Nakba, ‘Ripensando a Israele dopo 60 anni’, di Jeff Halper.

 

Da Maan News

16 maggio 2008 

Di Jeff Halper 

Il Giorno dell’Indipendenza dell’Israele del 2008, in cui si celebra il sessantensimo anniversario della nascita dello Stato ebraico, dovrebbe rappresentare un momento di sobria riflessione e rivalutazione, e non soltanto di festa. Infatti, noi ebrei israeliani abbiamo molti motivi per festeggiare, ma la nostra impressione è ci sia qualcosa di storto in tutto ciò. I festeggiamenti per i 60 anni d’Israele sembravano forzati: la gioia trasmessa dai chiassosi altoparlanti pareva un po’ artificiale, forzata. Le celebrazioni assumevano colori sempre più trionfalistici, i toni erano più accentuati del solito. Naturalmente, né ai palestinesi né all’Occupazione è stato permesso alcun spazio nella controllatissima narrativa che ha avvolto il Giorno dell’Indipendenza. L’attenzione e le varie manifestazioni hanno puntato sul militaresco, e, a testimoniare l’esistenza di un sottile disagio, migliaia di soldati e di poliziotti sono comparsi in ogni luogo pubblico. C’era qualcosa di estraneo, qualcosa che disturbava, ma non trovava voce. Mi riferisco a ciò che chiamerò il poltergeist palestinese.

Forse il nostro trionfalismo così esplicito ha a che fare non tanto con la celebrazione quanto con l’accorgerci di un fatto sconcertante, che sta sparendo davanti ai nostri occhi la soluzione a due Stati, che addirittura Olmert aveva rivendicato come l’unica strada percorribile purché Israele rimanesse uno Stato ebraico. Chiunque abbia presente gli enormi palazzi delle colonie israeliane, la frammentazione israeliana dei territori palestinesi e l’ineluttabile processo di assorbimento di queste terre nel territorio propriamente detto israeliano, operato per mezzo di un labirinto di strade riservate all’uso esclusivo degli israeliani, e di altri “fatti sul terreno”; chiunque abbia passato un’ora in Cisgiordania vede chiaramente come stanno le cose. L’espansione della Matrice di Controllo israeliana in tutti i Territori Occupati, e lo scudo americano contro ogni pressione internazionale a favore di un ritiro significativo, hanno vanificato ogni prospettiva di uno Stato palestinese funzionante e quindi ogni prospettiva di una soluzione a due Stati.

La trasformazione dell’Occupazione in un fatto politico permanente ora sposta da Gaza e dalla Cisgiordania all’intero paese, ad un paese indivisibile, Israele/Palestina, la questione della coesistenza, della pace e della riconciliazione. Ecco dove sta il vero significati di questi 60 Anni. Perché se uno stato palestinese praticabile non può essere staccato da Israele, allora il conflitto comprende l’intero paese, dal Mediterraneo fino al fume Giordano. L’attenzione rivolta al 1948 solleva questioni che preferiamo tralasciare, avvenimenti e politiche che abbiamo rimosso in questi ultimi sei decenni.
I palestinesi fuggirono, o fummo noi ebrei israeliani ad espellerli? Se quasi la metà degli abitanti di quella parte della Palestina che l’ONU aveva assegnato agli ebrei nel 1947 erano arabi, come potevano gli ebrei trasformare quel fazzoletto di terra, pur così piccolo, in uno “Stato ebraico”? Allora, non sarà che il sionismo si sia reso effetivamente responsabile di crimini di guerra, che ci siamo resi responsabili di una deliberata e crudele campagna di pulizia etnica che si è spinto ben oltre le frontiere della spartizione? In quel contesto, l’occupazione dell’intera terra di Palestina era il frutto di un errore giordano, oppure, a distanza di quarant’anni, per usare le parole di Rabin e di molti altri, ci troviamo di fronte all’inevitabile “completamento” del 1948? Come possiamo riconciliare quel desiderio di pace che professiamo con l’inesorabile annessione dei Territori Occupati con quasi 250 colonie? Possiamo aspettarci la “vittoria”? Possiamo frustrare le aspirazioni palestinesi ad uno stato libero e permanente in terra propria, e, se vogliamo farlo, che tipo di società lasceremo in eredità ai nostri figli? Infatti, mentre affermiamo di essere i rappresentanti dell’ebraismo mondiale, possiamo chiedere alla nostra Diaspora – fondamentalmente liberale e non tribale come si presenta invece il giudaismo in Israele – di sostenere quei crimini di guerra che minano le basi morali della loro comunità, delle loro credenze e della loro fede?

