Missione al-Marhama tra la desolazione e la resilienza dei campi profughi in Libano

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Di Sara Mahrach, Convoglio umanitario Al Marhama, Marzo 2016
Associazione Benefica di Solidarietà con il popolo palestinese – Abspp onlus

Primo giorno nei campi profughi Al Jalil, Barr Ilyas, Baalbak e Taalbaya nella valle di Al-Biqaa
Secondo giorno Campo profughi Al-Badawi a Tripoli
Terzo giorno – Campo profughi Burj Al Barajneh, visita agli studenti di Gaza all’università di Tripoli, e visita al mausoleo e cimitero di Sabra e Shatila.

Occhi grandi, piccoli, chiari, sorridenti, bisognosi, ospitali, stanchi.
Sorrisi sconvolgenti, complici, disperati, fiduciosi.
Cuori che impacchettano grandi speranze nonostante le anime cariche quasi oltre ciò che riescano a sopportare.
Tanti volti, quanto le storie che raccontano i loro sguardi. Ci siamo sentiti così piccoli di fronte a tanta forza e coraggio nella loro lotta contro l’odore mefitico della morte.
Tracce e conseguenze della guerra ovunque volgiamo lo sguardo, macerie nelle vie e nei cuori e silenziose preghiere assordanti. Ciò che porta la guerra è ben oltre ogni nostra comprensione.

Seduti ad aspettare gli aiuti umanitari che l’ABSPP assicura loro quasi ogni mese – un pacco viveri, una coperta, un materasso e gasolio ad ogni famiglia – ci sono uomini donne, bambini, anziani, malati e piccoli fagotti tra le braccia delle loro giovani madri, ancora incuranti di ciò che hanno intorno.
Tutti intenti ad aspettare il loro turno con impazienza, facendo scorrere davanti agli occhi le immagini delle prove che il destino ha riservato loro, ma a loro non importa, sono abituati ad aspettare.

Ascoltano le parole incoraggianti e di speranza che Mohammad Hannoun, il leader del convoglio, rivolge loro. Tra gli applausi e gli “amin”, si respira nell’aria la percezione del loro bisogno di sostegno morale che quasi sfiora quello materiale.

Qui, nei campi della disperazione, persino un sorriso, una carezza, una parola di conforto può fare la differenza!

Un’anziana signora si avvicina a noi, e seppure il dono della parola le sia stato strappato via dalle atrocità della guerra, cerca di comunicarci il dolore che porta dentro da ormai troppo tempo. Le rughe che le caratterizzano il viso raccontano il suo passato. I suoi occhi demotivati, piccoli e chiusi, si aggrappano con tutte le forze ai nostri.
Chiedono aiuto, chiedono comprensione, chiedono un abbraccio che non le è stato negato da nessun componente del gruppo. Chiedono “du’a” e con il suo sguardo triste, chiede di far arrivare anche la sua storia in quelle lontane terre d’occidente dove regna la pace, in onore del ricordo dei suoi cari.
Lei chiede, con la sua lingua dolce e incomprensibile, solo un pacco viveri e un po’ di consolazione.
Dopo aver chiesto la sua storia a una delle responsabili del campo, ci racconta che oltre al cancro, l’anziana signora soffre di sordità e mutismo causati dallo shock subito alla morte di suo marito e di alcuni figli in Siria.

Un’altra giovane signora ci racconta di come suo marito sia stato ingiustamente imprigionato pochi mesi dopo il loro matrimonio, lasciandola incinta del loro piccolo Mohamad Khaled e completamente sola sul territorio libanese senza alcun tipo di sostegno.
Il piccolo ha avuto la possibilità di vedere suo padre una sola volta da quando è nato, dietro due finestrelle, senza poterlo sfiorare, abbracciare senza poterlo guardare negli occhi e sentire quell’affetto paterno di cui tutti hanno bisogno.

