I movimenti pro Palestina oggi in Italia fra “ideologia” e pragmatismo duplice

Da Parallelo Palestina

I movimenti pro Palestina oggi in Italia fra “ideologia” e pragmatismo duplice

Milano. 25 febbraio 2017

Diana Carminati

Un’analisi dei risultati delle manifestazioni e delle iniziative degli ultimi tre anni in Italia, mette in evidenza che il livello di attenzione sulla Palestina è sceso notevolmente, anche per la frammentazione del movimento nel suo insieme. Farò qui riferimento al documento del luglio 2014. “Perché l’Italia è una provincia di Israele” (www.ism-italia.org/wp-content/uploads/Perch%C3%A9-lItalia-%C3%A8-una-provincia-di-Israele.pdf), sulle molte complicità di una rete filo sionista diffusa nel mondo politico italiano, nei media, fra gli intellettuali, gli accademici e nell’ambiente dei movimenti pro-palestinesi.

Tutto questo è anche evidente se si osserva il lento e ‘sofferto’ percorso della Campagna di boicottaggio in Italia, che cercava di impegnarsi sul BDS palestinese, dal 2005 (il 9 luglio 2005 – Action for Peace lanciò una petizione per le sole sanzioni), sino al 6 ottobre 2009, Convegno di Pisa, organizzato e ‘monitorato’ da Un Ponte per), con il “revisionismo” sempre più evidente e la frammentazione dei movimenti. Che hanno di fatto ‘smontato’ le energie. In generale, Il movimento appare ora ridotto in una posizione di difesa, moderazione, passività, rassegnazione rispetto al decennio precedente.

E questo appare emblematico di quello che è la politica della cosiddetta sinistra oggi in Italia.

Vediamone un esempio fra i molti.

Pragmatismo non ideologia

L’iniziativa del BDS-Italia del dicembre 2015, legittima sul piano formale, ma non su quello politico, organizzarsi in gruppo chiuso, aderenti che devono accettare i Principi guida del BDS-Italia: “Il movimento BDS nelle sue attività segue un approccio centrato sul rispetto dei diritti umani e della legalità internazionale, non ideologico ma pragmatico. BDS Italia promuove la partecipazione attiva di tutte le persone che si riconoscono negli obiettivi e nei principi fondativi del movimento al di là di possibili differenti posizioni su altri temi…”, cioè, prescindendo dalle opinioni dei singoli sulla questione palestinese. Si può partecipare alle azioni del BDS in Italia, sia che si accettino, o per lo meno non ci si pronunci, sulle politiche di discriminazione dello Stato ebraico, al suo interno, sia che le si denunci, senza però discuterne. Sì alla linea del BDS palestinese dei tre basic rights, ma in astratto perché poi, senza parlarne, la leadership si attiene al discorso per la soluzione due-Stati. Che è la soluzione per uno Stato ebraico che prosegue, in modo razzista, la sua politica di discriminazione, espulsione e eliminazione graduale dei nativi.

L’appello del BDS palestinese chiede che Israele sia uno Stato senza discriminazioni al suo interno, senza territori sotto occupazione militare (o come si afferma invece in Israele, territori “contesi”) e con il diritto al ritorno dei profughi. Si potrebbe dire uno Stato unico, democratico, con diritti per tutti, una testa, un voto. Ma per il movimento del BDS-Italia importante è non discuterne. Non “fare politica”. Essere il più discreti possibile, nella speranza di riuscire a parlare all’interno delle istituzioni. Mantenere la questione palestinese “in formaldeide”. Solo attività di boicottaggio.

Perché c’era bisogno di principi guida “italiani”? Che cosa si nasconde sotto questo discorso che respinge l’ideologia e proclama soltanto l’adesione ad un BDS pragmatico? Il problema si risolve soltanto con l’evitare di parlarne, di discuterne? C’è una coerenza in tutto questo? O è solo un tentativo di nascondere i problemi sotto il tappeto o la ricerca di “pillole di consolazione”? Perché No alla discussione politica? Ideologia è una brutta parola?