Così giungiamo alla domanda più difficile di tutte: se abbiamo reso impossibile la soluzione fattibile dei due Stati – la creazione di uno stato-prigione palestinese, monco, in un territorio che copre il 15% della Palestina storica, e nel farlo abbiamo emulato il modello dei Bantustan sudafricani – come potremo porre fine a questo conflitto ormai secolare? Come potremo gestire quell’entità binazionale che è Israele/Palestina, di cui noi siamo, in grande parte, responsabili?

Abbiamo elaborati diversi meccanismi con i quali schivare tali domande. Uno di questi meccanismi sta nella nostra decisione to rimandare alle calende greche ogni soluzione politica. Per presentarci come gente che tiene alla pace, gente ragionevole, che si accontenta della mera affermazione del principio di una soluzione a due Stati. Ai sostenitori della soluzione dei due Stati non serve altro che una nozione di Stato palestinese, di un processo ineluttabile che va in quella direzione, per svincolarci dal dovere di confrontarci con la realtà che abbiamo creato. Se ci viene data la possibilità di ventilare l’idea di un possibile Stato palestinese, non dobbiamo subire pressioni. Ecco perché molti ebrei di Israele, ebrei della Diaspora ed altri  – tra cui alcune figure capaci di analisi profonde, anche di stampo radicale, come Noam Chomsky e Uri Avnery, con Peace Now, Brit Tzedek, Rabbis Michael Lerner e Arthur Waskow, nonché i rabbini per i diritti umani (Rabbis for Human Rights) – si aggrappano con tenacia alla soluzione dei due Stati: così possono ben guardarsi dall’ammettere che tale soluzione non è più proponibile.
Il 40° anniversario del 1967 riguardava l’occupazione. Se avessimo voluto affrontare la questione con saggezza e giustezza, l’Israele dei nostri giorni sarebbe stato, giustamente, uno Stato ebraico che vive in pace con i suoi vicini sul 78% della Terra di Israele, un vero motivo di festeggiamento. Quest’anno, i riflettori  vengono spostati sui 60 Anni, sul 1948, che rappresenta un problema ben diverso. Se vogliamo conservare una presenza nazionale ebraica in Palestina/Israele, dobbiamo, con coraggio, affrontare la questione degli atti da noi compiuti nel 1948 e quella della realtà binazionale che abbiamo favorito dal 1967 in poi. Non possiamo più incolpare i palestinesi per l’impasse a cui siamo giunti: già nel 1988 accettarono la soluzione dei due Stati. Invece, siamo noi, i vittoriosi, noi che credevamo (e che crediamo) che con la forza militare e con quel vittimismo ebraico avreemo potuto spezzare la volontà di libertà di un popolo, la causa della situazione in cui ci troviamo, decisamente antisionistica ed in ogni caso perfettamente prevedibile.

Solamente a condizione di saper riconciliare la nostra celebrazione con la perdita palestinese possiamo finalmente avviarci sulla strada della gestione della presenza “nel nostro paese” di altre persone con rivendicazioni e con diritti altrettanto degni di considerazione, e con ciò aprire la via ad una pace giusta, alla riconciliazione e al conseguimento, quale che ne sia la forma politica, di una presenza nazionale ebraica nella Terra di Israele. Per quanto risulti difficile, attraverso una rivalutazione di questo tipo sarà possibile il raggiungimento dell’aspirazione originale ed ultima del sionismo: un vero rimpatrio per la nazione ebraica nella culla della sua stessa civiltà. Finalmente troveranno riposo i nostri dybbuk ed il poltergeist palestinese. Sì, celebrare tutto ciò costituirebbe un momento di festa verace.

Jeff Halper è coordinaore del comitatao israeliano contro la distruzione delle case (Israeli Committee Against House Demolitions: ICAHD).

Traduzione per Infopal a cura di Alexander Synge

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