Negati da oltre 45 anni i diritti dei rifugiati gazawi in Giordania

 

347825CCampo profughi di Jerash (Giordania)-Ma’an. Di Aaron Magid. Muhammad ha 27 anni ed è nato in Giordania, ma la sua vita non è affatto come quella dei suoi connazionali perché, come spiega, non gode di alcun diritto politico e civile e molti lavori, come, l’insegnamento, gli sono preclusi. La causa di queste severe restrizioni risiede nel fatto che i suoi genitori si rifugiarono in Giordania fuggendo dalla Striscia di Gaza in seguito al conflitto del 1967.

«In confronto agli altri cittadini giordani, non esisto», racconta Muhammad che preferisce non rendere noto il suo cognome. La sua è una situazione disperata e tristemente diffusa. Nel Paese si contano quasi 2,1 milioni di rifugiati palestinesi. Sono circa 140.000 quelli che si trovano in questo limbo, vedendosi negati numerosi diritti e costretti a vivere in condizioni di estrema povertà.

Durante il conflitto arabo-israeliano del 1948, 350.000 Palestinesi si rifugiarono in Giordania; la maggioranza proveniva dalla Cisgiordania che all’epoca era sotto il controllo del Regno hascemita. In seguito alla sua annessione, avvenuta il 24 aprile 1950 per volere del re Abdullah I, la Nationality Law del 1954 concesse ai residenti palestinesi di origine cisgiordana la piena cittadinanza. Nel 1967, arrivò in Giordania una nuova ondata di profughi palestinesi, questa volta in fuga dal conflitto della Striscia di Gaza. Tuttavia, Amman non riservò loro lo stesso trattamento rifiutandosi di concedere la cittadinanza giordana o privandoli dei diritti civili.

Uno dei problemi principali per i rifugiati palestinesi provenienti da Gaza è rappresentato dalle restrizioni all’accesso al mercato del lavoro. Infatti, non possono lavorare come medici, ingegneri o avvocati e non possono nemmeno accedere a impieghi del settore pubblico, una delle maggiori fonti di occupazione del Paese. Di conseguenza, sono costretti al lavoro nero con gravi ripercussioni economiche.

«La loro partecipazione alla vita politica e socio-economica è molto limitata» afferma Anwar Abu-Sakieneh, funzionario dell’UNRWA (Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi), in un’intervista dal suo ufficio ad Amman. «Si sentono emarginati, inattivi ed esclusi».

Secondo un approfondito rapporto promosso dalla Commissione europea e dal ministero degli Affari esteri norvegese, le probabilità che i rifugiati palestinesi della Striscia di Gaza vivano nell’indigenza, con 1,25 dollari al giorno, sono tre volte maggiori.

Oltre alle difficoltà economiche, non godono di alcun diritto politico. A differenza dei profughi fuggiti dalla Cisgiordania nel 1948, chi ha lasciato la Striscia di Gaza nel 1967 non può votare alle elezioni o entrare in parlamento. Il passaporto temporaneo, valido per due anni, viene rilasciato senza numero. Anche le normali questioni burocratiche si rivelano difficoltose. Odeh Hussein, presidente del Comitato del campo di Jerash e lui stesso rifugiato palestinese originario di Rafah nella Striscia di Gaza, sottolinea la differenza del costo della patente per i locali. Per i cittadini giordani, infatti, la spesa è di 40 dollari, mentre per i Gazawi è di 160, quattro volte di più. Anche le rette universitarie sono notevolmente più alte per quest’ultimi perché considerati stranieri. Il risultato è che in molti a non riescono ad accedere a un’istruzione superiore.

A parole, i leader giordani offrono costantemente il loro sostegno alla causa palestinese. Il primo ministro Abdullah Ensour, dopo l’incontro di giugno con il primo ministro dell’Autorità palestinese, Rami Hamdallah, ha parlato di «un legame stretto e fraterno» che unisce Palestinesi e Giordani.

Nel campo profughi di Jerash, 48 chilometri a nord dalla capitale Amman, la situazione è particolarmente critica. Ospita quasi unicamente palestinesi della Striscia di Gaza e solo il 6% ha la cittadinanza giordana. Secondo Adam Coogle, ricercatore di Human Rights Watch ad Amman, «il campo di Jerash è uno dei più poveri e trascurati di tutta la Giordania».

