioni un’ondata di forze anti-islamiche. Le loro campagne stanno acquistando slancio, a partire dagli Emirati Arabi Uniti, dove molte persone sono state imprigionate e torturate, fino alla Tunisia, dove il vecchio regime sta tentando il ritorno. Nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza l’ostilità e le minacce contro Hamas crescono ogni giorno.

Per questo, l’Egitto dei Fratelli Musulmani non sta semplicemente difendendo il proprio interesse nazionale, bensì il progetto di una rifioritura islamica in Medio Oriente in tutte le sue manifestazioni. Ogni segno di compromesso darebbe al suo arci-rivale, il movimento jihadista, l’opportunità di compiacersi per aver avvertito la Fratellanza sul fatto che la strada democratica che promuove sia una panacea mitologica, che la speranza promessa all’inizio della Primavera Araba fosse in realtà una falsa speranza basata su una falsa premessa chiamata democrazia.

La battaglia, oggi, non è certo esistenziale, perché le credenze e le dottrine non muoiono. C’è, tuttavia, un pericolo storico e generazionale di fronte ai Fratelli Musulmani.

Se gli artefici del colpo di stato non scendono a compromessi, la regione sperimenterà una battaglia di attrito lunga e protratta nel tempo, come quella che è stata vista in Iran negli ultimi giorni del regime degli scià. La Rivoluzione Islamica non è accaduta in una notte: è iniziata nel 1977 con proteste relativamente piccole, che entro il 1979 si sono accresciute in una forza inarrestabile.

Alla fine, le consequenze di quelle proteste hanno avuto vasta portata: hanno dato la scossa all’esercito. Questo può succedere in Egitto, dove non solo assisteremmo alla rimozione di Al-Sisi e dei suoi funzionari, ma anche alla dottrina stessa che sostiene il ruolo dell’esercito – obbedienza alla volontà di America e Israele, come è stato il caso dell’esercito iraniano nel 1979. Come l’Iran, l’Egitto potrebbe vedere l’emergere di un esercito ideologico che rimpiazzi i sicari assoldati al miglior offerente.

Per ora la Fratellanza non ha altra opzione se non la fermezza. La consolazione è che i venti del cambiamento stanno soffiando forti in suo favore. I numeri della protesta stanno crescendo e i sostenitori del colpo di stato diminuiscono. La nuova strategia, per ora, potrebbe davvero essere la cosa migliore.

Traduzione per InfoPal a cura di Elisa Proserpio