L’operazione eseguita a Pisa nell’ottobre 2009, sotto il cappello di Un ponte per, era stata un’operazione eminentemente politica. Sottrarre la campagna BDS in Italia a gruppi considerati ‘radicali’ (antisionisti) e ricondurre il movimento a sé e alle direttive ‘politiche’, ideologiche di gruppi e leadership filo-sioniste europee, cioè alla ECCP, organizzazione delle ONG europee, The European Coordination of Committees and Associations for Palestine.  Il 6 ottobre 2005 a Bruxelles, come è stato più volte già detto, era stato deciso non il BDS in tutti i suoi punti, ma solo la richiesta di sanzioni (che come è noto sono un compito dei governi)Tutto questo viene deciso da una parte dei movimenti italiani pacifisti, della sinistra ‘bertinottiana’, dei sindacati, legata al discorso della soluzione due-Stati, cioè alle posizioni della cosiddetta sinistra israeliana che è pur sempre sionista.

Anche questa fu un’operazione politica. Di altro segno. Si doveva tenere un profilo basso. “Non si poteva fare diversamente”. Sembrava importante, nel 2009, che i gruppi pro Palestina europei (appunto ECCP) firmassero il documento con l’appello del 2005, ‘revisionato’ a Bilbao per i movimenti in Europa, nel 2008.

Sono passati 8 anni e questo BDS italiano (meno in altre parti d’Europa) sembra, anche a osservatori esterni, anche palestinesi (v. le osservazioni e le domande di Omar Barghouti a Torino nel 2015), poco pragmatico, poco attivo, nonostante le numerose adesioni sulla carta. E questa fragilità appare pericolosa. Perché la “questione palestinese è una questione politica”, una questione internazionale, che non deve essere separata , anzi deve rimanere all’interno del contesto globale.

Che Stato è Israele

La questione politica non è una ossessione di una parte dei movimenti cosiddetti ‘antisionisti’, non è paralizzante, ma deve essere approfondita e compresa:

la soluzione due-Stati, decisa agli Accordi di Osloè una non soluzione, non solo perché è fallita immediatamente, anzi fu una trappola paralizzante per la leadership palestinese, come è stato più volte affermato da analisti palestinesi e israeliani.

Essa non è soltanto non agibile nella pratica, sul territorio, ma soprattutto perché con essa il mondo intero accetta il diritto dello Stato di Israele di essere lo Stato del popolo ebraico nel mondo, in pratica uno Stato di discriminazione, di esclusione, di apartheid per i non ebrei, uno Stato che respinge il diritto al ritorno dei profughi palestinesi. Uno stato non democratico, uno Stato che non ha una Costituzione, ma soltanto Basic Laws che non riconoscono i diritti dei gruppi non ebrei. Uno Stato fondato su basi razziali.

Come era stato affermato, sin dall’inizio del secolo 20°, nella narrazione della leadership laburista sionista, che ha costruito il progetto della Nazione ebraica, che la Terra di Israele tutta, è la terra promessa da Dio ad Abramo! Una terra nullius, dove i nativi che la abitavano erano invisibili, inesistenti. E se mai esistevano erano primitivi da “cacciare oltre i confini”. E dove si dovevano progressivamente annettere i territori che erano e sono considerati “contesi”.

Nel discorso della sinistra israeliana askenazita, negli anni ’90, a partire dagli Accordi di Oslo, e tuttora, il problema stava soltanto nella occupazione del 1967. Quindi occorreva agire per “Stop Occupation”. Finita l’occupazione o il “conflitto”, come si afferma quasi sempre anche qui in Italia, subentrerà un futuro Stato palestinese.

Questa la narrazione. Di qui l’attenzione del problema si è focalizzato da due decenni (per i movimenti pro Palestina in Italia ed Europa), sullo slogan Stop Occupation con la confusione di molti attivisti.

