Muhammad Ali Taha al Salone del Libro di Torino.

Di Nadia Redoglia per InfoPal.

Provate a cercare in web Muhammad Ali Taha. Troverete Wikipedia con “traduci questa pagina”. Eppure quest’uomo, scrittore 80enne palestinese, è tra i più importanti maestri di letteratura araba. Ma lui, come gli altri, non è tradotto nelle altre lingue, dunque le sue opere non sono distribuite in occidente. Non difettiamo di traduttori, ma molto più semplicemente le case editrici preferiscono non occuparsene. Israele poi, non solo non traduce in ebraico, ma impone totale censura e spesso vere e proprie vessazioni, dalla confisca dei testi a processare e imprigionare gli autori. Non avere la possibilità di conoscere il pensiero del nostro “altro” può solo significare ignorarlo o, peggio, temerlo. Ed è esattamente ciò che oggi ci ha raccontato Ali Taha al 24° Salone del libro

Finalmente, per la prima volta nella prestigiosa kermesse letteraria, il Lingotto è riuscito a ottenere un padiglione – elegante nella sua semplicità e raffinata sobrietà – della Palestina. 

L’autore ci parla di sé con pacatezza, simpatia, entusiasmo, accogliente spirito amicale: è il suo modo di scrivere. Eppure lui ha vissuto la Nakba (di cui in questi giorni si commemorerà il 63° anniversario) che, con l’occupazione israeliana della sua terra, gli ha spazzato via l’infanzia. Gli ha rubato la casa, gli amici, i suoi ulivi e i suoi prati, le sue piccole grandi care cose, fino all’ultimo giocattolo. Come tanti altri bambini è stato scaraventato in altri spazi,  impossibili da amare perché non scelti, difficile da comprendere perché estranei. 

Nel '56, Ali Taha incontrò Mahmoud Darwish, importante scrittore e poeta, morto nel 2008. Insieme cominciarono a scrivere traducendo in poesie ciò che avevano bene in mente (e nello spirito). Ciò che furono  prima del '48, racconta della loro serenità con le loro terre fertili e dispensatrici di prodotti naturali, dei pascoli, delle campagne, il tutto in armonia con le loro tradizioni, cultura, educazione, usi e costumi dei loro padri e degli ascendenti più lontani. 

Possiamo ben immaginare come sapevano ben descrivere i protagonisti, ciò che violentemente ne prese il posto, sbattendo loro in faccia il vissuto da operazioni di  “pulizia etnica” perpetrata da Israele, e le successive dolorose, folli  condizioni dell’esilio e delle fughe. 

Tuttavia, le poesie palestinesi non contengono vittimismo, lamentazioni funeree e il piangersi addosso. Trattano certamente di dolore, ma è presentato quasi come un’offerta al lettore, affinché ne possa fare un buon uso: è invito alla condivisione, è un modo di raffinata sincerità per sottoporgli i fatti. E’ poesia appunto. Una poesia che è diritto, e probabilmente dovere, conoscere. 

Muhammad Ali Taha usa anche molto la chiave dell’ironia e, a maggior ragione, diventa ulteriore strumento per capire ancora di più. In questo modo possiamo conoscere chi è quest’uomo palestinese che ci insegna come sono e chi sono tutti i Palestinesi. In loro, nonostante tutto, insiste prepotentemente la gioia della speranza. Il lettore la può raccogliere nelle parole che sanno di cielo, mare, buona terra, pascoli, amore, canti e sorrisi. Sono inno alla pace.

Dieci anni fa Ali Taha, quale docente per quasi 40 anni, fu invitato da un’insegnante israeliana a raccontare alla classe, la sua infanzia. L’insegnante non sapeva che quella scuola era posta proprio nello stesso punto della casa che fu dello scrittore, sulla terra che gli era stata rubata. Fu Ali Taha a riferirlo ai ragazzi. Dalla finestra vedeva il suo prato, il suo pozzo dell’acqua, i pochi ulivi rimasti. Pacatamente così descrisse la sua infanzia. Gli allievi erano attenti e qualcuno gli domandò quali sentimenti provasse e  se non gli venisse voglia di buttare giù la scuola e riprendersi casa sua. Lo scrittore rispose che in 14 secoli il suo popolo aveva mai distrutto nulla e oggi intende proseguire così. Ciò che vorrebbe fortemente sarebbe il potersi costruire una casa sua accanto alla scuola, da poter condividere con il popolo ebreo la stessa terra. 

Era pur presente un professore universitario di Haifa che perentoriamente gli rispose che un ebreo tedesco non avrebbe mai potuto vivere accanto a un ebreo polacco, sottintendendo che era inimmaginabile dunque una condivisione di quel genere. 

C’è di che riflettere e non poco… Sono solo gli insegnamenti che ci inducono a pensare, a ragionare, a discuterle con gli altri, dunque a tratte le nostre sacrosante opinioni e infine decidere le nostre scelte. 

Quale ruolo ha il potere nell’influenzare la letteratura e qual è il potere che resta alla letteratura? Che differenza c’è tra mettere al rogo i libri e il nascondere i loro testi all’umanità? 

 

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