Fuori dal campo, un signore scolpisce una profonda ferita nel nostro cuore con la sua gentilezza e la sua umiltà. Il suo invito alla sua “casa” nonostante non abbia una casa, il suo offrire quel poco o niente che possiede e scusandosi con un triste sorriso disegnato sul viso per non poter fare di più, ci ha fatto ripensare a quanto abbiano noi invece da offrire.

La sensazione d’impotenza di fronte a queste situazioni è forte quanto la voglia di impegnarsi di più per questa gente che sorride nonostante tutto.
Questo signore ci dice “noi qui, siamo costretti a sacrificare i nostri figli pur di assicurare loro un futuro”. Racconta di quando la vita lo mise a dura prova, facendogli scegliere tra avere con sé suo figlio di 13 anni in mezzo alla miseria e alla fame o lasciarlo a tentare la sorte tra le onde di un mare inaffidabile volgendo lo sguardo verso le terre della speranza.
E noi immaginiamo il dolore, immaginiamo le sensazioni opporsi tra di loro. Immaginiamo quell’ultimo abbraccio che non vuole dividersi, e le parole d’amore strazianti al momento dell’addio.
Immaginiamo, perché oltre all’empatia e ad una piccola fetta di dolore in confronto al suo, non sappiamo che altro provare.

E lo ammettiamo. Ammettiamo di non essere riusciti a trattenere le lacrime. Ammettiamo che di fronte a tutta quella sofferenza e tutte quelle storie tutto il nostro coraggio svanisce, e tutta la nostra forza ci abbandona.

I bambini, i veri protagonisti di questa tragedia, ci guardano, ci seguono, si avvicinano, altri si allontanano spaventati. Alcuni ci dicono i loro nomi, l’unica cosa rimasta loro della loro identità, altri si nascondono dietro le gambe dei genitori e ci guardano con occhi tristi e spaventati.
Urlano la loro esistenza, tramite semplici sguardi, tramite timidi sorrisi. Urlano “noi ci siamo”, “esistiamo”, “noi siamo concreti”, “siamo esseri umani”, “non siamo solo un servizio televisivo”, “non siamo una foto che gira per il web che commuove oggi e viene dimenticata domani”, “la nostra fame non passa, come le vostre mode di cambiare foto profilo. La morte è sempre dietro l’angolo, la malattia ci uccide, il freddo, il caldo, la disperazione, le lacrime ci inseguono.
Noi siamo qui, e abbiamo bisogno di voi per far arrivare la nostra voce.
Mentre offriamo loro una caramella o un cioccolatino, alcuni felici la prendono e ci sorridono diffidenti si rifiutano”.
Chissà quali atrocità hanno visto, chissà quanto dolore hanno provato, chissà chi hanno perso, chissà…

A Burj el Barajneh la situazione è ancora peggiore.
I fili elettrici che ci fanno da cielo ravvicinato scorrono sopra le nostre teste in tutte le vie, che intrecciate contemporaneamente con i tubi dell’acqua causarono 15 morti nel campo.
Camminiamo guardandoci intorno, con occhi dispiaciuti e increduli come l’umanità possa ridurre i propri simili a tali condizioni per il potere e per il denaro.
Le baracche consistono in piccole stanze malmesse e ammuffite a causa dell’umidità e le condizioni degli utensili casalinghi arrivano quasi all’impossibilità di utilizzo.
Tutte le famiglie sono in condizioni economiche e salutari a dir poco devastanti.
Cerchiamo di visitare le famiglie meno fortunate per poter offrire loro un aiuto in più.
La nostra visita comincia da un signore disabile, con una grave malattia al cuore, gravi problemi alle articolazioni, diabete e così tante altre che la memoria si rifiuta di ricordare.
I suoi familiari ci raccontano di come la sua vita prosegue solamente grazie alla misericordia di Dio e con l’aiuto di medicinali giornalieri, senza i quali non potrebbe vivere. Ma i costi sono eccessivi, e gli aiuti umanitari non sono mai sufficienti a coprire il fabbisogno.