Su tutta la questione molti studiosi, analisti internazionali e israeliani, storici e sociologi, si sono pronunciati ormai da alcuni decenni per smontare la narrazione sionista del secolo scorso e iniziare a cambiare lessico e paradigmi.

Tuttavia la narrazione rimane l’unica diffusa dai media, dai politici, dagli accademici occidentali, della quale rimangono subalterni, per ovvi motivi politici, anche i leader dei movimenti pro-palestina e i loro seguaci.

Dove porta tutto questo? È davvero una lotta di lungo periodo e occorre la perseveranza e posizioni moderate, “riformiste”? in attesa dell’avvento del Messia? E’ l’unica possibilità, oppure la “dissimulazione” e la pericolosità di questo atteggiamento nasconde l’ipocrisia del sostegno alla soluzione ‘fantasma’ sionista. Che è tutta politica?

Reagire e cambiare ‘lessico’

  • Denunciare le complicità. Vedi le numerose reti di gruppi sionisti e filo sionisti in Italia, come in Europa, le reti politiche, nelle amministrazioni regionali e comunali, nei sindacati, fra gli intellettuali, gli accademici, gli artisti, le complicità nelle scuole. Alcuni esempi: vedi le iniziative della UDAI (Unione di Associazioni pro Israele) con le conferenze nelle scuole, i viaggi premio per giovani studenti in Israele, ecc.
  • Far emergere e respingere le narrazioni mitologiche sulla questione palestinese e insieme le narrazioni sulla frantumazione del Medio Oriente. Perché sono complementari. Cambiare il lessico sulla questione palestinese significa cambiarlo e contestualizzarlo con quello che accade ai suoi confini e nel mondo.

Non si dovrebbe più parlare soltanto di occupazione coloniale ma di colonialismo settler, come affermano studi molto noti all’estero, fra gli altri quelli di Lorenzo Veracini, docente a Melbourne. Il paradigma del colonialismo settler che si riferisce alla formazione degli Stati Uniti, dell’Australia, della Nuova Zelanda, del Canada, deve applicarsi, con le opportune distinzioni anche al progetto già pensato sin dalle sue origini dalla leadership sionista per costruire uno Stato ebraico con progressiva esclusione dei nativi arabi.

Su questo tema oggi c’è una vasta letteratura poco diffusa in Italia, ma in ogni caso rintracciabile1.

Il colonialismo classico indica il dominio di uno Stato su un territorio lontano dove esso sfrutta risorse e popolazione, il colonialismo d’insediamento indica un comunità d’interessi che costruisce un progetto di occupazione di un territorio, vi si stabilisce e ha come obiettivo finale quello di espellere gli abitanti nativi e di sostituirli con la propria popolazione, confinando i nativi in riserve o eliminandoli progressivamente. L’invito è a guardare anche a cosa sta succedendo dentro i nostri confini. In Occidente.

  • E’ necessario far rientrare la ‘questione palestinese’ nella realtà del vissuto del cittadino/a europei qui e ora:poiché ci coinvolge tutti nel progetto neoliberista e di settler-colonialism di questa fase in Europa e nel mondo: le guerre, i profughi, i migranti per povertà, il razzismo crescente, l’ascesa di politiche di destra, le espulsioni di forza-lavoro sono tutti conseguenze delle politiche violente del neoliberismo.
  • Da ricordare il recente dato ISTAT del 2016: in Italia vi sono 9 milioni di esclusi dal mercato del lavoro, e oltre 10 milioni di persone che vivono tra povertà assoluta e relativa, con una recessione economica continua, la dequalificazione del lavoro, la schiavizzazione legalizzata, il degrado della società.

Per concludere vorrei citare un mio documento del novembre 2015:

Tutt* gli/le attivist* si dovrebbero definire, dichiarandolo apertamente, come individui e gruppi di co-resistenza, con il popolo palestinese oppresso, ma anche con tutti gli oppressi del mondo, contro il neoliberismo e l’imperialismo/i globali. Perché non si può parlare di Palestina, di questione palestinese, come se fosse separata da tutto il resto.