Visitato in un pomeriggio torrido, si presentava con strade strette e non asfaltate piene di rifiuti, gruppi di bambini, sparsi per tutto il campo, seduti in strada senza far niente e famiglie che vivono in corridoi angusti.

Allestito dopo il conflitto del 1967 per 11.500 Palestinesi in fuga dalla Striscia di Gaza, il campo di Jerash non è mai stato ingrandito, mentre il numero di rifugiati è raddoppiato, salendo a 24.000. L’88% non ha assicurazione sanitaria e le dimensioni medie delle abitazioni, pari a 5,8, sono maggiori rispetto agli altri campi profughi in Giordania per i Palestinesi.

«Quando fu aperto nel 1967, in molti credevano che sarebbe stato mantenuto per cinque anni al massimo. Si credeva che la questione palestinese sarebbe stata risolta» spiega Odeh.

Gli abitanti continuano a lamentarsi per il sovraffollamento e per la conseguente mancanza di privacy. «Siamo uno attaccato all’altro» sospira Muhammad. «Una sola parete di dieci centimetri separa un rifugio da quello dei vicini, così si sentono tutti i rumori e anche gli odori della cucina».

Se le condizioni del campo sono così difficili e se gli abitanti hanno il permesso di lasciarlo, perché 24.000 Palestinesi decidono di rimanerci? Mahmoud spiega che l’affitto è notevolmente più basso, alcune famiglie pagano solo 28 dollari al mese. Trasferirsi ad Amman significherebbe pagare 280 dollari al mese, dieci volte di più. A causa delle infinite restrizioni imposte dal governo, i rifugiati faticano a trovare un impiego con una retribuzione accettabile. Solo pochi, quindi, possono permettersi un affitto al di fuori del campo.

Negli ultimi anni, il governo giordano ha fatto alcuni passi per migliorare la situazione dei rifugiati gazawi. Nel 2007, il Gabinetto ha concesso l’assistenza sanitaria gratuita ai bambini minori di sei anni. Adesso è possibile richiedere l’esenzione alla Corte suprema per la cura dei tumori e la dialisi. Nonostante ciò, il tasso di disoccupazione è preoccupante e le restrizioni per l’accesso ai lavori della classe media dimostrano che ci ancora ampi margini di miglioramento.

Coogle avverte: «Considerando la particolarità della storia e della situazione di questi rifugiati, che non possono tornare ai loro luoghi d’origine, la Giordania dovrebbe riservare dei posti di lavoro in settori protetti». Inoltre sostiene che il governo potrebbe ridurre le rette universitarie per i Gazawi che sono decisamente più alte di quelle dei cittadini giordani.

Il trattamento carente riservato ai Gazawi è un atteggiamento diffuso nella politica per i profughi palestinesi.

Nel gennaio 2013, il primo ministro giordano Abdullah Ensour ha ammesso che il Regno Hascemita impedisce l’ingresso dei rifugiati palestinesi in fuga dal sanguinoso conflitto in corso in Siria. Al quotidiano arabo Al-Hayat, con sede a Londra, Ensour ha comunicato che «Il sovrano ha deciso esplicitamente di non permettere ai nostri fratelli palestinesi con passaporto siriano di varcare il confine giordano. Devono restare in Siria fino al termine della crisi».

Alla domanda su quali misure adotterebbe per migliorare la situazione dei rifugiati palestinesi di Gaza, Odeh ha esortato il governo a «trattare i residenti del campo come cittadini giordani sotto ogni punto di vista: occupazione, salute ed educazione».

Nonostante le numerose richieste, il Dipartimento giordano per gli affari palestinesi si è rifiutato di commentare.

I leader giordani hanno esortato ripetutamente i Palestinesi affinché cancellino la divisione tra Cisgiordania e Striscia di Gaza ponendo termine al conflitto tra Fatah e Hamas. Appare ironico, però, che proprio Amman contribuisca ad aggravare il divario esistente riservando ai rifugiati gazawi un trattamento di gran lunga peggiore rispetto a quelli cisgiordani.

Aaron Magid è giornalista ad Amman. Ha conseguito un master sui Paesi medio-orientali all’università di Harvard. I suoi articoli sono pubblicati su Al-Monitor, New Republic, e Daily Star (Libano). Per contattarlo su Twitter: @AaronMagid.

Traduzione di Silvia Durisotti