Né dentro né fuori: a Gerusalemme, un villaggio sul confine

An-Numan, Cisgiordania – Ma’an. Nella primavera del 2003, gli abitanti di an-Numan – un villaggio palestinese alla periferia di Gerusalemme Est – diedero il benvenuto a un visitatore insolito.

Un’inchiesta di Haaretz rivelò in seguito che l’uomo, Dvir Kahana, era impiegato in un’azienda privata, alla quale il Ministero israeliano dell’Edilizia aveva dato il permesso di operare ad an-Numan.

Kahana, tuttavia, si presentò ai residenti come un rappresentante ufficiale che il governo israeliano aveva inviato nelle aree interessate dal Muro di separazione, allora nelle prime fasi di costruzione.

Sotto queste apparenze, avvisò gli abitanti di an-Numan che il Muro avrebbe rinchiuso il villaggio dalla parte israeliana, e che l’unico punto di entrata e di uscita sarebbe stato un checkpoint.

Kahana aggiunse inoltre che sarebbero stati separati dalle loro famiglie e dalle scuole nei villaggi vicini, al-Khas e Bayt Sahur, e che sarebbero diventati “simili ad un albero senz’acqua”, tagliati fuori dai sistemi dell’elettricità e delle reti idriche del comune di Gerusalemme e della Cisgiordania.

Come ricordano i cittadini locali, il personaggio misterioso aveva finto di essere solidale con loro, spiegando il modo in cui le autorità israeliane avrebbero trasformato il loro villaggio in quella che un gruppo palestinese definisce una “prigione a cielo aperto”.

Tuttavia, quando Kahana ha suggerito di vendergli le loro terre e trasferirsi altrove, ha incontrato un netto rifiuto.

“Disse anche che il villaggio era destinato a trovarsi sul confine con l’Autorità nazionale palestinese [Anp] e sarebbe stato quindi sgomberato, per cui la nostra presenza lì era illegale”, riporta Jamal Sulayman Muhammad ad-Dirawi, abitante di an-Numan, in una dichiarazione legale preparata da al Haq, gruppo palestinese per i diritti umani.

Il messaggio di Kahana era chiaro: Israele avrebbe finito per prendersi quelle terre, ed avrebbe reso impossibile la vita degli abitanti locali se fossero rimasti lì.

Nove anni dopo, il Muro circonda an-Numan su tre lati. I soldati israeliani stanno di guardia ad un checkpoint posto fuori da uno degli ingressi al villaggio e controllano attentamente chi entra e chi esce.

Oltre a questo, hanno con sé una lista dei 220 abitanti e permettono solo a questi di entrare, tenendo fuori i loro parenti ed amici che un tempo si muovevano liberamente tra an-Numan ed il vicino al-Khas.

Una storia lunga e sofferta

I problemi di an-Numan cominciarono molto prima l’inizio dei lavori di costruzione. Dopo la guerra del 1967, Israele annetté an-Numan alla sua municipalità di Gerusalemme insieme ad altri villaggi palestinesi di Gerusalemme Est, con una mossa considerata illegale dalla comunità internazionale.

Agli abitanti furono però assegnate carte d’identità cisgiordane, e non di Gerusalemme, forse per un errore burocratico seguito all’annessione.

Nel 1993, a causa del loro status di “cisgiordani”, il comune li informò tramite lettera scritta che stavano vivendo illegalmente nelle loro stesse case e terre, in quanto possessori di documento d’identità della Cisgiordania.

Contro la decisione fu fatto ricorso all’Alta corte di giustizia israeliana, con la richiesta che le terre fossero riconosciute ufficialmente parte della Cisgiordania, o che fossero concesse delle carte d’identità gerosolimitane.

La corte diede sessanta giorni di tempo al comune ed al Ministero israeliano dell’Interno perché decidessero dello status di an-Numan, ma non fu presa alcuna decisione.

Per gli ultimi diciannove anni, gli abitanti di an-Numan sono rimasti in uno stato di ambiguità legale – tecnicamente residenti a Gerusalemme Est ma con documenti dell’Anp.

Nonostante le cinque case demolite dopo l’annessione, nessuno è stato trasferito forzatamente dal villaggio. Tuttavia, il rigido controllo israeliano unito al checkpoint ed al Muro di annessione sta soffocando lentamente la vita locale.

Il divieto imposto alle attività commerciali all’interno di an-Numan permette ai soldati di limitare arbitrariamente le importazioni di alimenti e materiali di base che si possono effettuare attraverso il checkpoint. Un pollo sarebbe permesso, spiega il padre di ad-Dirawi, Yusef, ma cinque potrebbero essere troppi.

Simili misure hanno spesso conseguenze pericolose. I dottori si trovano costantemente ad affrontare l’incertezza di ottenere un permesso per visitatori ordinari: un’ambulanza di Gerusalemme, ad esempio, dopo essere stata chiamata per soccorrere un ragazzino morso da un ragno, è stata fatta aspettare fuori dal villaggio, e i familiari hanno dovuto trasportare loro stessi il ragazzo al di là del checkpoint.