È ormai evidente il collegamento tra le vicende tragiche delle popolazioni oppresse del mondo globalizzato. Le moltitudini di occupati, bombardati, arrestati senza motivazioni, torturati, profughi, migranti, abitanti delle terre minacciate dal cambiamento climatico, le moltitudini degli emarginati, espulsi, eliminati dalle nuove pratiche dell’accumulazione del neoliberismo, quelle che dettano le condizioni capestro, distruttive della vita e dei diritti.

Moltitudini spinte fuori nelle riserve del non lavoro e del non consumo, perciò ridondanti e perciò facilmente eliminabili. La loro resistenza è, e deve essere, la nostra, senza distinzioni. Non è solidarietà per filantropia paternalista. Poiché, molti fra noi, sono, siamo in questo presente, che è ancora e nuovamente neocolonialismo e colonialismo d’insediamento che operano come specifico modo di dominio, in un regime neoliberista mondiale che sistematicamente espropria ed espelle questa e le generazioni future. Molti fra noi, sono, siamo o stiamo per essere trattati come degli indigeni”.

Alcuni segnali mostrano come si possa uscire da questa confusione/ipocrisia:

  • ad es. la nostra esperienza nelle presentazioni del libro su “Gaza e l’industria israeliana della violenza” (Derive/Approdi 2015) e l’interesse suscitato, con una audience diversificata ma molto attenta
  • le adesioni di universitari e studenti per una dichiarazione di boicottaggio del Technion di Haifa (v. la ricercatrice di Torino in Repubblica del 23 febbraio 2017) e di altri gruppi di universitari che cercano di uscire dal limbo della solidarietà con la Palestina (filo sionista)
  • Occorre usare i nuovi strumenti di comunicazione, le tv alternative, alcuni siti, fare video e organizzare nuove manifestazioni più motivate
  • Occorre ricostruire un punto di riferimento nazionale ‘antisionista’ ampio
  • E’ necessario informarsi a livello legale, ma non subire la paura di accuse contro il BDS. Né per le accuse di antisemitismo, ma capire bene la questione di che cosa è veramente lo Stato di Israele, dalle sue origini e nella fase attuale: uno Stato di Apartheid, di discriminazione, di insediamento coloniale. E non subire le stigmatizzazioni: non si è antisionisti, radicali, antagonisti, e perciò “antisemiti” nell’affermare quello che viene progressivamente elaborato, discusso dagli studiosi, analisti della questione palestinese e della questione ebraica. Non ragionare più in termini di ‘conflitto’. Ma analizzare ciò che è avvenuto nella formazione della Nazione e della cultura ebraica per costruire lo Stato di Israele, esclusivo degli ebrei, non democratico per tutti i suoi cittadini non ebrei
  • Manifestare contro i nuovi progetti di annessione dei Territori palestinesi
  • Lanciare una campagna di denuncia contro la narrazione sionista nelle scuole

Postscriptum. A conferma di “alcuni segnali” di una situazione che sta lentamente cambiando, descritti nel mio intervento del 25 febbraio 2017, cito ora la lettera scritta al giornale israeliano Haaretz da Mira Sucharov, docente di Scienze Politiche in Canada, il 7 marzo 2017, lettera di riflessione e ripensamento sul tema del BDS, del BDS solo per i prodotti dei Territori occupati palestinesi, definito da Peter Beinart (ebreo americano, professore di giornalismo alla City University di New York), un BDS sionista, sulla soluzione dei due Stati, “prospettiva che si sta allontanando rapidamente; in particolare Sucharov scrive: “se l’idea di uno Stato ebraico ora sembra sempre più problematica alla luce della democrazia messa a dura prova in Israele e delle misure che prende per escludere, e se l’idea di chiedere un ritorno dei rifugiati [palestinesi] non sembra tanto sconvolgente per le nostre sensibilità culturali quanto poteva essere una volta, potrebbe essere tempo di un appello più convinto per la giustizia, utilizzando tutti i mezzi non violenti a disposizione”.