Proseguiamo da una famiglia composta da 7 membri che condividono due piccole stanzette. Dopo averci invitati ad accomodarci, la madre ci racconta della loro situazione familiare: anche qui i problemi di salute di tutti i componenti della famiglia non mancano e la lista è molto lunga.

L’unica sana della famiglia è la piccola Stulin di 1 anno e mezzo, ma sana in queste condizioni rimane solo una metafora, come può essere sano chi da quando nasce conosce solo la guerra?

Abbiamo tentato di visitare anche il campo profughi Nahr Al Bared, ma purtroppo non ci è stato accordato il permesso. Su alcuni campi i controlli sono molto rigidi e la visita rischiosa.

Nahr Al bared è uno dei più grandi campi profughi che ospita rifugiati dal 48 fino ad oggi.
La densità di popolazione è molto alta il che rende le condizioni di vita molto difficili.
Le baracche non bastano per i 35.000 abitanti e non permettono un’adeguata esistenza:  le condizioni delle baracche non permettono la sopravvivenza né per il freddo gelido dell’inverno né per il clima afoso dell’estate.

Tuttavia, i rifugiati sopportano. Sopportano in quanto per loro i campi profughi sono simbolo del “ritorno”, e sopportano perché non hanno alternative oltre alla pazienza e alla resistenza.
Alcune famiglie affittano alcune baracche da privati, ma il costo, 250 dollari, è troppo elevato per le loro condizioni.

L’Unrwa aveva promesso di dare i 250 dollari a tutte le famiglie ogni mese, ci racconta il responsabile del campo, sheikh Zayd, ma ora li ha abbandonati del tutto.
Il divieto per i palestinesi e siriani di lavorare regolarmente sul territorio libanese ha reso la vita dei rifugiati ancora più critica: il lavoro è quasi assente, le professioni come medico, avvocato, insegnante, giudice e tutte le professioni pubbliche sono del tutto vietate, alcuni fanno piccoli lavoretti all’interno dei campi profughi, in nero, per potersi procurare l’alimentazione giornaliera, altri vivono unicamente di aiuti umanitari, ma per quanti aiuti possano arrivare, non basteranno mai a sfamare la loro fame di giustizia e ridare loro la dignità della quale sono stati privati, e di cui tutto il mondo è spettatore silenzioso.

Le sofferenze dei rifugiati sono molte e toccano ogni ambito: mancano i diritti umani, i diritti civili; è vietato per i rifugiati addirittura avere proprietà di qualunque tipo a proprio nome.
Le malattie nei campi profughi sono molto diffuse: cancri, malattie del cuore, sordità e mutismo, problemi alle articolazioni, diabete, anemia, reumatismo e tanto altro ancora.
Manca quasi del tutto la sanità, tranne per piccole problematiche come l’influenza, la febbre, alcuni servizi per le donne incinte offerte dall’Unrwa per l’80% dei costi, mentre il restante 20% grava sul paziente.

L’istruzione è scadente: in una classe ci sono più di 50 studenti e con pochissimi insegnanti.
La difficoltà dell’insegnamento, ci spiega un ex insegnante, è elevata e l’utilità del servizio per gli studenti è scarsa.

Ogni passo in avanti nei campi, per noi è stato come un passo indietro per l’umanità.
L’umanità ha palesemente fallito.
La civiltà ha palesemente fallito.

Nei campi della disperazione, qualsiasi cosa, diversa dal silenzio e dall’indifferenza, può fare la differenza.

Ringraziamo i membri del convoglio Al Marhama: il presidente della Missione Al Marhama, Mohammad Hannoun, Cheikh Adel abu Rawwa, Um Tariq, Um Anas, Um Mohammad, Ahmad, Hamza, Majda e tutti gli altri di Al ghawth al Insani per aver segnato, ognuno a modo proprio, questa nostra piccola e profonda esperienza.

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