Al tormento del Muro si aggiunge il divieto di costruire ad an-Numan: il comune definisce infatti il villaggio “terra bianca”, ovvero area per la quale non si possono rilasciare permessi edilizi. Le strutture costruite senza permesso sono a rischio di demolizione.

Il primo edificio venne abbattuto nel 1986, e da allora l’episodio si è ripetuto quattro volte: l’ultima ha interessato la casa di Siham Shawara, nel 2010.

Siham, originaria di al-Khas, è stata peraltro l’ultima persona ad essere aggiunta alla lista ufficiale di residenti, grazie al suo matrimonio con un residente di an-Numan nel 2002.

Il Muro di separazione venne costruito un anno dopo il suo trasferimento, e quello che era stato il suo andirivieni regolare da e verso l’Università di Betlemme divenne una camminata di tre quarti d’ora per raggiungere la fermata dell’autobus – passando attraverso un checkpoint dove, un giorno, un soldato israeliano le ha fatto a pezzi il libro di chimica, sostenendo che lo stava utilizzando a scopi terroristici. Siham riuscì comunque a terminare gli studi e a laurearsi in Chimica.

Quindi, nel 2010, le autorità israeliane abbatterono la casa che condivideva con suo marito e tre figlioletti, che ora hanno rispettivamente 3, 4 e 7 anni.

Come altri nel villaggio, Siham e suo marito si rifiutano di lasciare le terre di proprietà della loro famiglia: hanno convertito una stalla in spazio abitabile, e i loro compaesani li hanno aiutati a ricostruire una casa, trasportando i materiali a piedi lungo la valle, per un punto che elude il posto di blocco – sanno bene che le autorità israeliane non lascerebbero mai entrare dei materiali edili. Ciononostante, la casa rischia ancora di essere demolita.

Ancor più significativo nella lenta morte di an-Numan è l’inevitabile calo demografico: dato che ai locali non è permesso portare i coniugi nel villaggio, i giovani sono costretti a trasferirsi all’esterno per sposarsi.

Nivin ad-Dirawi, cresciuta ad an-Numan, vive ora con suo marito ad al-Khas. Mantiene ancora la sua residenza ad an-Numan passando regolarmente dal checkpoint, in modo che gli israeliani non elimino il suo nome dalla lista, impedendole così di visitare la famiglia.

“Trasferimento forzato indiretto”

 Nessuno di questi problemi è inusuale nella cosiddetta zona di confine, ovvero le aree palestinesi che giacciono sul lato israeliano della barriera di separazione.

Ma la complicata situazione legale di an-Numan rende i residenti particolarmente vulnerabili. A causa delle loro carte d’identità cisgiordane e delle loro case posizionate in territorio israeliano, è poco il soccorso che ricevono sia dall’Anp che dal governo israeliano nell’alleviare le limitazioni imposte e nel fornire i servizi comunali di base.

Al Haq sostiene che il logoramento provocato intenzionalmente da Israele nei confronti della vivibilità di an-Numan viola la quarta Convenzione di Ginevra, che proibisce “trasferimenti forzati individuali o di massa” nei territori occupati.

Le corti internazionali hanno inoltre stabilito che il “trasferimento forzato” non è limitato alla forza vera e propria, ma può includere metodi più sottili di espulsione dei cittadini locali.

Demolizioni di case, limiti alla libertà di movimento, destabilizzazione degli accessi alle scuole, ai rifornimenti e alle abitazioni dei familiari – tutte queste misure rientrano in una politica di “trasferimento forzato indiretto”, una violazione della legge internazionale, come riporta Al Haq.

Secondo gli abitanti di an-Numan, Kahana aveva predetto che an-Numan sarebbe diventata una zona cuscinetto al confine di un futuro stato palestinese. Ma la colonia di Har Homa, che affianca an-Numan sul lato ovest, è cresciuta regolarmente nell’ultimo decennio.

Quest’insediamento israeliano, costruito su terre annesse da Israele dopo il 1967 – come an-Numan –, progetta di aggiungere circa 12.000 unità residenziali su terreni che attualmente sono dei loro vicini palestinesi.

Un’ardua battaglia

Al Haq sta attualmente lavorando con al-Numan su una petizione all’Alta Corte israeliana che cercherà di eliminare molte delle restrizioni israeliane nel villaggio.

Ma cercare giustizia nei tribunali israeliani è un’ardua battaglia. Decisioni legali precedenti non hanno fatto nulla di significativo per migliorare il livello di vita di al-Numan, e le restrizioni di Israele continuano.

Per il momento, i residenti di al-Numan stanno facendo del loro meglio per uscire da questa situazione. Come in una barzelletta: Un uomo ha lasciato la città sul suo asino per comprare due bombole di gas per la sua casa. Quando passa attraverso il checkpoint, il soldato israeliano lascia entrare l’uomo e le bombole di gas. Ma l’asino viene lasciato ad aspettare fuori. La storia, naturalmente, è vera. Ma Youssef al-Dirawi ride ancora quando immagina la scena. 

Come Kahana avvertì nel 2003, la vita è diventata dura nel villaggio. Ma nonostante la sua previsione, i palestinesi di al-Numan sono rimasti fermi al loro posto.